Carla Vasio, scrittrice, poetessa e traduttrice. Con il suo primo libro, “L’orizzonte” (Feltrinelli) entra a pieno titolo fra i fondatori del Gruppo 63. Tra le altre cose, pubblica Romanzo storico (con Enzo Mari, Milano Libri), Laguna (Einaudi), Invisibile (Empiria), La più grande anamorfosi del mondo (Palomar), Labirinti di mare (Palomar). Trascorre diversi anni in Giappone: alla sua permanenza in quel paese è legato “Come la Luna dietro le nuvole” (Einaudi); alla lunga amicizia con Petrassi si deve invece il volume “Autoritratto di Goffredo Petrassi” (Laterza). Con “Vita privata di una cultura” (Nottetempo) racconta i tanti intrecci fra musica, letteratura e arte che hanno reso fecondi gli anni ’60 (e oltre). I suoi libri più recenti sono “Piccoli impedimenti alla felicità” e “Tuono di mezzanotte”, usciti entrambi per Nottetempo.
Mi racconta del suo rapporto con Venezia?
A Venezia sono nata. Sono nata dentro un canale, dentro la laguna, in uno degli antichi palazzi della città. Un’ala di questo palazzo era di impianto gotico: lì abitava la mia famiglia. E lì ho cominciato a pesticchiare.
Poi ci siamo trasferiti al Lido, in una villa sul bordo della laguna, di fronte a San Marco. Questa casa ha impostato la mia vita perché aveva davanti uno spazio, non enorme, ma sensibilmente alberato. Erano grandi tigli e fra quegli alberi io trascorrevo tutto il mio tempo, anche se non erano dentro il giardino ma già fuori, sulla piazza. Da ragazzina questi alberi profumatissimi erano i miei compagni di gioco. Poi durante la guerra quello spazio è stato trasformato in un campo di calcio e li hanno abbattuti tutti, con mia disperazione perché sono rimasta molto legata agli alberi.
Al Lido era anche la mia scuola, allora non c’era nessun mezzo, solo dopo hanno fatto un tram, un tramvetto, che faceva tutto il Lido per il lungo, da una punta all’altra, perciò sono praticamente cresciuta in bicicletta, perché lì si usava la bicicletta, era il mezzo di trasporto più diffuso, mentre a Venezia si andava a piedi ed era molto bello perché così aderivi veramente alla città, toccavi le pietre, vedevi l’acqua e scivolavi sui gradini dei ponti.
È stata un’infanzia molto favolosa e molto ricca di esperienze, soprattutto quella di un certo rapporto con l’acqua. Io ero piccolina ma avevo la mia piccola barca personale, a remi, con cui andavo in giro.
A Venezia devi vivere nell’acqua, sull’acqua, con l’acqua, per l’acqua. E con un’acqua piena di immagini perché c’è sempre qualcosa che si specchia. E in genere è qualcosa che ha il suo merletto.
Poi siete venuti a Roma…
Mio padre ha avuto dei problemi a causa del suo antifascismo. Io ricordo i fascisti in divisa – ero molto piccola ma li ricordo chiaramente – erano venuti a cercare delle carte che aveva mio padre, non le hanno trovate, per fortuna, perché c’erano anche degli elenchi con i nomi.
In questa occasione mia madre ha avuto il grande colpo di genio della sua vita. Quando ha visto il gruppetto in divisa che saliva le scale, lei ha forzato la scrivania di mio padre, io ero presente alla scena, quindi ha afferrato delle carte, a quel punto non sapeva dove nasconderle intanto si sentivano i passi sulle scale, perciò ha arrotolato le carte, si è spenzolata dalla finestra e le ha infilate nel tubo della grondaia dove nessuno ha pensato di cercarle. In seguito a questo episodio mio padre è venuto a lavorare a Roma, così durante la guerra siamo stati qui.

La scrittrice negli anni quaranta
Ma il legame con Venezia è rimasto…
Venezia è sempre stata la mia città. A Roma ho vissuto perché la mia famiglia stava qua ma io porto l’impronta di quella città di acqua dove i frammenti di terra sono casuali.
