La studiosa americana Ruth Ben-Ghiat si chiede su The New Yorker perché in Italia facciano ancora bella mostra di sé edifici e monumenti di epoca mussoliniana, in particolare all’Eur e al Foro Italico di Roma. La docente di storia e studi italiani presso la New York University si riferisce in particolare al tanti monumenti “fascisti” che sono ancora in piedi, come il Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur, descritto come “una reliquia di un’aberrante aggressione fascista”, osservando come “lungi dal prendervi le distanze in Italia è celebrato come un’icona modernista”, ed è stato perfino riconosciuto come “sito di interesse culturale”. In un’intervista alla Stampa la storica della New York University chiarisce che non intendeva proporre di abbattere gli edifici fascisti in Italia, ma solo favorire una riflessione storica, affinché il fascismo non possa ripresentarsi sotto una nuova forma, ora che in tutto il mondo c’è un ritorno della destra. Sul tema sollevato da Ben-Ghiat è intervenuto su ytali Roberto D’Agostino. Quindi abbiamo riproposto un intervento di Adachiara Zevi, che, a dispetto degli anni trascorsi dalla sua pubblicazione (il Riformista, 26/9/2006), è un contributo di attualità e interessante al dibattito in corso. Ora interviene lo storico dell’arte Franco Miracco, e lo fa a partire dalla polemica che si è sviluppata intorno al restauro del vastissimo affresco “l’Italia tra le arti e le scienze”, che Mario Sironi dipinse a metà degli anni Trenta.
Dopo aver letto un editoriale di Salvatore Merlo sul Foglio è come se mi fossi risvegliato in un anno al di fuori del tempo, quello in cui, per esempio, il fantasma dell’iconoclastia riappare.
Non so se da noi il fenomeno sia ancora modesto, meschino, gracilino da ogni punto di vista. Nel senso: “rifiuti”, frammenti sparsi a casaccio, sopravvivenze di confini stabiliti come purissimi e incontaminati in epoche in cui, certo, bisognava “difendere le mura” (della democrazia, dell’antifascismo, della repubblica, ecc.). Ma adesso?
Si dirà: non ti sei accorto che qualcosa di insolito (?), di inatteso (?), di veramente molto scomodo per la vera Europa è apparso in quasi tutti i paesi centro-orientali e non solo? Dove per vera Europa intendiamo uno spazio sapiente con dentro ciò che è comune, subito riconoscibile, perché: “Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso”. Comunque, un conto è Orbán e altro è Mario Sironi; un conto è la misticanza indigesta sputata dalla rabbia per “la nostra terra” riportata nei mercati ansiosi della Polonia, della Slovacchia, dell’Austria, e altro, forse, sono i nemici degli affreschi o delle vetrate di Mario Sironi o delle opere di molti altri artisti.

“L’Italia tra le arti e la scienza” nelle due versioni. A destra l’originale con alcuni elementi evidenziati che, dopo la censura del 1950, scompaiono (foto a sinistra)
È per davvero insopportabile che di nuovo siano scesi in campo alcuni giocatori della squadra “l’arte fascista” va abbattuta, cancellata, anche perché “l’Italia non ha mai fatto i conti con la propria storia…” e questo solo perché a Roma è stato finalmente restaurato il vastissimo affresco “l’Italia tra le arti e le scienze”, che Sironi dipinse a metà degli anni Trenta. Quell’affresco fu vittima dell’iconofobia propria di inconsistenti e spesso ipocriti antifascisti, di epuratori del giorno dopo, di occasionali ignoranti di ieri e di oggi.
Quelli di ieri deturparono e nascosero l’opera di Sironi, che fascista fu e molto e che, vedi la fantasia della storia, ebbe salva la vita nel giorni drammatici della liberazione grazie al giovane partigiano comunista Gianni Rodari. Il futuro, grandissimo novellista e giornalista, riconosciuto il vecchio pittore, non esitò nel sottrarlo a immediata fucilazione sulla via tra Milano e Como, nonostante avesse visto più e più volte le opere “fasciste” di quel vecchio sconvolto, sperduto, in fuga da se stesso e dalla storia di quei giorni terribili.
Di sicuro quelli del New Yorker, che tanto hanno sventagliato sul persistente fascismo nell’Italia di oggi, camminano nel nulla culturale quando inorridiscono per non aver noi distrutto monumenti, architetture, sculture, pitture realizzate durante il cosiddetto ventennio. Per costoro dovremmo avere a modello i Buddha distrutti a Bamiyan oppure Mosul o Palmira, anche perché cosa volete che sappiano di Sironi pittore futurista, metafisico, o dalla “concisa asprezza espressionistica” come la definì Argan.
La storica dell’arte Silvia Danesi Squarzina, docente nella stessa facoltà dove insegnò il suo maestro Argan, parlando dell’affresco che lei ha voluto venisse risanato e sironizzato quanto più possibile, ha spiegato il senso della
tragicità profetica del linguaggio sironiano, aspro, privo di compiacimenti… le figure tracciate in un voluto e vigoroso ‘non finito’, in una spazialità ardua e complessa…
Allo storico insomma interessa poter conoscere e quindi giudicare liberamente i documenti, così come furono creati dagli artisti in certe epoche, nell’ambito di certe ideologie o di pulsioni indecifrabili, ecc. Ecco perché bene si è fatto con il recupero del vasto affresco nell’Aula Magna della Sapienza.
In ogni caso, non va mai dimenticato ciò che scrisse Argan su argomenti storico-artistici prossimi alle polemiche suscitate dal Sironi restaurato: “Non c’è stata un’arte fascista. Solo per pregiudizio borghese e per la diffidenza di cui i regimi repressivi onorano la cultura il fascismo ha osteggiato la ricerca artistica avanzata, senza però arrivare a condannarla e proscriverla”. Ossia, meglio, molto meglio Bottai del New Yorker.
E certamente Argan in questi giorni sarebbe stato dalla parte della sua allieva Danesi Squarzina e contro il “talebano collettivo”. Ai sempre furenti iconoclasti “antifascisti “potremmo suggerire alcune passeggiate romane, lungo le quali sostare di fronte ad opere che, per il loro sentire, andrebbero cancellate. O no?
Per esempio, perché non far saltare in aria molti degli edifici voluti da Marcello Piacentini nel “recinto” fascista della Città universitaria di Roma? Si potrebbe iniziare dal capolavoro razionalista dell’architetto Giuseppe Pagano, tra i fondatori di Casabella, ovvero dall’istituto di Fisica (nella galleria di foto in alto). Abbattere. Poco importa se poi Pagano militò nella Resistenza morendo in un campo di sterminio nazista.
E che dire della grande Minerva in bronzo di Arturo Martini, ancora svettante, guerresca,oracolare, salda come mito primordiale al centro dell’università romana e creata da uno scultore veramente “ufficiale “ negli anni di Mussolini e Bottai?
Abbattere, essendo sospinti dall’ignoranza di annullare un’opera di un genio della scultura e della sua tormentata e radicale negazione. Ma una vera festa iconoclasta potrebbe aversi in via Veneto. Dato che lì,di fronte all’ambasciata degli Stati Uniti, quelli di Trump e del New Yorker, c’è l’intenzionalmente sfarzoso Hotel Ambasciatori progettato dall’onnipotente Piacentini per accogliervi l’indecente lusso dei disposti o proni al fascismo sorgente.

