Più di trecento persone sono state uccise nell’attacco di venerdì scorso contro la moschea di Rawda, nel nord del Sinai: è il più grave attentato nella storia recente dell’Egitto.
Chi sono gli autori di questa carneficina, cosa li ha spinti e quali sono le implicazioni sul piano interno e internazionale?
L’abbiamo chiesto a uno dei maggiori studiosi dell’Islam contemporaneo in Italia, il professor Massimo Campanini, autore di numerose monografie e saggi come “Islam e politica”, “Il Corano e la sua interpretazione”, “Le rivolte arabe e l’islam, la transizione incompiuta”, “Storia del Medio Oriente contemporaneo” o “Introduzione alla filosofia islamica”.

Massimo Campanini
Professore, chi c’è dietro a questo attentato? È stato l’Isis?
Nella galassia frammentata dei gruppi che emergono qua e là nel mondo arabo, è difficile indentificare il vero responsabile di questo attentato.
Voglio comunque fare tre osservazioni, per gettare un minimo di luce su questo avvenimento:
1 l’etichettatura “Isis” è un’etichettatura di comodo, per coprire le malefatte di “cani sciolti”, gruppi che operano autonomamente o strategie a più ampio raggio;
2 sono ormai alcuni anni che si sono formati dei gruppi estremisti nel Sinai, per ragioni geografiche e antropologiche. Da un lato, il Sinai è una penisola completamente deserta e, perciò, offre un terreno favorevole per nascondersi, tenere celati depositi d’armi e organizzare accampamenti. Dall’altro, già da tempo, le popolazioni di beduini che vivono nell’area hanno assunto un atteggiamento di contestazione nei confronti del potere centrale del Cairo;
3 l’Egitto è attualmente un paese debole, che sta attraversando una fase di estrema confusione interna – per quanto riguarda la sicurezza, ed esterna – per quanto riguarda le strategie internazionali. Sono finiti i tempi d’oro di Nasser e Sadat, ora il paese si è ridotto a ruota del carro armato saudita!
Sulla base di questi tre presupposti, si può presumere che l’attentato sia stato un tentativo di indebolire il già precario equilibrio del governo egiziano, anche istigando nella popolazione del Sinai e, più in generale, dell’Egitto, dei sentimenti di insicurezza, paura e terrore, che potrebbero contribuire a un ulteriore indebolimento del regime di Sisi.

Abdel Fattah Al Sisi
A proposito della debolezza sul piano interno del regime di Sisi, i gruppi che proliferano nel Sinai hanno qualche legame con la Fratellanza musulmana o cercano comunque di fare presa sui suoi adepti?
Innanzitutto, sono assolutamente contrario alla demonizzazione della Fratellanza musulmana. Questo atteggiamento ha fatto comodo a Nasser, Sadat, Mubarak e Sisi per dispiegare alla massima potenza le loro capacità repressive del dissenso interno. Questo mito è stato difeso e accresciuto dall’opinione pubblica e dai governi dell’Occidente, che, in maniera assolutamente stolta, continuano a effettuare l’equazione “Fratellanza musulmana = terrorismo”.
Questa non ha alcuna base storica. Certo, è vero che nella Fratellanza musulmana ci sono state delle frange estremiste, che hanno scelto la lotta armata, come nel caso di Sayyid Qutb. Ma non va dimenticato che Qutb subì quindici anni di tortura e incarcerazione.

Sayyid Qutb
Vari studiosi hanno identificato nella repressione dei regimi autoritari al potere il principale motivo di radicalizzazione violenta dell’islamismo in Egitto. Il fatto che l’Occidente abbia sostenuto e approvato questo modo di fare è segno di una miopia politica e di un’ignoranza storica estremamente pericolose.
Detto ciò, potrebbe essere vero che elementi della Fratellanza musulmana abbiano partecipato a questi atti terroristici. Ma non dimentichiamo che il 3 luglio 2013, quando Sisi ha preso il potere con il colpo di stato, ha sterminato migliaia di fratelli musulmani e che altre migliaia erano state uccise dai presidenti precedenti.
In tal senso, l’assurda identificazione dei Fratelli musulmani con il terrorismo è stato e continua a essere uno degli errori più grossi dell’Occidente, perché così dà a Sisi la patente per continuare a perseguire la politica di militarizzazione e chiusura degli spazi delle società civile, che è una delle cause dello stato di incertezza dal quale l’Egitto si batte per uscire.

L’ex presidente egiziano Mohamed Morsi, incarcerato dopo la presa di potere da parte di Sisi
La strada per uscire da questa incertezza si presenta in salita. Lei condivide le analisi dei suoi colleghi che sostengono che i foreign fighters si siano spostati nel Nordafrica e che qui si stia formando un “califfato del deserto”?
Questa interpretazione ha una sua logica. La strategia di fondo del cosiddetto Isis è stata quella di cercare un territorio specifico dove costruire istituzioni di tipo governativo, cosa che lo ha differenziato in maniera abbastanza netta da Al Qaeda. Una volta perso il radicamento territoriale che aveva in Siria e in Iraq, a causa delle operazioni militari contro Mosul e Raqqa, che hanno dato un colpo definitivo alla sua organizzazione militare in Mesopotamia, l’Isis sta cercando di organizzarsi in altri territori.
In Nordafrica, il deserto è appetibile perché offre aspetti tecnico-tattici che lo rendono difficilmente controllabile dalle autorità governative. A quanto precedentemente detto a proposito della zona del Sinai, va aggiunta la situazione in Libia. La Libia è ormai un’entità statuale evanescente. È in corso una guerra tra bande e, in questa situazione precaria, la posizione delle potenze europee è, ancora una volta, cieca, in quanto non tiene conto delle rivalità tra raggruppamenti di interessi tribali caratteristici del paese. È evidente che questa fascia di territorio si adatta bene al radicamento del cosiddetto Isis.

