Vite spezzate sognando la patria libera

Mentre s'infiamma la Catalogna, "Patria" di Fernando Aramburu rivisita la tragedia basca attraverso il vissuto di due famiglie. Vittime e carnefici: vite intrecciate in un'architettura narrativa di sapiente montaggio
ROBERTO ELLERO
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Ora che tiene banco la possibile secessione catalana, vicenda ancora pacifica – manganellate della guardia civil a parte – ma dagli esiti imprevedibili, la ben più cruenta questione basca sembra un ricordo del passato, tanto che l’attuale presidente di quella comunità autonoma figura in prima fila tra i possibili mediatori fra Barcellona e Madrid. A farvi ritorno, ricordandoci che di un passato assai prossimo stiamo pur sempre parlando, è Fernando Aramburu con “Patria”, romanzo notevole, apprezzatissimo in Spagna e fuori, nelle nostre librerie per le cure di Ugo Guanda Editore, traduzione di Bruno Arpaia. Basti dire che la cessazione della lotta armata da parte dell’Eta, dopo quattro decenni di attentati e di azioni terroristiche, risale all’ottobre del 2011, con lo smantellamento delle relative strutture logistiche e operative ufficializzato soltanto quattro anni dopo (luglio 2015). Ieri, insomma.

Miren e Bittori: amicissime da ragazze, in un paesino alle porte di San Sebastián, senza grilli per la testa e persino l’idea un po’ matta di dare insieme i voti per andarsene a vivere in convento. Cose che si dicono. Piuttosto la famiglia, più fortunata socialmente Bittori, andata in sposa al Txato, a capo di un prospera impresa di trasporti, meno Miren, che ha avuto in sorte Joxian, uomo mite ma di scarsa intraprendenza. Restano amiche anche dopo il matrimonio, tanto più che i mariti solidarizzano volentieri la domenica in sella ad una bicicletta e poi davanti ad un piatto di prosciutto, in una qualche trattoria di montagna. Piccole grandi differenze di classe, tutt’al più un pizzico di invidia o di commiserazione. L’importante è la salute. E i figli, naturalmente, il loro avvenire. Che altro, sennò?

Il tran tran della solita commedia umana, gli alti e bassi della vita. Non fosse che siamo nel
País Vasco, ovvero in Euskadi, per molti baschi una vera e propria patria, la Patria del titolo, riconoscibile per prima cosa da quella lingua “altra”, strana e certamente non neolatina, che rimanda alla notte dei tempi, e comprendente le tre province di Bilbao, Vitoria/Gasteiz e San Sebastián/Donostia, ma anche la Navarra (Pamplona) e un bel pezzo di limitrofo territorio francese.

E siamo negli anni del Gora Eta, di massima intensità della lotta armata intrapresa da
quegli incappucciati che ogni tanto compaiono in televisione per rivendicare le loro imprese, invariabilmente sanguinarie.

Fernando Aramburu

L‘acronimo sta per Euskadi Ta Askatasuna, Paese Basco e libertà. Sognano una patria libera e socialista, in buona parte sono giovani. E quando cadono in qualche conflitto a fuoco o vengono presi, destinati a marcire nelle galere dell’Andalusia, i loro ritratti vanno a decorare l’arredo urbano dei villaggi baschi. Eroi. Anche se la fase epica s’era forse chiusa tanti anni prima, nel 1973, a Madrid, con l’attentato al delfino di Franco, l’ammiraglio Luis Carrero Blanco, nel corso di quella “Operazione Ogro” poi raccontata al cinema nel 1979 dal nostro Gillo Pontecorvo, con Gian Maria Volonté nel ruolo di Ezarra, il caposquadra “critico” di quella cruciale operazione. Ora, gli etarras ammazzano volentieri anche i poveri cristi, poliziotti di quartiere e consiglieri comunali del Partito popolare o socialista, qualcuno che ha parlato troppo o imprenditori stufi di pagare il pizzo, che loro chiamano imposta rivoluzionaria. Godono di ampio appoggio popolare, almeno in apparenza. Forse, soprattutto, paura e omertà.

I figli, dicevamo, distribuiti fra le due famiglie, con la loro voglia di evadere dagli opprimenti ambienti aviti e con le loro fragilità, assai più marcate quando velate dalle ambizioni muscolari. Joxe Mari, figlio di Miren e Joxian, bulleggia per il paese, avvicinandosi pericolosamente al baratro. Dapprima quasi un gioco, azioni per lo più dimostrative, poi si fa sul serio: la clandestinità in Francia, per imparare il “mestiere”, e l’immancabile ritorno, da cellula combattente, con piena libertà di manovra: facciano pure fuori chi credono e chi vogliono, l’importante è tenere alta la tensione, mettere paura agli “occupanti”, presidiare con ogni mezzo il territorio, alimentare una leggenda rivoluzionaria mai doma. A finire nel mirino anche il Txato, che pensa in basco e non ha mai fatto politica, colpevole però di non lasciarsi spennare dagli etarras, crivellato di pallottole a due passi da casa. Quella casa che la moglie Bittori sarà costretta ad abbandonare, isolata da tutti. Il biasimo, paradossalmente, è per le vittime, la solidarietà per i carnefici: se l’hanno ucciso qualche ragione ci sarà, e anche lei avrà le sue colpe. La pensa decisamente così anche Miren, “patriota” sfegatata da quando il figlio Joxe Mari ha abbracciato la lotta armata, finendo poi in galera. Anni dopo, Bittori troverà la forza per farvi ritorno, costi quel che costi. E non per vendetta, piuttosto per bisogno di verità.

L’assassinio di Txato è lo spartiacque del romanzo, che peraltro non procede in maniera cronologica, lineare. Le sue oltre seicento pagine si dispiegano in centoventicinque brevi capitoli, spesso ellittici e soggetti a continui salti temporali, scritti in forma quasi diaristica e polifonica, dando conto del punto di vista e del vissuto dei diversi personaggi, le cui esistenze restano inevitabilmente intrecciate, tutti segnati da quel tragico evento: tanto i figli di Txato (Nerea, che s’illude di poter mettere la propria vita a debita distanza dai fatti, e Xaber, medico affermato ma uomo irrisolto), quanto i fratelli di Joxe Mari (la vitalistica Arantxa, pur duramente toccata dalla malattia, e il più giovane Gorka, sensibile e intellettualmente dotato).

“Patria” non è un romanzo storico, non dà giudizi e non cerca spiegazioni. La sua grandezza, anche di scrittura – quel fluire del parlato e del monologo interiore che si fa racconto persino a dispetto della sintassi e dei congiuntivi – consiste nel dar conto di una tragicità del tutto involontaria: la Storia potrebbe tranquillamente fermarsi sull’uscio di casa se non irrompesse per suo conto nelle vite di tutti. L’architettura narrativa è nella sapienza del montaggio. Il senso ultimo, in una riconciliazione mai sbandierata e mai troppo invocata. Eppure necessaria. Intimamente necessaria. Quasi una liberazione per tutti.

Vite spezzate sognando la patria libera ultima modifica: 2017-10-11T16:27:24+02:00 da ROBERTO ELLERO
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