Referendum Veneto. Le ragioni del Non Voto

Sì all’autonomia differenziata, no all’avventurismo cripto-indipendentista. Un dirigente del Pd veneto ci spiega le ragioni per non votare alla consultazione del 22 ottobre.
GIOVANNI TONELLA
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Basterebbe il richiamo simbolico al 22 ottobre 1866 quale giornata dell’annessione del Veneto al Regno d’Italia o la vicenda da romanzo di fantascienza dei vaccini per farci sentire la puzza di bruciato e non partecipare al referendum di Zaia del 22 ottobre. Basterebbe una sana militanza filo-scientifica e un pizzico di orgoglio patriottico. Basterebbe un richiamo semplice ad elementi comuni di prudenza e buon senso, quelli che ci consigliano ad esempio di non fare una curva molto stretta a folle velocità o di non andare a fare una scalata in montagna quando imperversa un temporale con tuoni, lampi e fulmini.

Basterebbe poco. L’istinto dell’uomo che evita il pericolo. Ma molto spesso si deve articolare una riflessione per arrivare alle stesse conclusioni. Cercherò di farlo.

Innanzitutto partiamo dai fatti. Come sappiamo il 22 ottobre siamo chiamati ad esprimerci sul quesito referendario che chiede in maniera anodina se siamo d’accordo con ulteriori forme di autonomia. Da cosa nasce questo referendum? Il quesito che sostanzia il referendum consultivo del 22 ottobre

Vuoi che alla Regione Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?,

è uno dei cinque quesiti della lr n. 15 del 2014, sopravvissuto alla pronuncia di incostituzionalità di tutti gli altri quesiti soltanto perché la Corte lo ha interpretato nel senso che le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” – frase identica ancorché parziale a quella dell’art. 116, comma 3 Cost. – possono riguardare soltanto le materie specificamente indicate nel testo costituzionale; si deve poi ricordare che contestualmente la Corte ha bocciato invece un’altra legge della Regione Veneto, la 16 del 2014, quella che invece istituiva un referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto, due leggi legate da una solidarietà politica, quella della maggioranza politica che le ha partorite e quella della cultura politica sottostante.

Possiamo affermare che probabilmente la Corte costituzionale ha sottovalutato il nesso esistente tra il quesito ammesso e gli altri quesiti contenuti nella stessa legge e respinti in quanto miravano alla “distrazione di una cospicua percentuale della finanza pubblica generale per indirizzarla ad escluso vantaggio della Regione Veneto e dei suoi abitanti”. E profilavano “alterazioni stabili e profonde degli equilibri della finanza pubblica, incidendo così sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica”. Come dimostra il fatto che nel senso comune – e negli stessi atti difensivi della Regione – si interpreta questo referendum come uno strumento per chiedere ed ottenere maggiori risorse e uno statuto “quasi speciale”.

Tuttavia nella pronuncia della Corte il quesito ammesso non ha alcun riferimento a) all’adozione costituzionale di un regime di specialità per la Regione Veneto; b) alla questione del residuo fiscale; c) ad una procedura speciale della trattiva ai sensi dell’art. 116, comma 3, della Costituzione che incorpori l’esito referendario.

Insomma si potrebbe perfino evidenziare che il quesito ammesso dalla Corte costituzionale nonostante riprenda letteralmente (ma parzialmente) il testo dell’art. 116, comma 3, non sfrutta per nulla le potenzialità di quell’articolo, che consente un’autonomia regionale differenziata e potenziata, nonostante quella riforma sia stata largamente approvata con il referendum confermativo del 2001 (e la popolazione del Veneto in termini elettorali si è comportata nel medesimo modo).

Ciò significa che il referendum non sfrutta le potenzialità di un percorso legato alla Costituzione e invece rimanda ad uno sfondo di significato chiaramente diverso da quello dell’autonomia differenziata prevista dalla Costituzione.

Ora se questo è il piano descrittivo, ci sono una serie di aspetti che mi inducono ad appellarmi al popolo di centrosinistra (e non solo), al popolo democratico, per chiedere di non partecipare al referendum del 22 ottobre.

Credo che una forza politica deve avere sicurezza di sé e della propria autoefficacia, di poter incidere sulla storia e sugli eventi, con una propria proposta, con una propria analisi, non adeguandosi supinamente ad una logica di marketing elettorale che insegue una opinione non raffinata di una cittadinanza disinformata.

Per carità, la cittadinanza potrebbe anche essere assolutamente informata, ma potrebbe in maggioranza rispondere in una determinata maniera semplicemente perché segue un sistema di valori su cui si ha il dovere di esprimere opposizione o contrarietà. In ogni caso il senso di autoefficacia consiglia di credere nelle proprie idee e di non rispecchiare sempre le idee altrui. Si ha il dovere del discernimento, direbbe papa Francesco.

Se questo è il punto di partenza, quali sarebbero le ragioni per sostenere una strada di autonomia in Veneto? Le uniche plausibili sarebbero quelle che con serietà proseguissero l’impostazione dell’autonomia differenziata secondo le coordinate della carta costituzionale.