Le tre regioni dell’attuale Libia
Il problema è capire quali sono le tensioni che si muovono al di sotto di questa fantomatica organizzazione. È stolto insistere a definire l’Isis un’organizzazione islamica, che impersonerebbe in qualche modo l’anima essenziale di un Islam virulento e assassino.
I più di trecento egiziani assassinati nel Sinai – musulmani – non hanno fatto clamore. Fossero stati copti sarebbe stato alzato un gran polverone. Per la nostra opinione pubblica, l’importante è che non siano occidentali, cristiani o ebrei!
Sono provocazioni, ovvio, ma se si guarda a questa realtà in maniera obiettiva, ci si rende conto che le politiche adottate in Medio Oriente dai paesi occidentali fin dalla prima guerra mondiale, se non prima, sono state improntate a una logica di potenza colonialista, ovvero è mancata la lungimiranza di cercare di comprendere le dinamiche sottese a specifici contesti.
Per esempio, è pericolosissima la continua emarginazione in cui l’Occidente tenta di cacciare l’Iran. Le prese di posizione pro-saudite sono miopi e stolte.
Questa “cecità” è aumentata con l’amministrazione Trump?
A partire dalla guerra dei sei giorni, nel 1967, la politica degli Stati Uniti, paese guida dell’Occidente, è stata sbagliata alla radice. Anche quando all’inizi degli anni Settanta c’era la possibilità di arrivare a un accordo tra israeliani e palestinesi, Kissinger disse che per i palestinesi non c’era spazio. L’invasione dell’Iraq da parte di George W Bush, nel 2003, poi, è stato uno dei più grossi errori in politica estera dell’Occidente a partire dalla prima guerra mondiale.
Saddam Hussein era un dittatore sanguinario, ma la sua caduta ha consentito il radicamento di Al Qaeda e l’espandersi del conflitto tra sunniti e sciiti.
Anche la politica di Barack Obama è stata un fallimento assoluto. Si è mosso con grande incertezza, dimostrando di non avere una chiara strategia in mente. Alla fine della sua presidenza, ha cercato di mettere a posto le cose, provando ad aprire una porta di credito all’Iran.

Sisi, re Salman d’Arabia Saudita, Melania e Donald Trump
Trump ha chiuso questa porta. È tornato all’allineamento nei confronti dell’Arabia Saudita.
La motivazione principale dietro questa politica è la difesa “a prescindere” dello stato di Israele. Dal 1967 ai giorni nostri, la politica dell’Occidente è stata finalizzata a difendere Israele, a ragione o torto. Questo ha portato a un incancrenimento della questione palestinese, una bomba a orologeria pronta a esplodere. E per questo si dice che Hamas e Hezbollah sono terroristi. Ma anche qui vale lo stesso discorso fatto per i Fratelli musulmani.

L’ayatollah Ruhollah Khomeini
L’Iran poteva essere una minaccia quando salì al potere Khomeini, nella misura in cui tentava di coltivare l’idea di espansione della rivoluzione islamica. Ma ne è passata di acqua sotto i ponti e i tempi sono cambiati. A parte le sparate di Ahmadinejad, la dirigenza iraniana è sempre stata estremamente pragmatica, anche perché la società civile iraniana è molto vivace e consapevole.
Emarginare l’Iran a vantaggio dell’Arabia Saudita, per fare un piacere a Israele o solo perché l’Arabia Saudita è alleata dell’Occidente fin dagli inizi degli anni cinquanta, è la politica dei neocon (la cui notorietà è legata alla politica estera adottata dal presidente Bush dopo gli attentati dell’11 sett. 2001: a loro viene infatti attribuita la paternità della teoria dell’esportazione della democrazia nel mondo, in funzione antiterroristica, ndr), che non devono aver mai letto Machiavelli, altrimenti si sarebbero resi conto che la politica è fatta di pragmatismo, contrattazione ed equilibrio. L’azione politica dell’Occidente in Medio Oriente, invece, è sempre stata disequilibrata e questo ha portato a un incancrenimento della situazione che ancora oggi fa sentire i suoi effetti.
Un ritorno di Trump alla politica dei neocon potrebbe avere affetti negativi pericolosi. Ma la linea politica che il presidente degli Stati Uniti vuole adottare è tutt’altro che chiara: dice di voler fare una cosa, poi la nega, prende una decisione poi la cancella.
Certo, se questa politica ritornerà al filo conduttore dei Bush, dei Regan, dei Nixon e dei Kissinger, è chiaro che prima o poi ci sarà una nuova esplosione in Medio Oriente.

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