Con una sentenza che ha fatto scalpore, facendo parlare l’opposizione di volontà golpista e soprattutto gettando alle ortiche il risultato del referendum del 21 febbraio 2016 con il quale la maggioranza dei boliviani aveva detto no a una sua rielezione, il Tribunale costituzionale plurinazionale ha accolto martedì il ricorso presentato il 19 settembre da un gruppo di deputati del Movimiento Al Socialismo (Mas) permettendo a Evo Morales di ripresentarsi alle elezioni presidenziali del 2019.
Se Evo ce la facesse, sarebbe la quarta volta, essendo stato eletto nel 2005, rieletto nel 2009 dopo l’entrata in vigore della nuova costituzione (Cpe) per il periodo 2010-2015, e ancora una volta scelto dalla maggioranza dei boliviani che l’hanno mandato a Palacio Quemado fino al 2020.
La sentenza, presa all’unanimità, com’è stato spiegato dal giudice Macario Lahor Cortez in una conferenza stampa a Sucre, privilegia la Convenzione Americana sui Diritti Umani firmata nel 1969 a San José del Costa Rica, in quanto maggiormente favorevole per quanto riguarda i diritti politici, rispetto agli articoli della Costituzione boliviana che impongono il limite di due mandati. E si applica anche ai governatori, sindaci, deputati che ora potranno ripresentarsi ed essere rieletti senza alcun limite.
La presentazione del ricorso degli esponenti del Mas aveva generato un’atmosfera di grande attesa nel paese, tanto che nelle scorse settimane erano state promosse manifestazioni di piazza a favore e contro l’ipotesi di ricandidatura di Morales. Ora il verdetto emesso dalla corte potrebbe spingere la sua esperienza presidenziale fino al 2025, consentendogli di festeggiare in carica i duecento anni d’indipendenza dalla Spagna. Un’occasione ghiotta che potrebbe segnare una sorta di apoteosi dell’uomo che in questo modo riuscirebbe a stare al governo per un totale di diciannove anni.

Al referendum del 2016 il “No” vinse con poco più del 51 per cento dei voti, rifiutando così il progetto di legge costituzionale che avrebbe permesso a Evo Morales di ricandidarsi per la quarta volta.
Se il Mas non ha mai fatto mistero di non aver digerito il risultato negativo di stretta misura del referendum del 2016 (vinse il “No” con il 51 per cento), spingendolo a tentare la carta della ricandidatura di Evo anche per la mancanza di un’alternativa altrettanto carismatica, l’opposizione nelle scorse settimane ha fatto ricorso all’argomentazione che permettere una ricandidatura del presidente sarebbe stato andare contro la volontà popolare.
E, alla notizia del verdetto, non si è risparmiata sparando ad alzo zero attraverso numerose prese di posizione di suoi esponenti. Il vicepresidente del Mds (Movimiento Demócrata Social) Vladimir Peña ha accusato la giustizia del paese di essere uno strumento in mano al Mas, al quale garantirebbe impunità, corruzione, “violando i diritti dei cittadini e vulnerando la costituzione”.
Dal canto suo Tuto Quiroga, presidente del paese dal 2001 al 2002, ha definito “sicari” i giudici del Tribunale Costituzionale, tacciandoli di “dare un colpo alla democrazia”, e ha accusato Morales di disconoscere la carta costituzionale, disonorando la promessa che avrebbe rispettato i risultati del referendum che gli era stato sfavorevole. Ha poi aggiunto Quiroga:
Bisogna respingere questo colpo di Evo Morales alla Costituzione, e annullare il suo golpismo autoritario domenica prossima annullando la scheda.
Una proposta già avanzata da un gruppo di legislatori che hanno invitato gli elettori a votare scheda nulla domenica prossima 3 dicembre, quando si eleggeranno le alte cariche dell’organo giuridico e dello stesso Tribunale costituzionale plurinazionale, per protestare contro quella che hanno definito “una sentenza politica”.
Dal canto suo, l’altro ex presidente boliviano Carlos Mesa ha fatto conoscere attraverso il suo account Twitter il suo pensiero sulle decisioni del Tribunale costituzionale, accusandolo di “aver distrutto le garanzie democratiche”, disconosciuto l’inalienabile sovranità del popolo espressa nel referendum, e convertito la Bolivia in un paese sottomesso all’arbitrio di Morales, burlandosi della legge.
A tutti gli effetti, suscita qualche ragionevole sospetto e sembra non deporre a favore della credibilità del Tribunale stesso il fatto che il vice presidente boliviano Alvaro García, l’alter ego di Evo, già lo scorso 2 novembre invitasse a preparare la campagna del 2019. Come se i dirigenti del Mas fossero certi dell’esito finale del ricorso.

