Ridisegna alleanze, unifica gli interessi degli opposti: sciiti e sunniti, Turchia e Iran. Altro che lo Stato islamico. L’incubo ad Ankara come a Baghdad e a Teheran si chiama Grande Kurdistan. Il Medio Oriente non ha pace.
Si è appena conclusa la battaglia di Raqqa che già si apre un altro fronte: quello di Kirkuk. Per uno “Stato” (islamico) che va spazzato via in nome della lotta al terrorismo, ce n’è un altro che va soffocato sul nascere affinché non produca un effetto-domino: è lo Stato del Kurdistan iracheno. Il Grande Kurdistan: è lo spettro che agita la Turchia, che impensierisce l’Iran, che mette in crisi l’unità dello Stato iracheno sotto il governo (sciita) di Baghdad e che potrebbe reclamare un suo spazio anche nella spartizione della Siria.

Raqqa
La battaglia di Kirkuk segna dunque l’inizio di una nuova guerra in Medio Oriente: la “guerra del petrolio”. A Kirkuk vivono 850mila abitanti, di cui un terzo curdi e un venti per cento turcomanni; nella sua area sono estratti ogni giorno 400.000 barili di petrolio, quasi il settanta per cento dei 600.000 che Erbil invia fino al terminal turco sul Mediterraneo di Cehyan, sbocco dell’oleodotto che parte proprio da Kirkuk.
Dopo aver conquistato Kirkuk, le forze irachene, composte soprattutto da milizie sciite Hashd al-Shaabi, hanno ripreso il controllo del distretto del Sinjar, nell’Iraq nord-occidentale, al confine con la Siria.
Il distretto era stato prima occupato dall’Isis, nell’agosto del 2014, poi liberato dalle forze curde. Era stato il presidente iracheno Fuad Masum, pure lui curdo, a comunicare ai leader dell’Upk, il partito egemone a Kirkuk, le sei condizioni di Baghdad: la consegna dell’aeroporto di Kirkuk, della base militare K-1, di tutti i giacimenti petroliferi (che sono già stati “promessi” alle società petrolifere russe e che inevitabilmente diventano interesse di Stato per il Cremlino che si sente così coinvolto), di tutti i miliziani del Daesh prigionieri dei peshmerga, di permettere il ritorno dell’esercito iracheno nei luoghi che occupava prima dell’offensiva del Daesh e la revoca dell’incarico al governatore di Kirkuk, Najmaldin Karim. Condizioni respinte.
A nulla è servito l’appello lanciato nei giorni scorsi dal premier del Kurdistan, Nechiryan Barzani,
all’ayatollah al Sistani, a tutti i partiti iracheni, all’Onu, all’Ue, agli Usa e alla Coalizione anti-Isis perché si mobilitino con urgenza per impedire una nuova guerra nella regione.
Chiediamo alle forze irachene e straniere di evitare di incitare al conflitto, perché questo avrebbe gravi conseguenze sulla situazione interna del Paese e in tutta la ragione [prosegue Barzani]
Niente da fare. In un tweet pubblicato nella notte del 13 ottobre, Hemin Hawrami, consigliere del leader curdo Massoud Barzani, parlava di “informazioni” sul “massiccio dispiegamento” di miliziani delle Unità di mobilitazione popolare (Hashd al-Shaabi) nelle zone di Bashir e Taz, a sud di Kirkuk. Secondo Hawrami, “stanno pianificando un attacco” contro le aree controllate dai peshmerga e i “pozzi petroliferi”.
Il consigliere di Barzani parlava anche del coinvolgimento nell’operazione della polizia federale irachena e annunciava il dispiegamento di unità dei peshmerga “pronti a rispondere a eventuali attacchi militari”. Sul fronte curdo si sperimentano alleanze tanto spurie quanto interessate: il sunnita Erdoğan, con lo sciita al-Abadi, mentre in nome del petrolio, la Russia di Putin, che in Siria contrasta le milizie curde dell’Ypg, sul versante iracheno apre al governo curdo di Barzani.

Guerrigliere peshmerga
Quanto agli Usa, per il momento domina una posizione “attendista”:
Ci opponiamo alla violenza da tutti i lati, e invitiamo a evitare azioni destabilizzanti che distraggano dalla lotta contro l’Isis e minino ulteriormente la stabilità dell’Iraq,
afferma la portavoce del Pentagono, Laura Seal, con un equilibrismo dialettico pari a quello mostrato sul campo dagli americani, che armano sia l’esercito di Baghdad sia le milizie curde siriane impegnate nell’assalto finale a Raqqa. E a Kirku conquistata, entra in campo Donald Trump:
Gli Stati Uniti non prenderanno posizione a favore dell’uno o dell’altro. Da molti anni abbiamo una relazione molto buona con i curdi e siamo anche stati dalla parte dell’Iraq, pur se non avremmo mai dovuto essere lì,
dichiara il presidente statunitense, che non perde occasione per demolire la politica estera del suo predecessore alla Casa Bianca, Barack Obama.
Il fatto è, rimarca il Wall Street Journal, che gli Stati Uniti non hanno mai elaborato una strategia politica sull’Iraq, passando dallo smantellamento dell’esercito e dell’apparato statale baathista, i cui comandi militari si “riciclarono” nell’Isis, alla exit strategy obamiana. Oltre al rischio di destabilizzare le aree contese nel nord dell’Iraq, molti analisti sono preoccupati per le conseguenze che queste azioni potrebbero avere sulle milizie sciite, che rispondono all’Iran, e sullo Stato islamico.
La partecipazione delle prime alle azioni militari contro i peshmerga curdi fa temere che l’Iran voglia estendere ancora di più il controllo che esercita oggi sulla politica irachena: una prospettiva inaccettabile per Washington e per i suoi alleati anti-iraniani, Israele e Arabia Saudita.