A Venezia ha dedicato anche un libro: “Laguna”. La storia di una bambina in cui però si coglie chiaramente l’essenza profonda della città.
Me lo diceva anche un caro amico, Italo Calvino. Il libro è stato un modo di rinnovare la mia appartenenza alla città. Tutta Venezia è costruita su piattaforme di canne o di legno, almeno questo è quello che mi raccontò un giovane architetto e io non sono mai andata a controllare se la spiegazione fosse vera: era affascinante e tanto mi bastava… la mia vita fantastica ha sempre delle radici lì, delle radici d’acqua in zone di terra che galleggiano. Non ti trasmette il senso di solidità del mondo che ti dà la collina. E tu vivi in questa sostanza un po’ eterea che scivola.
Una descrizione che fa pensare anche a un altro libro: “L’orizzonte”…
“L’orizzonte”, il primo libro che ho pubblicato, si chiama così perché non c’è un orizzonte rigido, né una lingua pesante, fissa. Io ho l’impressione che sia nato da immagini che fluttuano. Fa parte della mia ricerca verso un altro modo di immaginare. Ed è anche il frutto di un’apertura linguistica.
Così arriviamo al Gruppo ‘63…
Sono stata assunta in carica dai fondatori del Gruppo ‘63 prima che avessero una struttura ufficiale, di gruppo. Ci vedevamo perché eravamo amici, perché avevamo stima l’uno dell’atro. C’era una ricerca da fare e la si faceva insieme. Io sono stata assorbita, ma facevo la mia parte.
Sin dal congresso di Palermo…
Certo. Però è dalle opere che è venuta la definizione, non è che si sia partiti dall’idea. Ci sono state riunioni, discorsi, analisi. E opere. C’era una ricerca linguistica molto seria e appassionata. Anche la sintassi è diventata diversa. Si è un po’ slentato tutto. Tutto era più fantastico.
Chi sono stati gli amici?
Manganelli era un mio grande amico, parlavamo molto del modo con cui volevamo scrivere un certo testo e anche quelli del gruppo Balestrini. Era lui il teorico delle cose. E, come ho detto, Calvino, altro grande amico.
C’era anche un grande confronto con gli altri artisti…
Questo è stato il valore maggiore di quella esperienza. Per restare ai veneziani, io ero molto amica di alcuni dei nuovi pittori ma i miei amici più cari sono stati Turcato e la sua compagna.
Turcato era veramente una creatura prodotta dalla sua visione dell’arte. Lui è stato un grande innovatore, ha impersonato soprattutto il rapporto che i nuovi artisti avevano con l’arte. Aveva la qualità dell’innocenza, anche nel pensare. Lui ha inventato uno stile. Io ho un ritratto che mi ha fatto assieme a uno scrittore. Si sono divertiti a ritrarmi con parole e piccoli segni. Molto carino.
Venezia sono anche le Biennali.
Le Biennali si seguivano perché era il luogo dove le innovazioni venivano presentate. C’erano concerti, letture, teatro. C’era la nuova musica, Petrassi con cui ho avuto una bella amicizia, Luigi Nono, Giacinto Scelsi, altro grande amico. E poi arrivano gli americani, con l’America c’è stata un’esplosione di novità. Era un contatto continuo, molto interessante e molto stimolante. Si andava avanti insieme e si facevano esperienze. Le teorie poi si ricavavano dalle esperienze.
È il clima che si respira in uno dei suoi libri…
In “Vita privata di una cultura” ho cercato di raccontare quanto quegli anni, e quel mondo, fossero fecondi. Senza mai entrare in aneddoti intimi o privati, però. Onorando sempre l’amicizia e il talento.
Da molto non va a Venezia?
Sono andata a Venezia un anno fa perché il Museo di Arte Orientale mi ha invitato a fare due conferenze. Avevano letto dei libri che io ho scritto su cose giapponesi. Non volevo più andare via. Alla fine di tutto io sono una creatura di Venezia come i suoi pesci e le sue barche. L’amo molto e ci sto molto bene quando posso andare perché io non urto mai contro Venezia o contro un suo ponte o contro un suo palazzo. Ne faccio parte.

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