C’era una volta il Partito. C’era una volta l’informazione di partito. Che non era propaganda. C’era anche questa, vero, ma non era questo il compito di noi giornalisti. Parlo dei redattori dell’Unità, quand’era l’organo (più tardi il giornale) del Pci, poi del Pds, quindi dei Ds. Eravamo (ed eravamo considerati) giornalisti a tutti gli effetti, e diciamo pure non meno bravi e professionali degli “altri”. Lo eravamo, giornalisti, anche quando scrivevamo del Partito, anche quando ci incombeva il compito delicato di resocontare riunioni – le mitiche sessioni del Comitato centrale – alle quali solo noi avevamo accesso. Certo, dovevamo, come dire?, rispettare le regole del centralismo democratico, tener conto della “linea” (ma anche di chi non la condivideva), eppure senza partigianeria. Oggi non ci sono più i partiti, nemmeno i giornali di partito; non ci son o più i Comitati centrali e non ci sono più i resocontisti, lavoro duro e delicato. Altri tempi.

Un comizio di Palmiro Togliatti
I miei – che possono essere paradigmatici di una intera generazione, appunto di addetti ai resoconti – cominciarono per un fortuito caso nel 1959, quand’ero già da un annetto il ragazzo di bottega della redazione siciliana dell’Unità. Tra capo e collo, del tutto inattesa e niente affatto ambita, mi cascò addosso una tegola, la tegola-Togliatti. Quando “Ercoli” teneva un comizio, e soprattutto se questo discorso aveva una particolare importanza (quel giorno di primavera parlava a Palermo a chiusura della campagna per le elezioni regionali: c’era stata la cosiddetta operazione Milazzo, con l’estromissione della Dc dal governo siciliano, ma anche la burrascosa agonìa di quell’esperimento), seguivano il segretario del Pci tre persone: l’Armandino, che lo proteggeva dal 1948 (dopo le pistolettate di Pallante all’uscita della Camera), il giornalista che doveva poi spedire al giornale il pezzo-sintesi per l’indomani, e il capo degli stenografi dell’Unità, l’altrettanto prezioso (soprattutto per noi che da fuorisede trasmettevamo a Roma) Pasquale Modola che avrebbe steso l’integrale del discorso, da pubblicare successivamente.
Il resocontista di fiducia, dopo la stagione di Luigi Pintor, era oramai Luca Pavolini, che nelle pieghe del lavoro giornalistico era anche un gran traduttore dall’inglese (per esempio delle opere del filosofo gallese Bertrand Russell), e che del giornale sarebbe anche diventato direttore tra il 1975 ed il 1977 quando lo colse un infarto mortale. Bene, anzi male: all’arrivo a Palermo, Pavolini non c’era, un improvviso febbrone lo aveva bloccato a Roma. Con chi sostituirlo? Il capo della redazione siciliana, Peppino Speciale constatò che anche tra noi c’era un ammalato, e poi chi era impegnato a seguire all’altro capo della Sicilia uno sciopero importante, chi doveva “fare la cucina” delle pagine e quindi era bloccato in redazione. Insomma, toccò a me. Per giunta Togliatti parlava solo a tarda sera in piazza Politeama: era dunque necessario che ci desse degli appunti, e su quelli si lavorasse.
Corsi dunque al suo albergo, mi presentai, gli posi la questione dei tempi tecnici. Lui, amabile e comprensivo (conosceva alla perfezione i meccanismi del giornale), mi promise per il primo pomeriggio una sintesi:
Poi tu vedrai cosa farne…magari quando hai steso il pezzo, non più di sessanta, settanta righe mi raccomando, me lo fai vedere, ma solo per scrupolo…
Me ne andai un po’ meno teso. Tornai più tardi e Armandino già mi aspettava nella hall con quattro foglietti scritti a mano da Togliatti con penna caricata con inchiostro verde, non conoscevo questa abitudine già familiare per parecchi. Corsi in redazione (per risparmiare, l’amministrazione ci aveva ordinato di trasferirci in un bordello appena chiuso grazie alla legge Merlin), feci il “cappello” di circostanza e, sulla base degli appunti del Capo, costruii il pezzo con misura ma con angoscia: forse oggi è difficile spiegare e capire che cosa significasse per un giovanissimo bracciante della tastiera raccogliere, trascrivere e ampliare i concetti del Capo. Poi corsi in albergo per l’agognato visto.