Kirkuk
A ciò si aggiunge il timore che la riconquista sciita delle aree curde s’intrecci con il ritorno del dominio sciita sulle città irachene a maggioranza sunnita, a cominciare da Mosul, delineando così un quadro simile a quello che permise il rafforzamento del Daesh sunnita in Iraq. La situazione a Erbil è instabile: è accerchiata dai tre Paesi che sono contrari all’indipendenza. In Iraq i peshmerga curdi avevano occupato nel 2014, dopo la fuga dei soldati iracheni davanti all’avanzata dell’Isis, l’importante centro petrolifero di Kirkuk, da cui estrae 400.000 barili al giorno sui 600.000 che esporta verso la Turchia. Baghdad non ha mai accettato questa situazione di fatto ed Ankara, che teme il riaccendersi delle violenze con i suoi curdi del Pkk, ha minacciato di interrompere il flusso di petrolio dell’oleodotto Kirkuk-Cehyan sul Mediterraneo.
Dopo le esercitazioni militari congiunte tra esercito iraniano e turco ai confini con il Kurdistan, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, ha inasprito l’escalation verbale contro Erbil, rea ai suoi occhi di un vero tradimento alle spalle di Ankara. Rivolgendosi a Massoud Barzani, ha scandito, tra l’ironico e il minaccioso:
Complimenti Barzani per il 92 per cento. Ora rimani seduto dove sei, sei alla guida del nord Iraq, hai soldi, benessere e ogni cosa, hai il petrolio. [Aggiungendo:] Chi riconoscerà la tua indipendenza? Con 350 chilometri di confine non puoi dichiararti indipendente se non parli con i tuoi vicini e tu non hai parlato né con noi né con Teheran.
Il presidente turco ha poi intimato a Barzani di non lanciarsi in “un’avventura destinata a concludersi con una delusione”.

Kirkuk
Delusione e guerra. A muovere l’esercito è anche l’Iran nelle sue aree di confine con il Krg. Teheran ha, inoltre, un altro problema di non poco conto: non può più contare come prima sul proprio uomo Jalal Talabani, colpito da ictus e in precarie condizioni di salute. Una malattia, quella di Talabani, che ha gettato il suo partito, l’Unione Patriottica del Kurdistan, uno dei due storici partiti del Kurdistan iracheno, in una gravissima crisi interna.
La proclamazione del Kurdistan iracheno, concordano gli analisti, avrà un effetto domino sui Paesi confinanti, a partire dalla Siria. Si scrive “sistema federale”. Si legge “spartizione” del fu Stato di Siria. I curdi del nord della Siria si apprestano a riunirsi in un sistema federale che dovrebbe sostituire i tre “cantoni” in cui ora sono divisi: quelli di Jazira, Kobane e Afrin.
Lo riferisce il sito curdo iracheno Rudaw, citando una fonte curda siriana secondo la quale “è imminente una conferenza a Rmelan tra i cantoni auto-amministrati di Rojava”. Rojava (Kurdistan occidentale) è il nome usato dai curdi per le regioni del nord della Siria dove le loro milizie combattono contro l’Isis.
La nostra principale rivendicazione è il federalismo per il Kurdistan siriano, ma il congresso costitutivo che si terrà oggi mettere in chiaro ogni cosa,
ha rilanciato il presidente de Tev-Dem [movimento curdo-siriano legato al Partito dell’unione democratica (Pyd), che è il braccio politico delle Unità di difesa del popolo (Ypg i Peshmerga), le milizie armate curde osteggiate dalla Turchia perché ritenute da Ankara l’estensione in Siria del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan)] al Dar al Khalil all’emittente Rudaw che ha sede a Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno.
La tv curda pubblica anche una mappa della Siria delineando i confini amministrativi della prospettata Federazione curda.
È vero che noi come curdi abbiamo sofferto storicamente, ma oggi non vogliamo che la conquista dei nostri diritti siano a spesa degli altri,
ha detto Khalil rispondendo alla domanda se non fosse il caso che i curdi proclamassero la propria indipendenza dalla Siria. Nel nord della Siria, l’obiettivo è quello di “creare un sistema sociale autonomo”, come ha detto all’agenzia di stampa curda Firat, Nesrin Abdullah, comandante dell’unità femminile delle Unità di protezione del popolo (Ypg), che in questi mesi hanno portato avanti una dura lotta contro il Califfato.
Annota Pierre Haski, in un interessante articolo sul francese Obs, ripreso da Internazionale:
Alcuni pensano che “non sia il momento” visto che la lotta contro l’Is non è ancora finita; altri invece temono una destabilizzazione di tutta la regione con iniziative simili prese dai curdi di Siria, Turchia e Iran, che condividono lo stesso sogno statale; lo stato iracheno infine rifiuta di perdere una parte del suo territorio, la regione di Kirkuk, ricca di petrolio e contesa tra curdi e arabi. C’è poi chi contesta il potere di Barzani e lo accusa di strumentalizzare la causa indipendentista per consolidare il suo potere contro le altre fazioni curde e rafforzare un’amministrazione caratterizzata dalla corruzione e dal nepotismo. L’autodeterminazione, dunque, implica ben più che una questione di princìpi, sui quali, dalla prima guerra mondiale, il mondo ha una posizione di relativo consenso. E ancora una volta i curdi rischiano di farne le spese, forse con il rischio di una nuova guerra.
Con la battaglia di Kirkuk, il rischio è diventato certezza.

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