Non fanno proclami. Non passano il tempo a twittare su ogni cosa e su ogni crisi. Non convocano vertici a Sochi né aggiornano quotidianamente la lista degli stati canaglia o dei nuovi “imperi del male”. Eppure hanno “conquistato” l’Africa, attratto nella loro orbita paesi-chiave nel Medio Oriente e sul trentottesimo parallelo chiunque voglia davvero scongiurare una guerra nucleare, deve bussare alla loro porta.
Sono il “convitato di pietra” delle conferenze che ambiscono ad affrontare tutti i dossier più esplosivi, dai quali dipende il futuro stesso del pianeta. Non sarà più “l’Oriente è rosso” il loro motivo conduttore, ma dalla crisi coreana al clima, dall’emergenza migranti alla stabilizzazione del Medio Oriente, la partita globale non è a due – l’America di Trump e la Russia di Putin – ma a tre. E il terzo è quello più “silenzioso” ma meglio posizionato: la Cina.
Hai voglia a convocare summit Ue-Africa, come quello appena conclusosi in Costa d’Avorio, o a evocare nuovi “Piani Marshall” o, un po’ meno eclatanti, “Piani Macron”. Ma senza il coinvolgimento di Pechino, l’Europa in Africa può far poco o nulla. E il discorso non cambia di molto se all’Europa si sostituisce l’America o la Russia. La Cina è vicina.
Di più: è l’attore fondamentale sullo scacchiere internazionale. Laddove gli altri parlano, i cinesi agiscono. Sotto traccia, con la diplomazia degli affari piuttosto che su quella delle armi. Non bombardano ma comprano.
La Cina è il primo partner commerciale dell’Africa. Le multinazionali di Pechino proseguono indisturbate la conquista del continente africano – con un piano di investimenti di oltre sessanta miliardi di dollari – fatta di infrastrutture, delocalizzazione della produzione e manodopera, in cambio di risorse naturali. E nel 2016 sono cresciuti del trentuno per cento gli investimenti diretti non-finanziari delle imprese cinesi in Africa.

Il presidente cinese Xi Jinping incontra il presidente della Tanzania Jakaya Kikwete, in uno dei suoi numerosi viaggi in Africa
Per la Cina di Xi Jinping, tutto però inizia nel 2015, alla Conferenza di Johannesburg del Focac, Forum on China – Africa Cooperation, dove trentacinque nazioni africane e Pechino si accordano per una serie di investimenti mirati in alcuni settori specifici dell’economia africana, per un totale di sessanta miliardi di dollari: industrializzazione, anche e soprattutto delle imprese private e delle PMI, rapida e essenziale modernizzazione dell’agricoltura, e sarà tra pochi anni da oggi che, come prevede una studiosa nordamericana del sistema cinese, “l’Africa nutrirà la Cina”, rimarca Giancarlo Elia Valori, economista, manager, che di geopolitica degli affari se ne intende avendo guidato alcune tra le più importanti holding italiane.
Dal 2000 al 2015, Pechino ha investito nel continente africano novantaquattro miliardi quattrocento milioni di dollari, e ben trenta solo in Kenya. La componente africana dell’Obor sarà certamente composta da Kenya, Sud Sudan, Uganda, Gibuti, dove Pechino sta già aprendo una base militare a pochi chilometri da Camp Lemonnier, la struttura militare Usa, e da quella, ancora in completamento, delle Forze armate saudite, poi ancora Etiopia, Tanzania e infine Angola. Questa sarà la linea Obor dall’Oceano Atlantico a quello Indiano.
L’altro ramo marittimo della Belt and Road Initiative va da Mombasa a tutte le coste somale, proprio nel punto in cui il cinquanta per cento di tutte le importazioni petrolifere della Cina attraversa gli stretti di Bab el Mandeb, sempre davanti alla più grande base Usa in Africa, il già citato Camp Lemonnier. Dice Valori che lo scontro tra Usa e Cina, in Africa, si delinea e sarà uno scontro pesante e probabilmente violento tra “l’Africom statunitense, che si concentra sullo hearthland subsahariano centrale e le linee commerciali che vanno da lì verso l’Oceano Indiano, e la presenza cinese, che si muove all’esterno dell’area centrale africana”.
E mentre l’Europa si riuniva in Costa d’Avorio, il Marocco e la Cina firmavano a Pechino un protocollo d’intesa sull’iniziativa cinese Belt and Road per far rivivere la vecchia “Via della Seta”, via terra e via mare, attraverso la creazione di una rete di infrastrutture che collegano l’Asia all’Europa e all’Africa. Il documento è stato firmato dal ministro degli esteri cinese Wang Yi e da quello marocchino Nasser Bourita al termine di una visita di lavoro di quest’ultimo in Cina.