Grand Hotel Et Des Palmes a Palermo
(L’albergo era l’Hotel delle Palme, un monumento dello specialissimo liberty palermitano che ne aveva viste di cotte e di crude: Richard Wagner vi aveva terminato il suo Parsifal; il poeta Raymond Russel vi si era ucciso, ciò che fu per Sciascia l’occasione del suo primo giallo; il colonnello Charles Poletti vi aveva istallato il suo quartier generale alleato durante la liberazione della Sicilia; nel ’57 si era tenuto là dentro l’ultimo, a noi noto, summit tra i boss di Cosa nostra e quelli della mafia Usa; e nel ’60 vi si consumò, complici essenziali i servizi segreti, il tentativo di corruzione che segnò la fine dell’esperienza Milazzo…)

Nilde Iotti e Giorgio Frasca Polara
Trovai Togliatti al bar dell’albergo che sorseggiava un tè insieme alla sua compagna, Nilde Iotti: anche lei non conoscevo, ma anche e soprattutto lei avrò la fortuna di frequentare ben più a lungo. E proprio a Nilde si rivolse Togliatti evitando di scorrere le cartelle che gli porgevo: “Iotti, vedi che cosa ha scritto questo nostro giovane compagno mentre io leggo questo documento che mi ha lasciato Macaluso…”, il quale Macaluso nel frattempo era passato dalla Cgil al partito diventandone segretario regionale e come tale era stato l’ispiratore dell’operazione Milazzo. Iotti si sedette ad un altro tavolino, ed io (ansiosissimo) con lei. Nilde lesse con attenzione tutto il pezzo. Poi riprese dall’inizio la lettura, una biro nella mano. Qui tolse un aggettivo e poi un avverbio (“meglio esser parchi”: disse a me che ne abusavo e ne avrei abusato tutta la vita), là cambiò un verbo (“penso che dirlo con maggiore decisione sia necessario”), qualche riga dopo aggiunse alcune parole con la sua scrittura tonda, grande e chiara, assai diversa da quella minuta del suo compagno. Andò avanti così per qualche minuto poi, con quel suo sorriso calmo e radioso, mi restituì il pezzo: “Bene così, Togliatti sarà contento, e anche tu immagino”. Figuriamoci. Togliatti non rivide il pezzo, mi salutò addirittura levandosi in piedi. Un bel sospiro di sollievo e via, a dettare Togliatti.

Edoardo Perna, Alessandro Natta, Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano. Dietro Berlinguer Tonino Tatò
Nel 1967 accadrà identica storia con Enrico Berlinguer, già in segreteria, e che due anni dopo diverrà il vice di Longo, succedendogli poi al congresso di Bologna nel 1972. Lo avevo conosciuto una decina d’anni prima, quand’era segretario della Fgci. Nessuna dimestichezza, ancora: poi la frequentazioni al Comitato centrale, quindi mi toccherà la fortuna di conoscerlo meglio anni dopo, come ho già qui raccontato a proposito dei suoi gusti musicali discussi nei mesi in cui sostituii Ugo Baduel come sua resocontista di fiducia.
Fu quello un caso analogo a quello vissuto con Togliatti ma non uguale: Enrico non era ancora uno dei massimi dirigenti del partito (anche se, dirà il perfido Gian Carlo Pajetta, alla direzione si era iscritto sin da giovane) e, seppure si era già conquistato da tempo stima e prestigio, agiva con straordinario ritegno, quasi con modestia. Ne è prova il biglietto che trovai in albergo (stessa contingenza: discorso a tarda sera, resoconto da trasmettere prima del comizio) insieme, stavolta, non ad appunti ma ad un vero e proprio breve resoconto, perfetto non solo nella sostanza ma anche nella forma. Testuale il biglietto:
Per g.f.p. Ti lascio il resoconto che ho dovuto scrivere piuttosto in fretta. Manca il pezzo introduttivo del comizio, che potrete fare voi, così come potete vedere se il testo necessita di limature, correzioni formali, integrazioni. I miei più cordiali saluti ed auguri, e.b.

