Il climate change della politica italiana produce lo scioglimento sempre più veloce dei grandi blocchi elettorali*. Quei blocchi che per molto tempo avevano reso stabile e continuativo il quadro dei rapporti di forza, e abbastanza prevedibile l’esito delle consultazioni elettorali e anche referendarie. Craxi esultava quando il Psi avanzava di un paio di punti, e andare oltre il quattordici virgola per cento gli faceva dire che si era in presenza di una “onda lunga” socialista. Ci rimase di stucco, lui, vecchia volpe della politica, quando il referendum del “tutti al mare” si rivelò l’inizio della sua fine e l’avvio di una fase politica nuova, anzi, di un’epoca nuova.
In realtà il fenomeno della frammentazione e del dissolvimento di grandi pezzi ibernati di elettorato – della Prima repubblica e in parte anche nella Seconda repubblica – è in corso ormai da tempo, e probabilmente risale ai primi anni Novanta, proprio a quel referendum, sulla preferenza unica. L’ultimo referendum, il 4 dicembre scorso, l’ha reso particolarmente evidente, anche nella sua irriversibilità. E ora, in vista delle elezioni del prossimo anno, la volatilità crescente e la fluidità insondabile dell’elettorato diventano la questione numero uno nell’individuazione dei temi di battaglia e nella calibratura delle campagne elettorali delle forze in competizione per il prossimo parlamento.
Parlare di scioglimento dei blocchi significa parlare di un processo in corso, non si sa per quanto tempo ancora e con quale andamento, non di certo lineare: il che complica le cose per gli strateghi elettorali. Perché rende difficile capire quanto ci sia di nuovo e quanto di vecchio – e quanto del mix dei due – nel sentiment e nei comportamenti degli elettori italiani, specie quelli con più esperienze ai seggi.
La rottura dei legami di fedeltà verso il partito di preferenza o di riferimento non si è del tutto consumata presso l’elettorato più anziano: ancora una quota grande, anche se non più maggioritaria, di questo elettorato si considera stabilmente di destra/centrodestra o di sinistra/centrosinistra. Piuttosto che votare per una forza del campo opposto [per non votare più per il solito partito perché da esso traditi o delusi] preferisce l’astensione.
La novità dei Cinque stelle sta tuttavia seriamente intaccando la polarizzazione centrodestra-centrosinistra, come hanno dimostrato diverse consultazioni locale e ultimo il voto siciliano. Ma proprio le elezioni siciliane indicano anche che, in termini di voti reali, l’elettorato di sinistra/centrosinistra è e resta sempre quello, da oltre vent’anni, con 250.000 preferenze, un blocco ancora congelato (per lo meno in quella regione). La sconfitta siciliana per Renzi è dovuta al mancato apporto di nuovi elettori? Di elettori giovani? Di elettori d’opinione?
Quindi siamo ancora nel mezzo di una transizione, dal vecchio bipolarismo, in crisi ma non consumato del tutto, a un non meglio definito tripolarismo.
Sempre più importante in questo scenario in mutazione è la quota di elettori di tutte le età – in crescita costante – che si comportano con la stessa libertà dei consumatori al mercato. In passato era minima, oggi è rilevante. In molti collegi sarà decisiva la scelta, spesso last minute, dell’elettorato d’opinione.
Chi sono questi elettori incerti e aperti “al mercato”, in bilico, chi sono gli swing voter?
Al referendum dello scorso dicembre un paio di milioni votava per la prima volta. A distanza di poco più di un anno voterà per la seconda volta e a loro si uniranno altre centinaia di migliaia di nuovi elettori. Una consistente fetta elettorale di cui si sa poco o niente.
Al referendum, inoltre, ci fu – si calcola – un quattro per cento di ricambio di elettori (un milione e ottocentomila nuovi votanti e altrettanti votanti defunti). E l’esito della consultazione mise in luce una polarizzazione generazionale nel comportamento alle urne, con un solido “no” tra i giovani e un altrettanto solido “sì” tra gli anziani.
Come si tradurrà questa polarizzazione demografica alle prossime elezioni generali?
L’ultima Leopolda è stata tutta indirizzata nei confronti dei cosiddetti millenial. Renzi corteggia quest’elettorato ma fatica ormai a esserne egli stesso un testimonial credibile. Da troppo tempo è sulla breccia e, pur essendo da poco quarantenne, è politicamente anziano.
Più convincente agli occhi dei giovani – antropologicamente e culturalmente parlando – potrebbe rivelarsi Luigi Di Maio, che rispecchia bene un tipo-cliché del ragazzo d’oggi, compresi gli strafalcioni che gli sono rimproverati, ma che lo rendono personaggio con cui è facile, per molti coetanei o più piccoli di lui, identificarsi.
E la sua compostezza di bravo ragazzo sembra fatta apposta per piacere anche a una parte delle persone anziane, il più grande blocco elettorale. Quello a cui si rivolge soprattutto l’agé Silvio Berlusconi, una maschera di cera da paura ma che suscita simpatia in persone di “una certa”, e oggi anche oltre il suo elettorato tradizionale, quegli anziani che si sentono minacciati dal giovanilismo imperante e che considerano un’avventura affidarsi a un Di Maio.
