Curioso come i media occidentali – tranne qualche rara quanto autorevole eccezione, vedi ad esempio l’Economist – continuino di fatto a ignorare la Cina.
Intendiamoci, della Cina si parla eccome. Soprattutto in questi giorni che preludono all’apertura dei lavori del XIX Congresso del Partito comunista cinese. Quei pochi giornali italiani che hanno ancora un corrispondente, come Corriere e Repubblica (il glorioso Sole 24ore pare invece abbia deciso di chiuder il proprio ufficio) raccontano con lo stesso entusiasmo, e forse maggiore approssimazione, le gesta di Xi Jinpin come a suo tempo facevano i loro colleghi da Mosca, attenti ai movimenti, spesso impercettibili, del Pcus. Attenti a cogliere le più piccole sfumature su chi si siede accanto a chi, chi appare e chi scompare, chi entra e chi esce dal Comitato centrale, dal Politburo e soprattutto, e qui fioccano già le “anticipazioni”, dalla Commissione permanente, il vero “governo” del Paese. Un esercizio difficile, da glottologi, piuttosto che analisti della politica.
Anche perché la politica, anche in Cina, è cambiata. E questo congresso, che incoronerà definitivamente Xi Jinping, ne è la prova. Mai come in questo momento il partito è unito e compatto, mai come in questo momento la vecchia teoria dei “cinque laghi e quattro mari”, il manuale Cencelli inventato da Mao per dar voce (e potere) alle varie correnti/fazioni del partito sembra definitivamente finita in archivio. Mai come in questo momento la Cina ha avuto un leader più potente, neanche ai tempi degli imperatori. E infatti c’è già chi definisce, con scarsa fantasia e storica approssimazione (gli imperatori in Cina non hanno mai esercitato un potere assoluto), Xi Jinping il nuovo Imperatore.
Se ne parla, della Cina, certo. Ma senza capirne, e quindi farne capire, granché. C’è sempre questo tono di sufficienza, di ricerca dell’elemento negativo, della crisi, anzi, dell’apocalisse dietro l’angolo, dell’epperò e del macomunque. La Cina continua a crescere (+6.9 per cento quest’anno, un bello “zero qualcosa” più di quanto previsto) nonostante l’intero pianeta che le gufa contro? Fenomeno passeggero, gonfiato. La crisi è alle porte. Scappate, disinvestite, fatelo finché siete in tempo. Le riserve valutarie sono pericolosamente “calate”: meno due per cento?
Peccato che parliamo di quasi quattromila miliardi di dollari, il triplo di quelle giapponesi, roba da ridurre in polvere l’Occidente, Stati Uniti compresi, se usate in modalità ostile. La Cina “sposta” dalla povertà alla classe media 250 milioni di persone negli ultimi vent’anni? Eh, vabbè ma un miliardo di persone fa ancora la fame. La Cina stanzia nei prossimi vent’anni, oltre 700 miliardi di dollari per strutture, infrastrutture, sviluppo industriale e servizi che avranno ricadute enormi sull’Europa, una sorta di Piano Marshall grazie al quale (forse) il vecchio ed esausto continente riuscirà a risollevarsi? Macché, aria fritta. Cifre in libertà. La Cina in realtà vuole solo espandere la sua influenza politica, assicurarsi le materie prime, estendere all’Europa (che nei libri di geografia cinesi in effetti è considerata una penisola cinese) la sua egemonia.
Qualcuno avanza perfino timori di tipo militare. Attenzione, la Cina, oltre alla sua nuova aggressività in Asia, ha aperto le sue prime basi militari all’estero: Gibuti, per ora, poi chissà, Zaire, Zimbabwe. Il bello è che questi moniti, questi campanelli d’allarme vengono dagli Stati Uniti, un paese che mantiene oltre 700 strutture militari gestite direttamente all’estero, di cui 113 in Italia. Una presenza che divide profondamente, e non da oggi, l’opinione pubblica dei paesi ospitanti.
C’è chi è convinto che costituiscano un deterrente, un “ombrello” gradito e indispensabile per proteggersi da eventuali attacchi nemici (e quali sarebbero, oggi, i “nemici”?) e altri, sempre più in maggioranza, che invece si sentono più minacciati proprio per la presenza delle basi.
È quanto succede oggi in una delle aree più “calde” e delicate del pianeta, l’Asia Orientale, dove giapponesi e coreani del sud manifestano in modo sempre più vistoso e convinto contro il rafforzamento delle strutture militari americane a seguito delle “minacce” nordcoreane.
Non penso che succeda – ci dice Haruki Wada, docente di Storia della Penisola Coreana presso la prestigiosa Università statale di Tokyo – ma se la Corea del Nord dovesse attaccare cercherebbe di colpire una della basi militari Usa presenti nella zona.
