In Pakistan, infuriano le polemiche – quando non la guerra aperta – tra centro e periferie e, al centro, tra politici e militari; in Cina, non mostra segni di miglioramento la crisi nello Xinjiang, dove la popolazione locale risponde con la violenza della disperazione a iniziative sempre più repressive delle autorità. Questi sono i fattori che hanno messo in crisi quello che, quando fu lanciato due anni fa, sembrava un progetto destinato a sconvolgere e ridisegnare gli equilibri regionali, il China Pakistan Economic Corridor (Cpec) e che minacciano il futuro dell’alleanza di ferro tra Pechino e Islamabad.
I partiti e i vari gruppi di potere civili e militari si battono l’uno contro l’altro con tutti i mezzi per assicurarsi una fetta della torta rappresentata dai promessi investimenti cinesi nel Cpec – oltre sessanta miliardi di dollari – e fin qui potremmo essere in una dialettica politica “normale”, anche se pericolosa per il futuro del progetto.

Bandiera del “Movimento Indipendentista del Turkestan orientale” (Kökbayraq); l’uso di tale bandiera è proibito dalle autorità cinesi
Ma il Cpec – che comporta lo spostamento in Pakistan di migliaia di manager e di tecnici cinesi – e più in generale il sempre maggiore coinvolgimento della Cina in Pakistan e nel vicino Afghanistan, hanno portato in primo piano il problema dell’atteggiamento che, con una forte dose di cautela diplomatica, possiamo chiamare “ambiguo” della classe dirigente pakistana verso l’estremismo islamico.
Islamabad non solo ha tenuto a battesimo i talebani afghani (e pakistani, dato che molti esponenti del gruppo estremisti sono nati e cresciuti in Pakistan) ma usa gruppi terroristi come il Jaish-e-Mohammad, il Lashkar-e-Toiba e molti altri nella sua guerra strisciante contro l’India nel Kashmir e in altri teatri, non escluso quello interno, dove le minoranze religiose – in primo luogo gli sciiti ma anche i cristiani e gli ahmadi – continuano ad essere perseguitate e fatte bersaglio di sanguinosi attacchi da parte degli estremisti.
Un evidente segno di frattura nell’alleanza di ferro è stato dato dall’imbarazzata reazione verbale da parte di esponenti pakistani al documento conclusivo del vertice dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) che si è tenuto in settembre a Xiamen, in Cina. Al punto ventotto del documento, dopo la rituale condanna del terrorismo, vengono nominati alcuni gruppi estremisti che sono sotto la protezione totale o parziale dell’esercito e dell’establishment pakistani.
Noi, a questo proposito, esprimiamo preoccupazione per la situazione della sicurezza nella regione e la violenza provocata dai taliban, Isil/Daesh, Al Qaida e i suoi alleati inclusi l’Eastern Turkistan Islamic Movement (“East Turkistan” è il nome con il quale i nazionalisti locali chiamano il Xinjiang, ndr), l’Islamic Movement of Uzbekistan, l’Haqqani Network, il Laskar-e-Toiba, il Jaish-e-Mohammad, il Ttp e l’Hizb ut-Tahrir.
Commentando queste parole dai microfoni di Geo Tv, il ministro della difesa di Islamabad Khurram Dastagir Khan ha usato toni estremamente difensivi, affermando tra l’altro che “queste organizzazioni hanno dei rimasugli in Pakistan, che stiamo eliminando”. Poco dopo il ministero degli esteri di Islamabad ha diffuso una nota nella quale si afferma che i taliban pakistani e lo Stato Islamico non hanno basi in Pakistan e si trovano in aree “senza governo” del vicino Afghanistan.
In realtà, nelle aree tribali tra Pakistan e Afghanistan i confini non esistono. A controllare il terreno sono i capi delle tribù locali, spesso divise tra i due paesi. A loro volta, questi capi tribali hanno solide relazioni con l’esercito di Islamabad.

