La presentazione lunedì di una monografia sui problemi che comporta la costruzione dello stato in Libia, “State-Building in Libya”, curata dalla rivista Reset, è stata l’occasione di una conferenza allo Iai con cui si è cercato di fare il punto sulle attuali condizioni del paese africano e i riflessi che queste hanno non solo sull’Italia, ma sull’Europa e il mondo.
Presente all’evento anche Marco Minniti che, come ha sottolineato il direttore di Reset Giancarlo Bosetti, da ministro degli interni e attraverso l’azione del governo è riuscito a portare “la realtà politica del nostro paese a contatto con la problematica dei rifugiati, dei migranti e delle morti nel Mediterraneo”, e ad “avvicinare la sfera pubblica italiana e realtà libica con profondità finora inedite”.

Le tribù libiche
La discussione, che si è avvalsa dell’apporto scientifico di Silvia Colombo e Arturo Varvelli, ha inoltre sfiorato le radici storiche della crisi. In quest’ottica si può affermare che l’impasse libica attuale è dovuta all’impossibilità di affermare interamente il concetto dello stato in territori che sin dal sedicesimo secolo presentano “elevate difficoltà di controllo” in quanto le “élite urbane detribalizzate non hanno controbilanciato il potere dell’aristocrazia tribale”.
Si è fatto presente come la particolarità del tribalismo libico stia nell’essere “non la conseguenza ma piuttosto la causa del fatto che la responsabilità del controllo del territorio sia stata fatta risalire non allo stato ma alle tribù”.
Peculiarità queste che nel tempo hanno portato ad associare alla Libia il concetto di “colonizzabilità”. Fattore che prima nelle modalità italiane e poi in quelle anglo-americane ha contribuito alla nascita dello stato libico. Lacune politico-giuridiche storiche che ora si intrecciano ai traffici criminali di essere umani, la lotta al terrorismo e in definitiva condizionano la sicurezza mondiale.
Secondo Varvelli a queste cause va fatta risalire anche la complessità del processo elettorale libico. Per il ricercatore Ispi, il discorso elettorale, affrontato senza avere chiarezza sul “patto sociale” che si vuole instaurare, porta inevitabilmente a forme distruttive di “polarizzazione” della società. Come successo nel biennio 2012-2014.
A sua volta un patto sociale aggregante si può affermare, se si ha presente che per quanto influenti possano essere gli attori politici, per la sua realizzazione occorre coinvolgere anche altri soggetti. Nel suo contributo Silvia Colombo ha illustrato il panorama islamista libico. Un campo, ha sottolineato l’analista Iai, molto frammentato e in espansione “che va al di là dell’Isis, possiede componenti locali ma è anche legato a soggetti esterni. Tra questi è soprattutto il salafismo quietista di origini saudite. Entrata nel paese già durante l’era Gheddafi, nella metà degli anni 2000, questa corrente politico-religiosa è riuscita a darsi una “base di potere interno che si rifà ai principi” dell’Arabia Saudita.

