Nelle tredici condizioni, poste con l’ultimatum di fine di giugno al Qatar, dalla coalizione degli Stati sunniti, guidati dall’Arabia Saudita (su cui CIPMO ha organizzato per oggi martedì 10 ottobre un incontro pubblico a Milano), era scomparsa una richiesta che invece era stata avanzata all’inizio della crisi, un mese prima: la rottura dei rapporti con Hamas.
Restava invece la richiesta di porre fine al sostegno al gruppo libanese di Hezbollah, così come ai Fratelli musulmani e all’Isis, e quella di congelare i rapporti con l’Iran.
Non si trattava certo di una dimenticanza: tra i firmatari dell’ultimatum vi era l’Egitto, che in quegli stessi giorni stava sviluppando un negoziato parallelo proprio con Hamas. La foglia di fico utilizzata erano i cambiamenti apportati da Hamas alla sua Carta, un mese prima, in cui dichiarava di non considerarsi più parte dei Fratelli musulmani, e di accettare come ipotesi transitoria la creazione di uno Stato palestinese lungo i confini del ’67.

L’arrivo della delegazione dell’ano a Gaza il 2 ottobre
Il negoziato con il gruppo islamico si concluse il 5 luglio con un accordo, che prevedeva da parte egiziana l’invio di carburante per supplire ai tagli imposti dalla Autorità palestinese sulle forniture di energia elettrica e l’apertura del Valico di Rafah, in cambio del sostegno di Hamas contro gli insorti jihadisti nel Sinai. Veniva previsto anche il varo di un Comitato di emergenza per favorire la ricostruzione di Gaza, convogliando gli aiuti provenienti dagli Emirati, dell’ordine di diversi milioni di dollari, di fatto gli unici arrivati per la riparazione delle abitazioni nella Striscia. Un canale di finanziamento da tempo messo in piedi da Mohammed Dahlan, acerrimo rivale di Abbas, che l’aveva espulso da Fatah, provocando di fatto la scissione del movimento palestinese. Dahlan, che era stato lo sponsor dell’accordo tra Egitto e Hamas, veniva chiamato a presiedere il Comitato, mentre per coordinarne il lavoro nella nella Striscia era previsto il rientro di un suo uomo, Samir Masharawi.

Mohammed Dahlan
Il rivale di Abbas è da tempo il leader palestinese preferito dai maggiori Stati sunniti, dall’Egitto, all’Arabia Saudita, alla Giordania, agli Emirati, che già all’epoca del Congresso di al Fatah, nel dicembre 2016, avevano cercato senza successo di favorire una sua riconciliazione con Abbas, e al rifiuto del presidente palestinese decidevano di inviare delegazioni di infimo livello in loro rappresentanza.
L’accordo raggiunto tra Egitto e Hamas ne consolidava il Regime a Gaza, prefigurando, di fatto, una soluzione a tre Stati, Israele, Cisgiordania e Gaza: la soluzione probabilmente preferita da Israele, con cui peraltro sono a uno stadio avanzato le trattative, sempre mediate dall’Egitto, per lo scambio di prigionieri e di combattenti caduti in questi anni. Israele di fatto vuole che Hamas resti al potere a Gaza, perché sa che, se il regime di Hamas crolla, sarebbe sostituito da gruppi jihadisti ancora più agguerriti. Teme anche che una ritrovata unità palestinese, con il ritorno dell’Autorità palestinese a Gaza, possa imprimere un’accelerazione all’iniziativa di pace del presidente Trump.

Abu Mazen (Mahmoud Abbas)
Tuttavia, l’Egitto non poteva permettersi di abbandonare così clamorosamente il presidente palestinese al suo destino, e passare come il fautore della spaccatura definitiva del movimento palestinese. Da qui, la svolta di settembre: il nuovo tentativo di riconciliazione interpalestinese è stato promosso con grande enfasi, e anticipato nei giorni scorsi dalla visita a Gaza del primo ministro Rami Hamdallah, alla testa di una folta delegazione di esponenti dell’Autorità palestinese: la prima dopo il colpo militare del 2007 che assicurò ad Hamas il potere sulla Striscia.
Hamas, indebolito dal blocco dei finanziamenti provenienti dal Qatar, vuole liberarsi del peso e della responsabilità di farsi carico della popolazione di Gaza, anche se la ripresa delle relazioni con l’Iran, nell’agosto scorso, ha assicurato un rinnovato flusso di finanziamenti, solo in parte sostitutivo, tuttavia, di quello oramai cessato del Qatar.