È vero che, storicamente parlando, dopo la riforma del 2001 la Corte costituzionale ha definito il punto di equilibrio, competenza per competenza, tra Stato e regione, specialmente sulle cosiddette competenze concorrenti, ed è altrettanto vero che è emersa nel tempo la consapevolezza che alcune competenze, si pensi alla politica energetica o a quella sulla ricerca, non possono che avere una scala nazionale (se non europea: si pensi alla politica militare), oppure si pensi come un’eccessiva articolazione delle differenze gestionali mini di fatto i livelli essenziali di assistenza e la ricerca programmatica costituzionale di garantire l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, come destinatari dell’efficienza delle politiche pubbliche.

Si potrebbe anche dire, sulla scorta di nozioni teoriche e proposte della scienza dell’amministrazione, che servirebbe una capacità di definizione degli standard comuni e una capacità di diffusione, secondo i canoni dello sperimentalismo democratico, delle migliori pratiche.

Insomma sarebbe opportuno introdurre una rivoluzione copernicana nella logica politica, uscire dal principio del potere e dell’autonomia e accedere al principio dell’efficienza e del buongoverno. In ogni caso la ragione per dire sì all’autonomia si fonda nell’ambito dell’autonomia differenziata, al fine di definire, in base ad una seria analisi costi-benefici e ad un confronto con le forze sociali ed economiche, quali competenze richiedere allo Stato, come sta facendo l’Emilia-Romagna. Ma non pare che questo sia il caso del Veneto. E perché non è il caso del Veneto?


1 Questa autonomia non è quella del 2001, e nemmeno del 2007: è l’autonomia di risulta delle leggi regionali del Veneto del 2014 sopra richiamate e nella sostanza bocciate integralmente dalla Corte costituzionale.

Se fosse l’autonomia della riforma del Titolo V del 2001, su cui peraltro ci siamo già pronunciati come corpo elettorale nazionale nel 2001, si potrebbe dire che il referendum consultivo di ottobre fa spendere alla collettività quattordici milioni di euro per ribadire un “Sì” già dato.

Se fosse l’autonomia differenziata della deliberazione regionale n. 98 del 2007, a cui aveva dato il suo assenso anche il centrosinistra di allora in consiglio regionale e che impegnava il presidente della Regione Veneto ad aprire la trattativa con il Governo ai sensi della Costituzione, saremmo di fronte ad un elemento di continuità, ma anche d’imbarazzo: c’era già un accordo sulla trattativa, delle competenze individuate, ma per dieci anni non si è fatto nulla. Diremmo un caso di inefficienza politica e di mancanza di rendicontazione.

Ma purtroppo non siamo in uno stato d’imbarazzo, no, la situazione è diversa: questo referendum non nasce logicamente da quella deliberazione, sarebbe veramente curioso e incredibile se così fosse, ma nasce appunto da ciò che è sopravvissuto delle leggi del 2014, che avevano tutte una logica di rottura costituzionale, o in termini di indipendentismo o in termini di rottura del federalismo solidale. Ma se questo è il significato del referendum, la storia e la cultura politica autonomista e federalista del centrosinistra veneto (e italiano) non ha nulla a che vedere con questo referendum: non è un referendum che esprime una continuità culturale e storica, anzi è un referendum che vi si contrappone, per un elementare dato di onestà intellettuale.

2 Non è accettabile inseguire, seppure con la logica consultiva, la mitopoietica del popolo veneto: noi vogliamo l’Europa, non le piccole patrie.
È indicativo l’atteggiamento leghista sulla Catalogna.
Vi è un problema di sensemaking.
Secondo l’autonomia differenziata, il popolo italiano per realizzare la Costituzione ed il suo programma prevede la valorizzazione delle autonomie. Ma questo in una dimensione di solidarietà nazionale, anzi l’autonomia è uno strumento per affermare i valori di solidarietà.

Non è invece uno strumento per rompere l’unità politica del popolo italiano e introdurre la logica dell’autodeterminazione dei popoli quali diritto naturale, peccato che tra i popoli in questione ce ne sia uno che non è tale: il popolo veneto. Lo stesso Statuto del Veneto, che comunque è sotto-ordinato alla Costituzione, non parla in termini costituenti e di rottura nazionale di popolo veneto. Continuare a legittimare il popolo veneto come soggetto politico costituente, a compararlo con il popolo catalano, scozzese ecc. è certamente legittimo per un disegno politico di rottura politica rivoluzionaria (con tutto quello che comporta come conseguenze politiche ed economiche e di utilizzo e mobilitazione della violenza legittima e illegittima), ma non ha nulla a che vedere con l’autonomia differenziata riconosciuta dalla Costituzione.

Il nostro orizzonte non è quello delle piccole patrie, è l’Unione Europea, è una politica di cooperazione internazionale, con il superamento dei nazionalismi. Figurarsi se possiamo essere disponibili a regredire ai micro-nazionalismi.
Insomma abbiamo altri miti politici o più prosaicamente altri ideali da alimentare!