Il XIV congresso del Poi a Roma, 18-23 marzo 1975
La discrezione ma soprattutto la fiducia nei compagni (nel mio caso certamente imprudente) lo rendeva sicuro. Andò bene, a lui ma soprattutto a me.
Ma nel frattempo, già dal ’62, una prima permanenza nella redazione romana (il va-e-vieni con Palermo si protrasse a lungo) mi aveva offerto l’occasione di entrare nella squadra dei resocontisti spediti periodicamente a Botteghe Oscure (anche da Milano, da Bologna, da Firenze) per le sessioni del Comitato centrale. Le riunioni del Cc, quasi sempre allargate alla Commissione centrale di controllo, erano assai riservate. Nel senso che da sempre, ed ancora sino al 1991, ai colleghi dei giornali “borghesi” che stazionavano nell’androne del Bottegone (e solo più tardi in un’apposita saletta al piano terra) veniva consegnata la relazione d’apertura, del segretario generale o del designato di turno, mentre degli interventi e delle conclusioni veniva fornito loro solo il testo che preparavano i redattori dell’Unità, e che veniva distribuito dai compagni dell’ufficio stampa: Roberta Lisi, Altero Frigerio, Roberto Monteforte, Raffaele Gorgoni, altri ancora.
Quel testo veniva prima quasi sempre rivisto dall’oratore e, nei casi più delicati, anche da un membro della segreteria. In realtà, via via che passavano gli anni, il muro della riservatezza si andò sgretolando: all’uscita del Bottegone c’era sempre qualche compagno che rivelava un battibecco, che riferiva una frase polemica espunta dai resoconti ufficiali e che dava una interpretazione del dibattito meno ingessata di quanto non apparisse dai nostri resoconti che l’indomani occupavano noiosissime pagine e pagine dell’Unità.

La copertina di “Time” dedicata a Nikita Krusciov
In un’unica occasione, ch’io sappia, un intervento in Cc non solo non fu pubblicato neppure in versione addomesticata, ma addirittura non se ne ebbe notizia per quasi quarant’anni: e dire che si trattava di un discorso di Togliatti. Accadde nel novembre del 1961, all’indomani del XXII congresso del Pcus che non ebbe il clamore del XX (con il successivo trapelare del rapporto di Nikita Krusciov sui crimini attribuiti al solo Stalin, non al sistema staliniano) ma che fece emergere una questione drammatica nel Pci: la sorte di centinaia di comunisti italiani e di esuli antifascisti finiti nei gulag se non torturati o fucilati per le spicce. Tra le vittime c’era un cognato di Togliatti e membro della Ccc, Paolo Robotti, cui la polizia segreta aveva spaccato la schiena durante un interrogatorio e che rischiò poi di morire in un “campo di lavoro” in Siberia.
Forse Robotti era stato arrestato per colpire o almeno minacciare Togliatti, ma quando tornò in Italia Robotti non denunciò nulla e nessuno, anzi scrisse una voluminosa bibbia in due volumi su come si viveva bene, anzi ottimamente, in Urss. L’Unità riferì del caso-Robotti (compreso l’intervento dell’interessato) senza censure o autocensure. Ma non riferì dell’intervento conclusivo di Togliatti che, in polemica da un lato con Giorgio Amendola e dall’altro con Aldo Natoli, rivendicò il suo ruolo in quegli anni bui a Mosca con parole che non avrebbe mai considerato di autodifesa.
Come si seppe, tanti anni dopo, di quell’intervento? Non ce n’era traccia, ripeto, nei resoconti; ma neppure nel verbale tradizionalmente steso dal mitico Giuseppe Dama, il funzionario addetto alla segreteria del partito, e men che mai nella voluminosa raccolta degli scritti di Togliatti curata dagli Editori Riuniti di una volta. Ma c’era, quell’intervento, in una bobina della registrazione di quella sessione del Comitato centrale. Lo scoprì (e lo pubblicò quarant’anni dopo, nel 2000, su Italia contemporanea) Stefano Martinelli, lo storico marxista che si era assunto il meritorio onere di continuare la Storia del Pci che si sarebbe altrimenti interrotta per la morte prematura di Paolo Spriano. Lettura istruttiva, quel discorso… Chiuso il lungo inciso. Un anno dopo il caso Robotti cominciai a fare il resocontista. Per quasi trent’anni.