La polizia cinese davanti una moschea nello Xinjang
Quanto agli altri gruppi nominati dai Brics, ricordiamo che il leader del Jamat-ud-Dawa (reincarnazione del Lashkar-e-Toiba) Hafiz Saeed vive libero a Lahore in Pakistan, mentre quello dello Jaish-e-Mohammad, Masood Azhar è stato fino ad oggi protetto non solo dalla classe dirigente pakistana ma dalla stessa Cina che, grazie alla sua qualifica di membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha impedito che fosse definito “terrorista” dall’Onu – con tutte le conseguenze che ne deriverebbero, tra cui l’obbligo per Islamabad di metterlo in condizione di non nuocere.
In ottobre il quotidiano Dawn, di Karachi, ha gettato benzina sul fuoco, affermando che nel corso di una riunione tra leader civili e militari, questi ultimi sarebbero stati messi nell’angolo dalle critiche sul loro sostegno agli estremisti. Secondo alcuni osservatori l’ex-premier Nawaz Sharif, prima di essere costretto alle dimissioni da accuse di corruzione, avrebbe cercato di “contenere” l’estremismo dei militari e l’avrebbe fatto su imbeccata dei cinesi.
La distinzione tra “buoni” civili e “cattivi” militari – oppure, in una versione alternativa, “buoni” anche i militari e “cattiva” solo la loro struttura d’informazione, la famigerata Inter Service Intelligence (Isi) – è stata più volte evocata a vanvera da commentatori superficiali o in malafede. Infatti, l’uso degli estremisti islamici come forza d’urto appartiene da decenni a tutto l’establishment pakistano: il pioniere fu il laico Zulfikar Ali Bhutto, che portò i primi estremisti afghani in Pakistan e li sommerse di soldi, una politica che poi fu proseguita dal suo successore e assassino, il generale Zia ul-Haq. In seguito tutti i governanti del Pakistan, Nawaz incluso, si sono mantenuti fedeli a quella politica.
Quello che è certo è che la Cina sta mandando segnali contraddittori sulla questione dell’estremismo islamico, che sono provocati dalla instabile situazione nel Xinjiang. In questa vasta regione, ricca di preziose materie prime e strategicamente importante dato che confina con India, Pakistan, Afghanistan e con le repubbliche centro-asiatiche, la minoranza musulmana e turcofona degli uighuri sta conducendo una disperata battaglia per la sopravvivenza davanti all’aggressività dei cinesi han, che già sono diventati la maggioranza della popolazione (in tutto poco più di venti milioni di persone tra cinesi, uighuri e altre minoranze concentrate nella zone di frontiera).
Pechino ha preso di mira tutti i simboli religiosi, arrivando a sequestrare copie del Corano nelle abitazioni private. Centinaia sono gli arresti mentre piovono le condanne a morte, protette dal “segreto di stato” e dal feroce controllo che i servizi di sicurezza esercitano su tutte le forme di comunicazione: telefoni, internet, addirittura viaggi all’estero. Decine di uighuri che si trovavano all’estero sono stati costretti a rientrare in Cina per essere arrestati come potenziali ribelli: in particolare, sono stati presi di mira gli studenti uighuri in Egitto.

Il Presidente cinese Xi Jinping con l’ex Primo Ministro Nawaz Sharif
Negli ultimi mesi sono stati arrestati almeno trenta parenti di Rebiya Kadeer, l’imprenditrice emigrata dopo alcuni anni di galera che oggi è attiva nella denuncia della repressione cinese. I moderati che promuovono il dialogo tra le diverse comunità sono i primi ad essere presi di mira, come dimostra il caso di Ilham Tohti, il professore universitario condannato tre anni fa all’ergastolo sulla base di alcuni articoli che aveva diffuso su internet. Pechino sostiene da tempo che “migliaia” di uighuri sono stati reclutati dallo Stato Islamico – oggi allo sbando dopo le sconfitte subite in Iraq e Siria – ma non ha fornito prove sufficienti a confermare questa tesi e sembra a corto di ossigeno.
Negli anni Ottanta, la questione uighura fu risolta dall’allora uomo forte Deng Xiaoping, che mandò gli estremisti a combattere contro i sovietici in Afghanistan con soddisfazione di tutti: la Cina, gli americani e gli estremisti stessi. Gli uighuri dell’East Turkestan Islamic Movement, poche centinaia, forse meno, rimasero in Afghanistan fino al 2001, quando furono spazzati via dall’attacco degli oppositori dei taliban affiancati dalle forze speciali americane. Da allora se ne sono perse le tracce. Si è parlato di nuovi gruppi, di vecchi gruppi con nuovi nomi, senza che si siano trovate prove solide della loro esistenza.
La politica ciecamente repressiva di Pechino, unita agli sviluppi politico-militari in Medio Oriente e Asia centrale, non fa che favorire la nascita di un pericoloso estremismo uighuro, che potrebbe facilmente saldarsi con quello dell’“armata del Profeta”, che in Pakistan si muove a proprio piacimento.

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