3 Come sopra ricordato in termini descrittivi il quesito di per sé, se incastonato nella Costituzione italiana, non ha alcun richiamo e nesso con la questione del residuo fiscale. Tuttavia è interessante discutere l’argomento del residuo fiscale: in termini di fondazione e argomentazione per un’idea di giustizia regolativa è accettabile? Il centrosinistra non dovrebbe invece partire da principi di ordine diverso, non utilitaristici e non vincolati a primati territoriali subnazionali?

Mi pare che sarebbe necessario recuperare elementi di normativismo diversi da quello sottostante all’argomento del residuo fiscale.
Non possiamo accettare la dinamica della lotteria naturale su base subnazionale! Lo standard di riferimento è l’eguaglianza in termini di livelli essenziali di assistenza e di servizi garantiti per tutti! Lo standard di riferimento è il programma costituzionale! Non si può certo immaginare che la giustizia sia dare di più a chi produce e guadagna di più, come tra le righe afferma la logica del residuo fiscale.

Ad esempio basterebbe richiamarsi al principio di differenza di Rawls (la diseguaglianza economica è giustificabile fin quando permette di migliorare le opportunità e le condizioni di vita per tutti, in particolar modo per i più diseguali) per comprendere come siamo fuori strada e che l’impostazione non dovrebbe prendere a riferimento i territori, bensì gli individui. Casomai servirebbe uscire da logiche storiche, non standardizzate, da logiche che dal punto vista burocratico non garantiscono l’efficacia e l’efficienza e le pari opportunità di accesso ai servizi.

Tra l’altro si potrebbe perfino affermare che il residuo fiscale, lungi da essere un indicatore univoco (ci sono diverse letture a seconda di come lo si interpreta e infatti ci sono diverse cifre), non è tanto un indicatore che dovrebbe scandalizzare per quanto il Veneto dà in più alla collettività nazionale, quanto un indicatore di come il Veneto potrebbe fare meglio come attrattore di imprese e di dinamismo economico.

4 Vi è il tema specifico sulla qualità del dibattito pubblico e sul referendum in sé come strumento che ci consiglia il non voto. Mi pare evidente che si dovrebbe partecipare al dibattito pubblico migliorandone la qualità: ciò implica non concedere nessuno spazio ai semplicismi e alla superficialità. Pertanto non dovrebbe essere accettato un quesito talmente ambiguo e indeterminato.

Un quesito che dal punto di vista cognitivo lascia aperta qualsiasi determinazione e diventa una sorta di metafora generativa di qualsiasi cosa. Ma è possibile che ci si pronunci su qualcosa di indeterminato? Questo non significa dare una autentica possibilità di espressione ai cittadini: significa strumentalizzarli. L’interpretazione la dà chi li chiama a pronunciarsi! Si tratta di una delega in bianco a Zaia.

Ci fidiamo? Io francamente no. Anche perché Zaia potrebbe dare corso a quanto già deciso nel 2007 e comunque iniziare la trattativa secondo la previsione costituzionale. Ma non lo fa. E non è chiaro sulle competenze, oscillando tra l’invocazione ad averle tutte alla richiesta di specialità di natura altoatesina.

Volendo in realtà il mandato elettorale Zaia l’aveva già per la trattativa, o per formulare una proposta: invece aspetta il popolo che è chiamato a pronunciarsi su qualcosa di indeterminato per poi usarlo a piacimento. Un referendum consultivo serio sarebbe un referendum con un quesito determinato, chiaro, che addirittura mettesse in evidenza le alternative.

Nulla di tutto questo.

Si chiama referendum consultivo ed è invece la solita prova, ennesima, di democrazia plebiscitaria, con l’aggravante che i politici in questione non si assumono la responsabilità dell’inazione, del non aver fatto nulla, vogliono solo l’autorizzazione a rimanere nelle loro comode poltrone.

Servirebbe cambiare punto di vista e volere l’efficienza, altro che un’autonomia che diventa il comodo alibi o specchietto per le allodole per continuare nel malgoverno.

Ecco in base a queste argomentazioni che evidentemente producono di per sé nell’analisi una direzione diversa del pensiero e dell’azione (proporre un percorso simile a quello dell’Emilia Romagna, ritornare alla radice costituzionale dell’autentico autonomismo e federalismo, riscoprire una politica di promozione della giustizia redistributiva e migliorare la qualità del dibattito pubblico e l’esercizio della democrazia) assumo una decisione e mi induco a fare l’appello: NON andiamo a votare il 22 ottobre.

Non diamo forza all’avventurismo e alla demagogia di Zaia.

Cerchiamo di recuperare serietà: la politica ne ha bisogno.

Referendum Veneto. Le ragioni del Non Voto ultima modifica: 2017-10-12T19:03:09+02:00 da GIOVANNI TONELLA
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