L’uscita di Eugenio Scalfari – voterei Berlusconi piuttosto che Di Maio – è il sintomo di una sintonia generazionale che prevale su qualsiasi altro dato di fronte alla possibilità che s’affermino il movimento cinque stelle e il suo candidato premier.
Di converso il fascino dei capelli bianchi presso una parte del pubblico giovanile indica che un certo giovanilismo “rampante” non piace neppure ai giovani alla ricerca di certezze ideologiche, anche vintage, perché no? Ma per ora non si vedono gli equivalenti tricolore di Corbyn e Sanders. Pietro Grasso? Già, il settantaduenne presidente del senato è stato lanciato nel marketing politico con il brand del “ragazzo di sinistra”.
La demografia, molto più che l’astensione, sarà dunque il tema su cui occorrerà approfondire e affinare i ragionamenti per capire in che campo di gioco si disputerà la competizione del prossimo anno.
L’affluenza, il 4 dicembre 2016, fu molto alta, attestandosi sul 65,5 per cento: in totale hanno votato 33.244.258 italiani, una cifra non lontana da quella raggiunta alle politiche 2013 (quando votarono in 36.374.915, ossia il 75,2 per cento degli aventi diritto) e molto superiore a quella delle europee di due anni fa (in cui l’affluenza si fermò al 56 per cento e i votanti a 28.991.258). Cifre che dimostrano, anch’esse, la volatilità e l’umoralità degli elettori oggi. Di fonte a questi caratteri salienti, il dato dell’astensione sembra secondario, anche se in questi giorni vede esercitarsi fior di commentatori. E di leader politici.
La scommessa di D’Alema e Bersani è di rivitalizzare e rimotivare gli elettori di sinistra che ormai non votano più da tempo, specie dacché la leadership del partito è nelle mani di un segretario che ha la grande e non redimibile colpa di non provenire dalla tradizione comunista.
Vedremo se questo tentativo di recupero con un profilo di sinistra rosso antico si rivelerà una leva importante e proficua per avere una performance elettorale decente per Articolo1 e alleati e se pertanto intaccherà quello che oggi appare il dato politico principale, il dato costituito – come si è detto – dall’affermazione dilagante del voto post-ideologico e libero, che vola e va posarsi sul simbolo che a torto o a ragione rappresenta un buon investimento per l’elettore.
Un investimento che è anche un’assicurazione contro la paura.
La paura dettata dalla demografia. Di nuovo protagonista della competizione elettorale nelle forme di un altro cambiamento “climatico” eccezionale, quello determinato sulla chimica demografica del paese dall’emergenza immigrazione e da tutti i temi a essa connessi. La paura che è lo stendardo della destra, l’unico tema che aggrega efficacemente un insieme di forze politiche altrimenti divise su questioni nevralgiche ancor più del centrosinistra.
Questo tema avrà un peso enorme – trasversale – nell’orientamento di tanti elettori, così come l’ha avuto in tutte le più recenti consultazioni. Nel referendum costituzionale, una parte consistente di elettori ha votato no contro il governo, perché considerato responsabile della presenza e dell’arrivo di immigrati nel nostro paese.
La politica del ministro Minniti, che Renzi ha abbracciato, servirà a rassicurare una parte dell’elettorato moderato in bilico? O avrà l’effetto – combinato con l’abbandono dello ius soli – di allontanare elettori di sinistra che considerano di destra, se non xenofoba, la politica del ministro degli interni?
Va rilevato anche il totale silenzio della sinistra-sinistra sul merito della questione immigrazione. La critica a Minniti non è accompagnata da proposte di breve e di medio periodo su come affrontare il problema degli arrivi e quello di un’accoglienza civile degli immigrati. Segno che queste forze non si candidano alla guida del governo, il che è realistico, ma a un’opposizione vecchio stile, più da sinistra estrema che “stile Pci”.
Il che fa anche presumere e temere che la critica al Pd, al suo segretario e ai suoi ministri prevarrà su quella rivolta alla destra di Salvini e Melloni, perfino in tema d’immigrazione.
La sfida elettorale, non più bipolare, riserverà dunque una campagna sbalorditiva, con aggregazioni e alleanze tra nemici davvero inedite e sorprendenti.
Se al referendum costituzionale poteva apparire perfino “normale” che Bersani e Meloni andassero a braccetto contro Renzi, nelle elezioni politiche queste sintonie, di fronte a un elettorato in estrema e inafferrabile mobilità, in un sistema di voto che spinge alla frammentazione, non faranno che rendere ancora più indecifrabile lo scontro elettorale e ancora più imprevedibile il suo esito.
*Secondo i politologi Stein Rokkan e Seymour Martin Lipset, nella società moderna vi sono state quattro fratture (cleavage) che hanno messo in conflitto i gruppi sociali e che sono state la causa della nascita dei partiti come li conosciamo oggi: 1 centro/periferia; 2 stato/chiesa; 3 città/campagna; 4 capitale/cavoro.
Rokkan e Lipset notano come gli schieramenti partitici si siano totalmente congelati dagli anni Venti fino alla fine degli anni Sessanta, tanto che “le alternative, e in molti casi le organizzazioni, partitiche, sono più vecchie della maggioranza dei loro elettorati”.
All’ombra di questo congelamento dei partiti, la discussione è su quali fratture struttureranno il conflitto sociale futuro. E quali partiti ne nasceranno.

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