Vladimir Putin e Muammar Gheddafi
Il campo islamista non è occupato soltanto dai salafiti di ispirazione wahabita ma, in un panorama più moderato, la studiosa ha sottolineato il ruolo dei Fratelli musulmani che non avendo radici libiche svolgono un ruolo nel paese. Il fatto che parti di queste strutture islamiste di origini esterne abbiano preso parte ai combattimenti anti-Gheddafi, pone il problema di come possano venire inglobate nel futuro della Libia e del suo stato.
Alla sapienza messa in campo dall’Italia nelle differenti dimensioni degli avvenimenti interni libici si è riferito Bosetti passando il microfono a Marco Minniti. Il ministro ha subito fatto presente il paradosso tra l’intensità dell’occuparsi di Libia e la relazione inversa che esiste con la conoscenza del paese. Una lacuna che la monografia presentata allo Iai non possiede. Il volume ha il pregio di sgomberare il campo da tutte quelle semplificazioni appartenenti a chi guarda la Libia attraverso la lente dello stato-nazione occidentale.
L’importanza di un approccio concreto alle vicende libiche e mediorientali è stato sottolineato dal ministro, convinto che il crollo di Rakka e Mosul, roccaforti dello stato islamico in Siria e Iraq, renda la questione dei foreign fighters fondamentalisti, “cruciale per la sicurezza dell’intero pianeta”.
Si tratta di combattenti, provenienti da cento paesi il cui numero dovrebbe variare tra i venticinquemila e i trentamila, che ora in parte tendono a rientrare verso i paesi d’origine.
Impresa per cui i fondamentalisti potrebbero essere tentati di utilizzare le principali vie dei flussi migratori, quella attraverso l’Africa sub-sahariana, il confine meridionale della Libia e quella dei Balcani.
Per tale ragione, Minniti ritiene fondamentale pensare alla Libia come al luogo in cui si può operare per “costruire rifugi sicuri”. Il progetto contrario sta nel tentativo terrorista di sfruttare la fragilità del paese per “creare una piattaforma di attacco all’Europa”. Da questo punto di vista, la vicenda di Sirte, la città più importante della Libia, è “emblematica” sia per il livello di “radicalizzazione” che per le “capacità di infiltrazione” di cui lo stato islamico ha dato prova. Sono però stati gli stessi libici a “riprendersi la città”. Impresa costata la vita a cinquecento giovani appartenenti alle milizie di Misurata, che hanno combattuto seguendo ideali condivisibili per molti occidentali.
Stessa importanza della sicurezza ha il tema dei flussi demografici, che secondo Minniti riguarda non solo Africa ed Europa ma anche alcuni spezzoni dell’Asia, come dimostra la vicenda del Bangladesh. Il ministro apprezza la nuova sensibilità europea. Dopo “il quasi naturale allargamento a est”, dovuto alla fine della guerra fredda, l’Ue inizia ora a capire l’importanza dell’altrettanto naturale intreccio del vecchio continente con l’Africa.
Il novanta per cento dei migranti che raggiungono l’Italia proviene dalla Libia e nessuno di questi è libico. Altrettanto fondamentale è capire che il traffico di esseri umani “per quanto inaccettabile esso sia per noi” è stato forse “l’unico fattore che in questi anni ha prodotto e redistribuito reddito”. Ora chi da questi traffici trae profitto è “interessato a che la Libia non si stabilizzi e resti priva di governo”. Perciò combattere il traffico di esseri umani vuol dire contrastare una potenza capace di “condizionare militarmente ed economicamente” il paese mediorientale.
Una strategia di questo tipo si può affermare solo se prendono in considerazione i due lati del problema e non si dimentica che la centralità della Libia riguarda anche “l’Europa”. Gli sforzi di Roma per coinvolgere il continente si sono concretizzati nel summit di Parigi del 28 agosto di quest’anno.
Nella capitale francese “Francia, Germania, Italia e Spagna, e un gruppo di paesi del nord Africa” hanno invitato l’Europa a “una strategia organica verso nord Africa e Libia”.
Un obbligo questo della comunità internazionale che verso la Libia ha il debito di un intervento fatto “senza un piano per la ricostruzione”. Ora, fa presente il ministro, l’azione di Italia ed Europa deve “affrontare gli aspetti potenziali di instabilità, cercando di farli diventare elementi più possibile costruttivi”. Tenendo contemporaneamente presenti “i limiti strutturali di alcuni di questi soggetti”.

Minniti e il generale Khalifa Haftar
Anche Minniti sottolinea come “storicamente le tribù hanno sempre avuto un ruolo in Libia”. E a maggior ragione lo devono avere ora in un “momento in cui lo Stato è fragile”. In questa direzione l’Italia può rivendicare il successo del patto di pace tra le tribù Tebu e Suleiman avvenuto lo scorso aprile a Roma alla presenza dei Tuareg, del vice premier libico Ahmed Maitig e supervisionato dal ministro. Accordo che non solo ha fatto scendere gli arrivi di migranti verso l’Italia ma ha contemporaneamente messo sotto controllo i confini sud della Libia, impedendo che il paese diventasse un gigantesco collo di bottiglia.
Altrettanto importanti gli impegni presi da Roma verso le città chiave del traffico di esseri umani. Illustrati dai rispettivi sindaci, i piani d’azione per lo sviluppo dei territori sono ora sottoposti alla valutazione dell’Ue. Il ministro infine non dimentica l’altro aspetto fondamentale del traffico di esseri umani, quello umanitario.
Naturale che il “governo dei flussi migratori vada fatto rispettando i diritti umani” sottolinea, ricordando però come questo problema non sia nato oggi ma esiste da “15 anni”.
La Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra, un passo che oggi il paese non può fare proprio perché è una istituzione priva di sovranità. Ciononostante la Libia coopera pienamente con l’Unhcr, attività che teoricamente non potrebbe svolgere.
Una collaborazione che Minniti fa risalire all’azione dell’Italia. Se oggi “è possibile un dialogo per la costruzione di un centro di accoglienza per i potenziali rifugiati selezionati già in Libia con le cosiddette fragilità, cioè donne, bambini, anziani da dislocare immediatamente in paesi terzi” è perché ci stiamo occupando di risolvere problemi concreti. Un metodo che se affermato dal punto di vista strategico potrebbe “stabilizzare la Libia rendendola capace di affrontare anche la regolazione dei flussi migratori”.

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