Ciclo di affreschi eseguito da Guido Cadorin tra il 1926-27 e si trova nel salone-ristorante di quello che oggi è l’albergo Grand Hotel Palace in via Veneto e che prima si chiamava Hotel Ambasciatori.
Proprio in quell’albergo vi si osserva e percepisce il lato mondano ed elegantemente libidinoso di una “piacevolissima “ società, che dal fascismo e con il fascismo ebbe tutto. A dipingere quella società da “Grand Hotel sull’abisso” fu Guido Cadorin, autore di scene per un mondo giunto al suo termine. Quando non ci si accorge che se “tenera è la notte” tuttavia nel guardaroba si nasconde dell’altro. Cadorin, artista mai banale, capace di una pittura maneggevole alla ricerca di una modernità frenata da vocazioni liriche, da sberleffi moralistici, da silenziosissime investigazioni venezievolmente appartate, eppure, a censurare la sua sistina alberghiera fu Mussolini in persona, cui non piacque veder dipinta, accanto a Giò Ponti e a Piacentini, la sua amante musa, la celeberrima Margherita Sarfatti.
Al tiranno ex socialista non piacque quell’insidiosa esibizione di vanità cresciute alla sua corte. E così, poco dopo essere stato ultimato, già nel 1927 il Cadorin mondano sparisce per riapparire a caduta del fascismo avvenuta. Resta il fatto che ai talebani iconoclasti piacerebbe non poco distruggere, assieme al piacentiniano ostello, anche i dipinti del cinico per loro Guido Cadorin, che per fortuna invece possiamo ancora vedere intatti nella loro fertile ambiguità. A meno di venti metri dall’Ambasciatori c’è il Ministero dello sviluppo economico. Se vi entrate, rimarrete stupiti dai colori delle tantissime figure sironiane, sindacalmente variopinte nel comporre la colossale vetrata su cui Sironi creò “la carta del lavoro”. Di fatto il manifesto social-fascista più orientato e imponente che ci sia.

La “Carta del Lavoro”, una delle più grandi vetrate mai realizzate dal maestro Mario Sironi, nella sede del Ministero dello sviluppo economico
Nessuno ci ha mai polemizzato sopra e certamente non lo farà il sapiente e colto ministro Calenda, ma chissà cosa direbbero quelli del “talebano collettivo” se venissero a conoscenza che, nel cuore della Roma oggi grillina, c’è addirittura una mostruosità in più: la straripante vetrata di Sironi.

Bozzetto preparatorio per la pittura murale eseguita da Mario Sironi nel 1936-37 nell’Aula Magna di Ca’ Foscari a Venezia, ex Istituto Superiore di Economia
Per gli iconoclasti veneziani, da ultimo, segnaliamo un’altra “inaccettabile “ opera di Sironi: “Venezia, l’Italia e gli studi”. Se c’è chi si è accanito contro alcuni monumenti a ricordo di Cristoforo Colombo, perché non farlo con il Sironi di Ca’ Foscari? Da augurarsi che nessuno legga quanto scritto, dato che la malapianta degli iconoclasti è sempre color verde ignoranza.

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