Ma torniamo alla Cina, al suo congresso, e al suo nuovo “imperatore” Xi Jinping. Che se tutto procederà come da copione – e anche qui: meglio un copione che funzioni, sul quale si è in qualche modo, anche….violento, raggiunto un consenso, o l’improvvisazione che regna, fino all’ultimo momento, nei congressi dei nostri partiti (quelli che li fanno…)? – sarà incoronato per altri cinque anni e sopratutto vedrà il suo nome finalmente impresso nella Storia. Già, perché verrà aggiunto ufficialmente, nello statuto del partito, una sorta di Costituzione, accanto a quello del Grande timoniere Mao Zedong e del Grande stratega Deng Xiaoping. Un atto dovuto, per chi, già da tempo, è stato definito il “centro”, il “nucleo” del partito. A nessuno, finora, era stato concesso questo onore: tutti i leader post Deng sono stati, nel migliore dei casi, pietosamente e progressivamente “dimenticati”.
Un dato interessante viene da un istituto di sondaggi e ricerche di Hong Kong, lo Yuseng. Nel corso del 2016 gli ex leader cinesi Jiang Zemin e Hu Jintao sono stati citati dal Quotidiano del Popolo, rispettivamente, 1450 e 870 volte. Xi Jinpin oltre 5000, più di quindici volte al giorno. Chissà magari ai tempi di Mao succedeva la stessa cosa (non ci sono dati comparabili) ma siamo molto, molto vicini al culto della personalità, che oggi non si chiama più così, ma semplicemente rispetto, disciplina, uniformità.
Come è andato in soffitta il glorioso “centralismo democratico”: oggi fedeltà, uniformità e obbedienza si chiamano baochi kanqi yishi, “sguardo consapevolmente unito verso l’esterno”. Sublime. Se c’è una linea di continuità tra il partito di un tempo e il partito di oggi è quello della poesia al servizio della propaganda.
“Sistemato” il partito, sbarazzandosi dei suoi “nemici” e aprendo la strada ai suoi giovani sostenitori (negli ultimi due anni ha sostituito ben 23 segretari regionali su 31) Xi Jinping è dunque oggi l’uomo più potente del mondo.
Ma fino a che punto è vero? E fino a che punto la Cina sta davvero preparandosi allo storico, speriamo incruento, “sorpasso” nei confronti degli Usa? Dal punto di vista economico e soprattutto militare siamo ancora lontani. Ma ci sono altri elementi, altri fattori che dovrebbero far riflettere e convincerci a prepararci per quando il mondo “parlerà cinese”.
Intanto la governance. La stabilità di governo. Quella che per decenni è stato il punto debole della Cina, il fatto di essere una dittatura, è diventata di fatto un punto di forza. Da quando la “visione” di Deng Xiaoping ha realizzato la politica di mercato senza (con)cedere alcunché alle riforme politiche la Cina ha di fatto trovato la quadratura del cerchio. Economia di mercato (ma con un ruolo fondamentale delle aziende di stato nei settori strategici), ricchezza a portata di tutti in cambio di fedeltà, o quanto meno non opposizione frontale al partito. Piaccia o meno, oggi è una formula vincente.
Eh, ma i diritti umani…eh ma la libertà, internet. Internet? Internet in Cina chi vuole – in questi giorni magari con quale difficoltà e “strategico rallentamento” in più, può
averla a costi ridottissimi, e oramai, con i nuovi VPN, anche gratis. Ma non fatevi illusioni: secondo un recente sondaggio di Asia Times, i siti prediletti dai cinesi che hanno accesso alla rete senza filtri non sono certo quelli della setta Falong, del Dalai Lama, di Amnesty International o di Human Rights Watch. Sono i siti delle scommesse on line e quelli porno. Tutto il mondo è paese, si direbbe.
Ma non c’è giustizia, si dirà, e la corruzione impera. Certamente, come in tanti altri paesi “democratici”, compreso il nostro. Ma almeno in Cina negli ultimi anni si sono fatti passi davvero da gigante. Solo nel 2016 sono stati indagate trecentomila persone, di cui oltre la metà condannate a pene varie di reclusione, che in Cina prevedono quasi sempre i lavori forzati. 28 erano alti dirigenti nazionali o regionali del partito.