Rami Hamdallah
Ha quindi accettato di sciogliere il proprio Comitato amministrativo che, di fatto, governa Gaza, e di cedere al governo ufficiale palestinese l’amministrazione della Striscia, con la gestione di tutti i problemi attinenti la vita quotidiana della popolazione, che si erano fatti sempre più assillanti e insostenibili, anche per le sempre più pesanti sanzioni imposte da Abbas: dal blocco dei pagamenti per le forniture elettriche israeliane, al taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici, alle stesse forniture mediche. Verrebbero passati anche i poteri riguardanti le forze di polizia e i problemi di sicurezza interni.

Ismail Haniyeh
Hamas si è detto altresì pronto a partecipare a nuove elezioni, che permettano di superare la scissione del movimento palestinese, candidandosi così alla guida complessiva dell’Autorità palestinese: un’ipotesi non impossibile, dato che l’indice di impopolarità di Abbas, secondo gli ultimi sondaggi, ha oramai raggiunto il 67 per cento.
I negoziati, iniziati in questi giorni al Cairo, partono però in salita, e gli eventuali accordi raggiunti risulteranno comunque fragili e temporanei, anche se hanno ricevuto l’importante se pur condizionato avallo del segretario di stato statunitense RexTillerson e dell’Alto rappresentante della Ue Federica Mogherini.
Se infatti l’organizzazione islamica tende ad accentuare il suo ruolo di movimento politico, essa vuole conservare il suo carattere di forza centrale nella resistenza anti-israeliana, mantenendo intatto il suo potenziale militare, gestito attraverso le Brigate Ezzedin-al Qassam, forti di oltre 25.000 uomini, e dotato di un imponente arsenale di armi e missili, e di una oramai rinnovata rete di tunnel sotterranei, diramati lungo tutta la Striscia e che si estendono probabilmente anche verso Israele.
Ma è precisamente questo punto che il presidente Abbas contesta, quando afferma che non può accettare per la Palestina una soluzione alla libanese, ove Hezbollah partecipa alla vita politica e al governo e contestualmente gestisce autonomamente la maggiore forza militare del Paese. Abbas aggiunge anche che ogni aiuto alla Striscia deve essere canalizzato attraverso il governo ufficiale e che non ci deve essere alcun coinvolgimento straniero nella sua amministrazione (un indiretto ma esplicito riferimento al ruolo svolto dal suo acerrimo rivale).

Abdel Fattah al Sisi
Abbas sa che la sua presidenza decennale volge ormai al termine, vuole lasciare il legato di aver ricostruito l’unità palestinese e ripreso il controllo su Gaza: una carta su cui intende peraltro far leva per favorire e gestire future trattative con Israele. D’altra parte non può permettersi di respingere frontalmente l’iniziativa negoziale dell’Egitto, contrapponendosi così al presidente al-Sisi. La stessa considerazione vale per Israele, che, malgrado le proteste verbali dei suoi esponenti contro il tentativo di accordo interpalestinese, non vuole opporsi frontalmente a una iniziativa egiziana, dati i profondi rapporti di collaborazione esistenti. Non a caso la missione diretta a Gaza, guidata dal premier Hamdallah, è stata fatta passare senza intralci alle frontiere.
Lo stesso Dahlan, che oltre all’appoggio dell’arco sunnita può contare su antichi e consolidati rapporti con gli apparati di sicurezza israeliani, non si sente certo emarginato dagli sviluppi in corso. In questi giorni è tornato a far sentire la sua voce, attraverso una delle sue rare interviste, sostenendo che la soluzione a due stati è oramai impossibile. L’uomo aspetta il suo turno.

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