Umberto Terracini
Le regole cui di norma dovevano attenersi i resocontisti del Cc e della Ccc erano poche e poco elastiche. Ai dirigenti periferici era assegnato lo spazio di una cartella e mezzo, tre cartelle ai big, ma anche meno, o anche più: giocavano vari e contingenti fattori, ma mai fattori di corrente (parola proibita) o di diverse sensibilità. Ciascuno di noi aveva i suoi preferiti: io mi ero presto specializzato nell’inventarmi gli interventi di Salvatore Cacciapuoti (un operaio che aveva fatto anni e anni di galera fascista e che alla Liberazione aveva assunto una posizione di grande rilievo nel partito napoletano) sulla base di un paio di sue “idee” espresse preventivamente in stretto dialetto dei Quartieri spagnoli.
Ma soprattutto consideravo un assoluto privilegio, cui tenevo moltissimo, assegnarmi la sintesi degli interventi di Umberto Terracini, uno dei fondatori del Pcd’I e poi prestigioso presidente dell’Assemblea costituente, finissimo oratore, spesso assai polemico nella sua assoluta autonomia di giudizio (anti-aventiniano, anti-patto Molotov-Ribbentrop che gli costò in carcere l’espulsione dal partito, anti-compromesso storico) e le cui sfumature anche lessicali, nei suoi discorsi e interventi, era sempre intrigante cogliere ma assai arduo poi rendere con efficacia. Resocontarlo era insomma una sfida, difficile ma persino divertente. Mi andò sempre così bene che un giorno Terracini volle dedicarmi una foto d’agenzia che lo ritraeva proprio insieme a me:
A gfp, compagno carissimo che bene intende l’altrui pensiero e meglio ancora stringatamente lo riassume.
Già in queste parole c’era quasi tutto lo stile di Terracini. Dico quasi ché mancava solo il suo frequente intercalare: “nevèro”.
In tanti anni da resocontista, si è vissuto un solo momento davvero difficile, anzi drammatico. Accadde nell’autunno del 1969, con la sessione del Cc e della Ccc dedicata al caso del manifesto. Relatore Alessandro Natta, tensione assai alta, clima civile ma da evidente resa dei conti con gli “eretici”. Si sapeva in partenza come sarebbe andata a finire: non l’espulsione, misura greve, e troppo grave, persino immotivabile; ma la subordinata, ugualmente misura severa (e comunque per me sbagliata) fu la radiazione cioè in pratica la estraneazione.

Eliseo Milani, Rossana Rossanda, Luciana Castellina e Lucio Magri, congresso de il manifesto, i974
Parlarono tutti e tre, i membri del Comitato centrale che, con Lucio Magri, avevano dato vita alla rivista mensile che precedette la fondazione del quotidiano: Aldo Natoli, ex partigiano, poi a lungo popolare segretario della Federazione comunista romana, deputato in carica; Luigi Pintor, che era stato vicedirettore dell’Unità ed era il più straordinario, efficacissimo polemista non solo sul giornale (sino a quando non era stato rimosso, giusto da Alicata) ma anche nelle storiche, primordiali, tribune politiche in tv; e Rossana Rossanda, l’allieva preferita di Antonio Banfi, animatrice della Casa della cultura milanese, già responsabile della commissione culturale del Pci.