Una curiosità: da noi la prescrizione, per certi reati, è stata accorciata. In Cina, più o meno per gli stessi reati, è stata invece abolita. Poi vabbè, c’è il dumping, il lavoro malnretribuito, lo sfruttamento, l’inquinamento. Ma anche qui, la Cina ha fatto passi da gigante. E mentre Trump denuncia il trattato di Kyoto e minaccia di portare un nuovo assalto globale all’ambiente, Xi Jinping va in giro per il mondo ad annunciare la “buona novella”. Rispetto del protocollo di Kyoto, anzi, accelerazione per quanto possibile delle riduzioni di anidride carbonica, e fedeltà assoluta alla globalizzazione. Ma ve lo ricordate, no, a Davos, l’anno scorso? Trump che minaccia il ritorno al protezionismo, che denuncia accordi già firmati (quello con la Corea ad esempio) e Xi Jinping che tiene una lectio solemnis sui vantaggi del libero scambio?
Per non parlare della politica estera, dove davvero l’asse della saggezza si è spostato a est e dove Pechino sembra essere l’unica superpotenza (ma non sottovaluterei anche il ruolo, magari anche solo strategico, della Russia) in grado di ragionare a medio e lungo termine. Basti pensare alla delicata, complicata ma non irrisolvibile questione della penisola coreana.
Dove se non fosse per Pechino e i sui pazienti – e interessati, per carità – richiami alla moderazione saremmo già alla guerra bollente. E che ci piaccia o no, Pechino, a differenza di altri paesi, mantiene i suoi impegni internazionali, non denuncia, unilateralmente, i trattati cui aderisce, bilaterali o multilaterali che siano.
“Non imporremo mai la nostra volontà con la forza militare” ha più volte ribadito Xi Jinping, e a parte Taiwan (che tuttavia Pechino non riconosce e considera tutt’ora una sua provincia) non c’è motivo di non credergli.
La forza di un paese, e di un leader, dipende ovviamente anche da chi si trova davanti in un dato contesto e oggi il progressivo rafforzamento della leadership cinese dipende anche dalla corrispondente debolezza degli Stati Uniti, della loro credibilità internazionale e del suo leader eletto, Donald Trump, la cui popolarità interna e affidabilità esterna è decisamente problematica.
In questo contesto, gli obiettivi interni ed internazionali che Xi Jinping si è dato e che confermerà nell’imminente congresso sembrano facilmente ottenibili. Lotta alla corruzione, sviluppo, innovazione sostenibile e piccole ma costanti aperture ai diritti umani sembrano procedere di pari passo, avvicinando così la realizzazione del zhongguo meng, il “sogno cinese” e della xiaokiang, la società “moderatamente prospera” che pian piano prende forma.
Uno dei progetti più ambiziosi è il cosiddetto “One belt, one road” (OBOR) di impatto globale e di immensa portata. Il piano, che comprende la Silk Road Economic Belt e la 21st Century Maritime Silk Road, rievoca l’immagine dell’antica Via della Seta: solo che al posto delle carovane di cavalli e cammelli ora si parla di nuove ferrovie, autostrade e rotte marine. Il tutto allo scopo di sviluppare le aree più arretrate della Cina e moltiplicare i collegamenti tra Europa, Russia e Asia, dal Medio Oriente fino all’area del Pacifico, tramite una serie di importanti opere infrastrutturali che interesseranno tutti i Paesi attraversati dalle due nuove rotte, una terrestre e una marittima, riducendo enormemente i costi. Un progetto che purtroppo ci vede coinvolti solo in minima parte, ma del quale godremo, quanto meno, delle enormi ricadute commerciali
Qualcuno l’ha soprannominato una sorta di nuovo Piano Marshall, e in effetti ne ha tutte le caratteristiche, visto che oltre agli obiettivi di riqualificazione e sviluppo delle aree rurali interne piu arretrate, vi sono evidenti obiettivi di politica estera, primo fra tutti il riavvicinamento della Cina all’Europa. Per finanziare questo e altri progetti, la Cina si è dotata anche di un colossale salvadanaio, l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), istituita nel 2015 e alla quale hanno aderito sinora una sessantina di paesi, Italia (per fortuna) compresa. Ma non gli Stati Uniti.
Un’astensione politica che ha tenuto in sospeso per molti mesi anche la partecipazione del Giappone, che in questi casi si adegua sempre alle scelte di Washington. Ma che alla fine ha deciso di “tradire” il grande alleato, decidendo di aderire: oggi la Cina è infatti il primo partner commerciale del Giappone, e dispute territoriali a parte, le due economie sono talmente interconnesse che a nessuno conviene condurre battaglie di principio.
Cina uber alles, dunque. Epperò….il Dalai Lama, il Tibet…Ecco, su questo punto non posso non rientrare nel coro e chiedermi perché mai una leadership scaltra e potente, come quella cinese attuale non riesca a capire che consentire il rientro del Dalai Lama, magari provvisoriamente e a certe condizioni, lungi dal costituire un pericolo per l’ordine pubblico, non farebbe che aumentare l’autorevolezza della Cina. Ma sono ottimista. Prima o poi lo capiranno.

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