Nel dicembre del 1976 il quotidiano newyorkese Forverts inizia la pubblicazione a puntate del romanzo di Isaac Bashevis Singer “Yarm un Keyle”, in yiddish, per una platea comprensibilmente limitata di lettori. Le puntate si protraggono sino all’ottobre del ’77, quando ancora non si può sapere che il settantaduenne scrittore polacco, ormai da decenni naturalizzato negli Stati Uniti ma caparbiamente legato a quella lingua franca dell’ebraismo askenazita, di cui è massimo testimone e cantore, sarà presto insignito del Nobel per la letteratura (1978). Riconoscimento prestigioso epperò involontariamente “limitante”, al punto da rendere sconveniente, nell’immediato, la traduzione in inglese e l’uscita in volume proprio di quel romanzo ancora caldo di rotativa, ritenuto troppo scandaloso: malavita, prostituzione, tratta delle bianche, depravazione nel cuore della Varsavia yiddish.
È con questo background, ipotetico ma assai verosimile, che a parecchi anni di distanza vede ora la luce l’inedito “importuno”, “Keyla la Rossa”, in edizione italiana per Adelphi, curato da Elisabetta Zevi e tradotto da Marina Morpurgo.
Via Krochmalna, animatissimo cuore del quartiere ebraico di Varsavia, città mai troppo russificata, nonostante l’imperante ordine zarista. Fine Ottocento o primi scorci del Novecento (gli anni da ragazzo dello scrittore in quella medesima strada): fa poca differenza la precisa datazione, un universo apparentemente immobile, segnato dalla povertà, dalla separatezza e da incolmabili differenze di classe, appena scosso da qualche botto anarchico in giro per l’Europa e da avvisaglie rivoluzionarie in lontananza. Facciamo subito le presentazioni.
A trentadue anni Yarme Spino era già finito quattro volte nella prigione di Pawiak per furto (era un maestro nell’aprire serrature). Era stato anche arrestato diverse volte con l’accusa di tratta delle bianche. A ventinove anni, Keyla la Rossa era già passata per tre bordelli. Il suo primo protettore era stato Itche il Guercio. Yarme aveva conosciuto Keyla nel covo di ladri di via Krochmalna 6. Dopo aver trascorso con lei un giorno e una notte, l’aveva portata da un rabbino del quartiere e l’aveva sposata.
A modo loro, Yarme e Keyla si vogliono bene. Un bene pur sempre da bassifondi, guardato con sospetto o disprezzo dalla maggioranza rispettabile della pur bistrattata comunità ebraica, di cui è espressione il giovane Bunem, ragazzo studioso, destinato in teoria a seguire le orme rabbiniche paterne, anche se la testa sta già altrove, piena di dubbi e di filosofi, le giornate a dipingere, in un atelier di giovani bohémiens, tante domande indiscrete.

Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura 1978
Per uno di quei casi della vita di cui è prodigo il destino, conosce Keyla e se ne innamora, il desiderio, la sua prima donna, irresistibile e focosa, proprio mentre la Rossa vorrebbe affrancarsi da Yarme, soggiogato da Max lo Storpio, appena tornato dall’America, pieno di dollari e di insani propositi: mettere le mani sull’eredità di qualche riccone in cerca di dolce compagnia, reclutare giovani donne per uno o più bordelli in Brasile, fare società (anche a letto) con Keyla e Yarme, di cui lui – bisessuale – è in realtà innamorato.
E la situazione precipita quando un’amica di Bunem, Solcha, ragazza per bene e sua potenziale fidanzata, viene arrestata per attività sovversiva. Bunem potrebbe o forse dovrebbe recarsi dal giudice per testimoniare a suo favore, forse idealista anarchica ma innocente. E invece, temendo di finire in Siberia o peggio, impiccato, sceglie la fuga. Con Keyla, nella Goldene Medine, la nazione d’oro, ovvero l’America secondo la definizione in uso presso gli ebrei dell’Europa Orientale. Tutta un’altra vita?
Spiace deludere ma il sogno americano non farà per Bunem e Keyla, vita di stenti nella Bowery, in appartamenti degradati e senza riscaldamento, pochi cents vendendo panini imburrati lei, all’angolo di una strada, o tenendo lezioni di ebraico lui, a ragazzini annoiati. Certo, vi sono ebrei, specie tedeschi, che ce l’hanno fatta e che ora vivono nei quartieri alti. E va pur aggiunto che in quella città, che si sta vertiginosamente alzando verso il cielo, nessuno minaccia chiedendo permessi o documenti.
Nulla si sa dei precedenti di Keyla, sebbene la sua avvenenza faccia ancora colpo per strada, e non ci si cura certo delle ambasce di Bunem. Si chiama libertà, gran bella cosa, anche se rischia di sconfinare nell’indifferenza, provocando magari nostalgia, cattivi pensieri, delusioni. Evasa dalla stamberga siberiana dov’era reclusa, arriva anche Solcha, la sposa promessa, che alla faccia di Bakunin e del libero amore se ne scappa inorridita una volta a conoscenza della relazione di Bunem con la Rossa. Quanto a Yarme, anch’egli espatriato, è ormai un povero alcolizzato anche se continua a reclamare gli obblighi coniugali di Keyla.
Keyla la rossa è un romanzo a due facce: una baldanza brechtiana cadenza l’affresco polacco, con tutta quella schiera di manigoldi da tre soldi che tramano e gozzovigliano nelle taverne di Krochmalna, mentre le pagine newyorkesi cedono il passo ad un realismo sociale cupo e pessimista, il triste disincanto di personaggi che sembrano aver esaurito ogni sogno ed energia. Un pizzico di indomabile vitalismo alberga ancora in Keyla, sorta di “puttana santa” per dirla con Fassbinder, capace di trovare la forza di andare avanti, nonostante tutto e tutti. E di amare.
“Dopo ti preparo kneidlach e frittelle. Aspettami. Non andare da nessuna parte!”.
Queste parole le pronunciò come un avvertimento. Si vestì in fretta e con energia. Di tanto in tanto i suoi occhi verdi si posavano su Bunem. Nel suo sguardo si mescolavano tenerezza e apprensione. Prima di uscire baciò Bunem e gli disse:
“Finora ero convinta di non poterti amare più di quanto già ti amavo. Ma questa notte mi ha cambiata. Per te sarei disposta a ribaltare il mondo. Ti chiedo solo una cosa: non mi lasciare. Senza di te, io non posso vivere. Non dimenticarlo!”
Gran brutta bestia l’antisemitismo, sempre incombente e persino ricattatorio. Si capisce che spiattellare ai goyim le miserie e le meschinità di ebrei così poco devoti e distinti fosse parso sconveniente all’indomani del Nobel. Fortuna che i premi passano e le buone letture restano. Come certi personaggi: Keyla, appunto, vissuto non certo edificante, umanamente grandiosa.

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