Lucio Magri, Alessandro Natta e Alfredo Reichlin
Furono, i loro, interventi duri e appassionati, quanto lo era stata la relazione di Natta. Ero già allora il responsabile della squadra dei resocontisti che lavoravano stretti in una stanza ricavata dentro il salone del Comitato centrale. Era un locale angusto che pure dividevamo con la squadra dei tecnici addetti alla registrazione delle sedute. Quando terminò la fase cruciale del dibattito i resocontisti si riunirono e furono concordi nell’interrogarsi: come facciamo a considerare burocraticamente gl’interventi dei tre misurando con il bilancino delle righe e delle cartelle quelli che – per loro stessi, per i lettori, per tutti gli iscritti, per l’opinione pubblica – sarebbero stati gli ultimi interventi nella sede di quel Pci che si apprestava a estrometterli? Impossibile, bisogna dare lo spazio necessario perché il loro pensiero sia chiaramente espresso e compiutamente compreso (per la relazione di Natta nessun problema: era stata già pubblicata integralmente il giorno prima).
Mi assunsi l’onere di parlarne subito con lo stesso Natta, con cui già allora avevo un rapporto assai amichevole che sarebbe durato per decenni, sino alla sua scomparsa “da semplice frate”, quando volle lasciare (pardon: fu costretto, con la scusa di un lieve infarto) la segreteria del partito. Secondo noi – gli dissi – gl’interventi di Natoli, Pintor e Rossanda vanno dati ampiamente, non solo perché faranno notizia, ma anche perché è inutile ed anzi controproducente che gli altri giornali si servano, per i loro interventi, di altre fonti. Non ci fu bisogno di una trattativa, come pure altre volte era invece accaduto. Natta riconobbe subito il valore dell’osservazione. Avemmo via libera. Non uno dei tre fu grato (o comunque riconobbe il gesto) alla squadra dei resocontisti, peraltro sempre considerati, anche nel giornale, una sottospecie del giornalismo politico.
Valga a testimoniarlo un particolare còlto al congresso di Rimini, 1991, l’ultimo del Pci. Di norma per i congressi era ingaggiata la stessa squadra impegnata nelle sessioni del Comitato centrale, ovviamente allargata ad altri compagni. La redazione dell’Unità, sistemata dietro il palco della presidenza e sempre a distanza sanitaria rispetto ai box dei giornali “borghesi”, della radio e delle tv, era costituita da quattro stanze: una per la direzione, una per la segreteria, una per– così recitava seriamente la tabella affissa alla porta – gli “scrittori” (cioè i commentatori: da Ugo Baduel a Enzo Roggi, da Candiano Falaschi a Fausto Ibba, a Bruno Miserendino…), ed un’altra per – così recitava altra, uguale tabella – i “resocontisti”: Stefano Di Michele, Vicè Vasile, Peppino Mennella, Bruno Enriotti, Nanda Alvaro, Bianca Mazzoni, Onide Donati, Renzo Cassigoli, Matilde Passa, io stesso…
Sostenne Di Michele sul Foglio che io assegnassi d’imperio i compiti: “Tu fai Reichlin, tu Tortorella, tu Ingrao, tu il compagno…”. “E chi cazzo è?”. “Uno che va resocontato con attenzione”. In realtà non assegnavo nulla, si giocava di solito sulle preferenze personali, sul comune sentire, e ben spesso sulle emergenze. Vero è invece un altro ricordo di Stefano:
Il fuggi fuggi – facce assenti, lunghe soste sotto la scrivania alla ricerca della penna caduta – che si scatenava con l’avvicinarsi dell’intervento di qualche teorica neofemminista. “Mejo Napolitano!”, era l’urlo di dolore,
ben sapendo tutti della meticolosa precisione di Giorgio, capace di farti riscrivere due, anche tre volte la sintesi del suo intervento prima di riscriverselo da solo. (Una citazione a parte merita, nella squadra assai più ampia addetta ai congressi, Antonio Caprarica, detto Gegè Bellavita per il gusto originale nell’abbigliamento, per lo studio delle lingue che comunque gli sarebbero servite nel suo futuro televisivo, e per una certa manica larga nelle spese. Antonio si considerava, a giustissimo titolo, uno che sapeva scrivere e che capiva la politica. Per questo una volta, alla vigilia di un congresso del Pci, sbottò:
Io voglio scrivere di politica, magari fare anche il colore… Insomma io non ci sto nella squadra di gfp…
Fu giustamente accontentato: i braccianti della tastiera, destinati a stilare anonimi resoconti, erano una cosa, le “firme” un’altra).

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!