E per fortuna che c’è Luca Serianni che, dopo Halloween, il Black Friday e tante fake news, ci riporta a considerare nel suo ultimo libro, fresco di stampa, la leggera bellezza della lingua italiana, a indagare sulle sue molteplici radici e a “sentire” come essa sia uno dei baluardi, uno dei più importanti elementi identitari del nostro Paese, inteso come nazione e popolo.
Serianni, al vertice non solo accademico della linguistica italiana (dopo la scomparsa, lo scorso anno, del suo collega ed amico Tullio de Mauro), accademico della Crusca e dei Lincei, ha forse voluto gettare un sasso nello stagno, mandare un ennesimo segnale sul tema che così gli è caro e che non sempre sembra pienamente recepito dai suoi compatrioti.

Illustrazione tratta dalla copertina de “Il bello dell’italiano, comprendere, ragionare, comunicare”, di Luca Serianni, Valeria Della Valle, Giuseppe Patota,
L’Italiano “bene culturale a sé”
“Storia illustrata della lingua italiana” è l’insolito titolo del libro che Serianni ha scritto con l’ausilio della collega italianista Lucilla Pizzoli. Un volume di “sole” 159 pagine (Carocci Editore) concepito non per gli specialisti ma per il grande pubblico (il Natale è vicino..), impreziosito da una messe di ricercate illustrazioni destinate, forse, anche ad alleggerire il carattere del libro allargando così il bacino dei suoi potenziali lettori. Dante, Petrarca e Boccaccio, come è noto, certificarono dunque, con l’immensità delle loro opere, la nascita del fiorentino come lingua nazionale. Una lingua che “rappresenta un fortissimo elemento di identità ed è anzi da considerarsi “un bene culturale a sé”, secondo il disposto di una sentenza della Corte costituzionale del febbraio dell’anno in corso.
Vedere come funziona l’italiano è un po’ come assistere gli architetti che hanno progettato il Colosseo o guardare Leonardo alle prese con i suoi pennelli. Ci serve per apprezzare di più chi ha saputo modellare magistralmente l’italiano,
scrivono nella prefazione gli autori, a mo’ di viatico.

Luca Serianni
La quarta lingua studiata al mondo
“Tutti pazzi per l’italiano” titolavano quasi increduli i quotidiani quando, l’anno scorso, dettero la notizia che l’italiano era ormai la quarta lingua studiata al mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese. E che, solo nel biennio precedente, altre quattrocentomila persone avevano cominciato a studiarlo in tutto il mondo. Dunque, declino del francese, già cominciato all’indomani della guerra, e aumento vertiginoso (come ci è stato confermato dal Goethe Institut di Roma) del numero di studenti ai corsi di tedesco. Ma le motivazioni che spingono i giovani a studiare la lingua di Schiller, sono spesso proiettate in un futuro che garantisca un’occupazione, laddove per l’italiano entrano in gioco fattori diversi, di affinità spirituali e curiosità per lo straordinario retroterra culturale del paese.
“Le genti del bel paese là dove ‘l sì suona”
La lingua di Dante è anche la lingua internazionale della musica grazie ai librettisti e ai compositori del nostro diciottesimo e diciannovesimo secolo (“presto”, “adagio”, “andante”, “andante con moto”…), e fu molto amata da Stendhal, definito il più italiano degli scrittori francesi, e dai principali esponenti della cultura europea impegnati nel Grand Tour in Italia, una sorta di rito di iniziazione alla cultura e alle bellezze del Rinascimento.
Prima testimonianza dell’italiano, com’è noto è il “Placito di Capua”, un documento giuridico redatto in latino e risalente al 960 dopo Cristo in cui è trascritta la testimonianza di un contadino del luogo che si esprime in una lingua ormai più vicina all’italiano che non al latino.
Sao ke kelle terre, per kelle fini que ki contiene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.

Placito di Capua
È questo l’anno di nascita della nostra lingua e la sua certificazione in un documento, come osserva Serianni secondo il quale, ancora oggi, il popolino napoletano e campano usa dire “chelle” (col “ch” al posto della K che non figura nel nostro alfabeto) per dire “quelle”.
La diffusione della lingua
La diffusione del Fiorentino-Italiano avviene lentamente, i dialetti (vere e proprie lingue neolatine ma molto diverse da regione a regione) continuano ad essere parlati dal volgo mentre nei centri di eccellenza culturale si afferma più rapidamente. E così alla corte palermitana dell’imperatore Federico II di Svevia, grandissimo mecenate, Giacomo da Lentini poteva già scrivere (nel XIII secolo) versi ormai italianissimi, “Madonna, dir vo voglio, come l’amor m’à priso”. Due secoli dopo, l’italiano valicò i confini della Toscana e le corti illuminate. Strumento allora molto efficace fu la Predicazione dei frati in tutta Italia che, su espresso ordine del Vaticano, avrebbero dovuto esprimersi in volgare essendo il latino ormai lingua colta e di culto e sconosciuta ai più (“quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur”, Concilio di Tours, anno 813) .
Poi, nel tempo, l’affermazione della nuova lingua a dispetto delle polemiche tra scrittori e poeti, con Goldoni strenuo difensore del nuovo idioma e Leopardi (proprio lui!) fortemente contrario all’omologazione dei dialetti. Tra gli altri strumenti importanti nella diffusione dell’italiano ci fu senz’altro la leva militare obbligatoria dopo l’Unità d’Italia, nel 1861, anno in cui la percentuale di analfabeti era del 75 per cento. Nel secolo scorso fu la radio e poi il cinema e infine, dal 1954, la televisione. Strumenti che garantirono la conoscenza della lingua (sia pure con mille inflessioni dialettali) dalle Alpi alla Sicilia.

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