Evo Morales e Nicolás Maduro a fine novembre in Bolivia durante il GECF, il Summit dei paesi esportatori di gas.
A mettere il dito nella piaga di un’opposizione spesso inconcludente ha provveduto il sindaco di La Paz e capo della formazione Soberanía y Libertad (Sol.bo) Luis Revilla, il quale ha affermato che per poter vincere il Movimiento Al Socialismo bisognerà costruire un’alternativa politica. Che poi, in fondo, è il vero problema che hanno le forze che si oppongono alla debordante personalità politica di Morales.
Revilla ha invitato tutta l’opposizione a creare “un’alternativa vittoriosa, come non si è fatto prima”. Facile più a dirsi che a farsi, per quanto la popolarità dell’attuale presidente non sia più quella di una volta, e alcune delle sue decisioni politiche anche in fatto di rispetto ambientale gli abbiano alienato perfino le simpatie degli indigenas. Com’è accaduto nella recente vicenda del progetto della strada che doveva unire Cochabamba con il Beni: dopo che settori di popolazione si sono opposti al tracciato che doveva passare per la riserva naturale indigena del Tipnis, Evo è stato costretto a fare marcia indietro.
Nonostante tutte le critiche e gli appelli che gli vengono fatti anche da chi l’ha sostenuto affinché dopo tutti questi anni finalmente “descanse”, Evo, seppur imbolsito, rimane una spanna sopra tutti gli altri competitor. E la dirigenza del Mas ne è ben cosciente, tanto che lo stesso vicepresidente, Alvaro García Linera, si guarda bene dal lasciare il suo posto di eterno secondo. Mentre l’ex ministro degli esteri David Choquehuanca, indigeno come Evo, di cui si era parlato in passato come suo possibile successore, ha deciso di tornare a far politica alla base del Mas. Campo libero quindi a Morales, pena la sopravvivenza della dirigenza del Mas e del sistema di potere che ha creato.
In questa situazione, il problema per l’opposizione sarà quindi tracciare una proposta di sviluppo politico-economico alternativa a quella di Evo, che ha saputo assicurare sviluppo concreto al paese senza riuscire comunque ad affrancarlo dal suo ruolo di democrazia estrattiva, con gli alti e bassi che tale condizione può comportare per l’oscillazione dei prezzi delle materie prime.
Nell’intento di assicurare la crescita infrastrutturale necessaria e difendere una politica dei prezzi delle materie prime quale base di un successivo sviluppo generalizzato per il paese, Evo è andato stringendo freneticamente accordi economici con i cinesi e con i russi di Gazprom anche nei giorni scorsi. Scommettendo la sua azione di governo su mega progetti, come quello del treno del Corredor Ferroviario Bioceánico Central, che con i suoi tremila chilometri di strada ferrata dovrebbe collegare le coste peruviane del Pacifico a quelle brasiliane dell’Atlantico, passando per la Bolivia.
Progetti condotti spesso trascurando un criterio di rispetto ambientale e in nome di uno sviluppo sul quale, in fondo in fondo, la stessa opposizione potrebbe difficilmente dissentire. Dissentono per fortuna talvolta le comunità indigene, e si fanno anche sentire, scendendo in piazza e facendo venir meno il loro sostegno all’hermano Evo. Anche se tutto ciò forse non è sufficiente a far imboccare al presidente una via di sviluppo che sia davvero nuova, e non rischi invece di ripercorrere errori commessi già in passato dalle sinistre al governo.
Da parte sua Evo, in una conferenza stampa senza domande dei giornalisti tenuta stamattina al palazzo del governo a La Paz, ha dichiarato che la sentenza è
una gran sorpresa per il popolo antimperialista, una decisione che ci permette ora di ottenere il voto per una nuova gestione (…) che garantisce una continuità democratica ma anche la stabilità, la dignità e il lavoro per l’uguaglianza con la nostra identità del popolo boliviano.
Questo Evo. Quanto all’opposizione, la decisione del Tribunale ha scatenato la sua dura reazione e diviso in due il paese. Fatto che si è ripercosso nei social dove l’immagine più condivisa e usata come profilo personale da molti boliviani su Facebook è una bandiera nazionale che sventola spaccata in due.
Cominciano a giungere, e non poteva essere altrimenti, le reazioni internazionali. Prima quella del segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (Ora) Luis Almagro, già ministro degli esteri di Pepe Mujica in Uruguay. Secondo il quale il Tribunale costituzionale boliviano non ha ben interpretato l’articolo 23 della Convenzione interamericana dei diritti umani, e ha chiesto che nel paese sia rispettata la volontà popolare. Almagro ha twittato così:
In realtà, la Convenzione non contempla il diritto di perpetuarsi al potere, tanto più che la rielezione presidenziale è stata respinta dalla volontà popolare il 21 febbraio 2016.
Gli ha risposto piccato il governo boliviano, che l’ha accusato d’ingerenze nella sovranità del paese, con ciò confermando la volontà di andare allo scontro a muso duro con chi alza la protesta dentro e fuori del territorio nazionale. In un’America Latina percorsa da venti di crisi, più di qualcuno in Bolivia parla oggi di deriva venezuelana-cubana, temendo che l’appoggio che Evo Morales ha recentemente garantito a Maduro in seno all’Oea nella crisi politica ed economica del suo paese lo condurrà nell’immediato futuro ad affrontare con ogni mezzo lo scontro politico in atto.

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