La riforma denominata “buona scuola” ha molte lacune e non piace ai più. Fa una certa impressione però vedere come insegnanti e movimento degli studenti liquidino con troppa facilità il tema – posto in modo inedito e per la prima volta in un dispositivo normativo – della “alternanza scuola-lavoro” che stabilisce il rapporto (con un monte ore ad hoc) tra l’organizzazione del sapere e quella della produzione. Si può certo discutere come questa idea-forza venga poi articolata nella pratica, ma il principio non andrebbe buttato nel cestino. Anzi, il “metà studio, metà lavoro” – come lo chiamavamo una volta – era proprio uno degli obiettivi sui quali si arrovellò per esempio il gruppo del Manifesto a iniziare dal ‘68.
Ciò che caratterizzava allora il movimento di Magri, Rossanda, Pintor rispetto agli altri gruppi della nuova sinistra era proprio la critica dei contenuti del sapere, oltre a una critica generale del sistema capitalistico di cui scuola e università erano articolazioni. Nelle università e nelle scuole superiori, quelli del Manifesto costruivano “seminari alternativi” per dimostrare che altri contenuti del sapere erano possibili. Si introducevano così nei piani di studio argomenti alternativi che valevano in molte realtà al momento degli esami e delle interrogazioni. Il 6 e il 30 “politici” non facevano problema: il Manifesto voleva invece dimostrare che c’erano altri modi di fare cultura e di apprendere, oltre ad altri contenuti da socializzare. Esperienze esemplari furono fatte a Roma in questa direzione a Medicina, Magistero, Giurisprudenza e Filosofia.
Via via, nel corso di molti piani di studio, si arrivò a porsi il problema della separatezza abissale di scuola e università rispetto alla realtà dei lavori e della produzione. A causa di una certa suggestione per la “rivoluzione culturale” cinese (rivelatasi in seguito un abbaglio), si iniziò a ragionare su “metà studio, metà lavoro” come idea forza sulla quale indirizzare i movimenti nelle scuole e nelle università.
Nacque da qui pure l’esperienza delle 150 ore conquistate per primi dai metalmeccanici nel loro contratto del 1973, che stabilivano il principio che la formazione e il sapere dovevano accompagnare in modo permanente la vita di ognuno di noi e degli operai. Lo Statuto dei lavoratori del 1970, recependo l’azione dei movimenti di quegli anni, stabilì per altro regole che devono facilitare lo studio e l’aggiornamento dei lavoratori. Si tratta di conquiste importanti di cui si ha poca memoria in questa era di restrizione dei diritti e di precarietà.
Gli studenti dei nostri giorni manifestano contro la cosiddetta “buona scuola” con lo slogan “sfruttati oggi, precari domani”, perché ritengono l’alternanza studio-lavoro prevista dalla riforma una soluzione che non prevede forme di salario per i giovani che fanno questa esperienza. E di certo appare un po’ discutibile l’accordo fatto tra a tale proposito tra Ministero dell’istruzione e catena dei McDonald’s. Non è tuttavia da buttare via tutta la norma della riforma che prevede nell’ultimo triennio delle superiori 200 ore (nei licei) e 400 (negli istituti professionali) da svolgere in aziende, istituzioni pubbliche e private, musei “in modo – si legge nel testo della legge – da incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento”.
Sempre la riforma in oggetto, stabilisce che siano i presidi a scegliere il luogo della sperimentazione sulla base del “registro nazionale delle Camere di commercio”. Insomma, è giusto contestare l’applicazione insoddisfacente della norma, non però il suo contenuto. A iniziare da chi controlla l’alternanza studio-lavoro. La riforma non risolve infatti la questione, non affrontando la formazione specifica dei tutor pur stabilendo che debbano fornire una valutazione finale da inserire eventualmente in una tesina da presentare agli esami di maturità o di licenza professionale.
Occorre, comunque la si pensi, innovare molto nella formazione perché una scuola di base povera, precocemente professionalizzante e selettiva soltanto, costituisce un limite alla mobilità sociale, rende le pari opportunità una mistificazione, lascia sul terreno semilavorati umani obsoleti ed emarginati frenando lo stesso sviluppo economico. La sfida della “alternanza studio-lavoro”, o meglio del “metà studio, metà lavoro”, andrebbe perciò raccolta e riempita di proposte.

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2 commenti
Caro Aldo, sono d’accordo con te, l’esperienza scuola-lavoro ha una storia troppo lunga e complessa per poter essere liquidata in due battute o, peggio, uno slogan.
Tuttavia, a proposito de il manifesto e della sua elaborazione sulla scuola (e su questo specifico argomento), mi permetto di fare una piccola precisazione. Rossanda, Cini e Berlinguer, nelle loro Tesi sulla scuola, accennarono al rapporto tra la scuola da una parte e comunità e lavoro dall’altra. Citando il V. Foa de I lavoratori studenti, evocarono l’unificazione dello studente nel lavoratore ma a patto che si avviasse una “reciproca critica e demolizione” dei due mondi (scuola e lavoro).
Fatta la tara al lessico rivoluzionario di quegli anni questo significa che per loro l’interazione tra scuola e lavoro aveva un senso se serviva a mettere in discussione tanto l’azienda e l’organizzazione del lavoro quanto i contenuti della scuola.
Non mi pare che nelle esperienze di alternanza di oggi si possa rintracciare non solo la messa in discusssione dell’organizzazione del lavoro e della scuola (altri tempi!) ma neanche una seria analisi critica dell’esperienza.
Sono d’accordo con la Veladiano che recentemente su la repubblica ha ricordato che a complicare le cose sia stata l’introduzione dell’obbligatorietà.
Questo ha reso ancora più forte, purtroppo, la componente burocratica dell’esperienza di alternanza scuola-lavoro.
Cordialmente
Caro Luciano,
grazie per le tue osservazioni. A me preme che si discuta del tema senza pregiudizi e con un po’ di memoria. Aldo