Il Partito democratico adesso si fa anche dire dai Cinque stelle chi è il suo leader? L’uscita di Luigi Di Maio, per evitare un duello televisivo che sarebbe servito molto più a Matteo Renzi che a lui, si basa sull’argomentazione più stupida che si potesse immaginare – una scusa ridicola – eppure insidiosa. Infatti, in questo mondo alla rovescia che è oggi la sinistra italiana, la voce di Di Maio s’aggiunge a quelle, nello stesso Pd, che chiedono a Renzi di fare un passo indietro. Insomma di lasciare il campo a qualcun altro. Come intima, appunto, il massimo avversario del segretario del partito.
Perfino un movimento come i Cinque stelle – che si caratterizzava per una leadership diffusa e informale all’ombra di un capo vero ma mai formalizzato – ha deciso di affrontare questa fase politica che porta alle elezioni generali indicando un leader. Definendo la faccia che li rappresenta. Passo carico di rischi. Perché d’ora in poi le capriole retoriche per non assumere mai una posizione definita su niente e poter cambiare continuamente le carte su tutto non sono più plausibili. C’è un leader riconosciuto che sintetizza e rappresenta il movimento.
Infatti la sua rinuncia al faccia-a-faccia con Renzi proprio questo rischio avrebbe messo in evidenza: la sua inconsistenza di candidato-premier e dunque l’inconsistenza delle ambizioni governative del suo movimento nel momento in cui è chiamato a governare e dunque a fare scelte precise. Peraltro tutte le esperienze disastrose nel governo delle città mostrano che questo movimento collettivo e al tempo stesso padronale non ce la fa proprio – è contro il suo dna costitutivo – ad avere singoli rappresentanti in grado di esprimere la sua considerevole forza politica quando bisogna fare sintesi, scegliendo un candidato a un posto di responsabilità di governo per poi effettivamente governare compiendo scelte – come richiede il governare.
Resta dunque il fatto che perfino M5S – suo malgrado, malgrado la sua natura costitutiva – ha dovuto sottostare alla regola aurea della politica odierna che detta l’esigenza imprenscindibile di offrire una faccia riconoscibile all’elettorato in una competizione nazionale.
Anche il centrodestra risale la china avendo ritrovato in Silvio Berlusconi il leader in grado di rappresentarlo e di trainarlo (che riesca a farlo fino alla primavera è un altro discorso).

Matteo Renzi disegnato da LUIS GRAÑENA (CTXT)
Il Pd? Con tutti i suoi problemi, è ancora il primo partito del socialismo europeo, in uno scenario post-nucleare che ha raso al suolo partiti come il Ps francese e il Pasok greco, sfarinato forze come il Psoe e la Spd, nel quale resta in piedi il Labour di Jeremy Corbyn che ha passato la sua militanza all’opposizione, senza mai farsi sfiorare neppure dall’idea di uscire dal suo partito o di metterne in discussione la legittimità della leadership di volta in volta al comando, sempre eletta in base ai voti della conferenza annuale.
Questa sua coerenza non deve passare in secondo piano rispetto alle sue scelte radicali, opposte a quelle fin qui seguite dai suoi predecessori. La sua coerenza laburista è stato un tragitto importante perché adesso che è lui il leader, è lui a guidare una grande forza che non ha perso pezzi, neppure quello della sua componente. Corbyn guida il Labour e non un suo frammento nato da una scissione, come invece sarebbe accaduto qui. Peraltro tutti i tentativi ripetuti per farlo fuori nel gruppo parlamentare si sono risolti nel nulla, ma non hanno a loro volta generato fuoruscite. Il dissenso c’è, è forte, ma resta dentro il perimetro del partito. Perché? Perché non conviene a nessuno ridurre la forza del proprio partito. E neppure ridurre la forza della sua leadership, specie quando c’è da combattere.
Nessuno sproloquia di uomo solo al comando, parlando di Corbyn, che pure si circonda solo di compagni lui affini. Nessuno immagina a Londra un permanente caminetto di capi corrente con cui trascorrere più tempo rispetto a quello dedicato alle cose da fare e alle energie da dedicare al “nemico” esterno.
Lo stesso va detto a proposito di Bernie Sanders nel suo leale sostegno a Hillary Clinton una volta nominata candidata dei democratici. E questo nonostante la clamorosa disparità di trattamento ricevuta dal Partito democratico a favore della rivale.
Nessun partito che abbia un leader riconoscibile e regolarmente scelto dai suoi iscritti lo mette sulla brace come non farebbe neppure il suo peggiore nemico esterno.
È una logica che si fa fatica a capire, in un’arena politica dove – piaccia o non piaccia – ci deve essere un leader che sia riconosciuto dai suoi e conosciuto dal massimo numero di persone.
Renzi non ha più queste caratteristiche? Chi li avrebbe? Paolo Gentiloni?
L’attuale premier è persona che conosce e pratica la lealtà, merce rara in politica, ma è anche autonomo. Era molto legato a Francesco Rutelli, anche da un rapporto di amicizia. Ma quando Rutelli scelse di uscire dal Pd, di cui era stato uno dei fondatori, per costituire un suo gruppo, Api, Gentiloni decise di restare. Lo fece anche Michele Anzaldi, per anni portavoce di Rutelli. Furono le loro decisioni politiche, non opportunistiche, ed ebbero ragione.
Se Gentiloni dovesse fare il passo della separazione da Renzi, nel tentativo di prenderne il posto, sarebbe politicamente sorprendente, prima ancora che umanamente. Primo perché sarebbe un passo dettato da spinte esterne al partito – in questo caso perfino la voce di Di Maio s’aggiungerebbe a quelle dei bersaniani. Secondo, perché non si vede il vantaggio di una relazione con un variegato insieme di capi e capetti – interni ed esterni al Pd – di cui nel migliore dei casi sarebbe il primus ma non inter pares. Con Renzi, come accade adesso, le tensioni sono quelle fisiologiche che ci sono sempre tra il capo del governo e il capo del principale partito, esattamente come accadeva in passato, quando i due incarichi erano distinti (e fu anche per questo che successivamente si passò a doppio incarico, oggi di nuovo contestato).
La morale è che il cupio dissolvi del Pd non trova limiti.
Che ne sia Renzi il principale artefice, importa solo coloro che quando la sconfitta sarà totale potranno prendersela col capo/capro espiatorio. Di fatto, essendo lui il numero uno, in ogni caso dovrà farsene carico, ma questo dovrebbe avvenire alla fine del percorso. Non può non stupire che nel bel mezzo della rimonta del centrodestra – che potrebbe avere i caratteri dell’avvio di una lunga fase di sua egemonia – sia già in corso una resa dei conti che non fa che alimentare una profezia che non potrà non avverarsi. Ieri, si è visto un barlume di consapevolezza quando Andrea Orlando ha commentato così la sortita di Di Maio:
Noi scegliamo il leader con metodi democratici

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