Il protocollo prevede l’adesione del Marocco all’iniziativa cinese per consentire al regno di stabilire partnership multilaterali in settori promettenti come infrastrutture, industrie avanzate e tecnologia, oltre a rafforzare il ruolo del Marocco nello sviluppo in Africa, data la sua posizione geografica e l’importanza delle sue infrastrutture (aeroporti, strade, porti). Il Marocco è il primo paese africano ad aderire all’iniziativa Belt and Road, lanciata nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping, che prevede di stanziare ingenti budget per gli investimenti in infrastrutture in tutto il mondo.
La nuova “Via della Seta” è un progetto molto ambizioso attraverso cui Pechino mira a creare solidi rapporti industriali con i paesi che saranno coinvolti. Punta a creare una rete di infrastrutture di trasporto, di comunicazione e di scambio che coinvolge al momento sessantaquattro paesi oltre alla Cina – circa quattro miliardi e mezzo di persone – su un’area che si estende fra Asia, Europa e Africa. L’obiettivo di Pechino è completare il tracciato principale entro il 2049 e per raggiungerlo la Cina si avvarrà del supporto dell’Asian infrastructure investment bank (Aiib), una banca multilaterale cui hanno aderito finora un centinaio di paesi fra cui anche l’Italia, che figura fra i soci fondatori.
Nei primi otto mesi dell’anno la Cina ha investito lungo la nuova “Via della Seta” otto miliardi e mezzo di dollari, pari al dodici per cento del totale degli investimenti, in crescita del quattro per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. E la realizzazione della nuova “Via della Seta” porta la Cina in Medio Oriente.
Mentre Trump “sposa” Riyadh e Putin ancora punta sull’Iran, la Cina agisce nei due campi, con la sua penetrante “diplomazia degli affari”. L’accordo commerciale da seicento miliardi di dollari tra Cina e Iran guarda al futuro. È interessante vedere come la Cina integra questi Paesi, individualmente, nell’Obor, segnando il primo passo verso la collaborazione regionale tra i rivali di un tempo. Allo stesso modo, mentre l’Iran occupa la posizione geografica chiave nell’Obor della Cina che si estende in Asia occidentale, i cinesi, per trarre il massimo vantaggio, vorrebbero far entrare nel progetto Ashdod e Eilat, i due porti strategici d’Israele: da qui gli ottimi rapporti instaurati da Pechino con il premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Il Dragone “silenzioso” sta cambiando la geopolitica del Medio Oriente, oltre quella dell’Africa. E l’Europa sta a guardare. Certo, sul piano mediatico, l’esibizione “muscolare” della Russia in Siria fa più notizia e costruisce una narrazione, solo in parte vera, di Mosca come nuovo “dominus” mediorientale. Ma se questo può valere nei confronti dell’ondivaga presenza americana, altro discorso va fatto sulla Cina.
Se è vero che il peso dell’economia negli affari internazionali conta qualcosa, soprattutto nel lungo termine, bastano due paragoni per capire la differenza: centoventi miliardi di esportazioni cinesi verso Medio Oriente e Nord Africa nel 2014 contro i sei della Russia; centoventotto miliardi di importazioni cinesi dal Medio Oriente, contro i due russi. In particolare, la Cina guida oggi la domanda e i prezzi del greggio a livello internazionale, prezzi da cui dipendono le dissestate economie mediorientali e anche quella russa.
La Cina si è impegnata a portare a termine le negoziazioni per il China-Gulf Cooperation Council Free Trade Agreement che includa anche l’entrata di una maggiore gamma di prodotti non petroliferi nel mercato cinese, assecondando una critica spesso mossa alla Cina dai paesi arabi. Il focus principale rimane però sulla promessa cooperazione nella costruzione di infrastrutture.
Nel quadro regionale è degno di nota anche il rafforzamento dei rapporti bilaterali sino-israeliani. Dal 1992 ad oggi, il volume del commercio tra i due paesi ha avuto un fortissimo incremento, passando da cinquanta milioni di dollari agli attuali otto miliardi. Pechino ha iniziato a partecipare alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà Eilat a Tel Aviv e che diverrà pienamente operativa agli inizi del 2018; la partecipazione della Cina al progetto “Red-Med” è il riflesso dei grandi interessi strategici cinesi nei confronti delle riserve energetiche nel bacino del Levante e della conquista di uno sbocco per le sue esportazioni nel Mediterraneo orientale.
Il “Dragone” silenzioso agisce, con la diplomazia degli affari, anche su un altro fronte caldissimo: la Libia. Mentre l’Europa s’interroga su come far fronte all’”invasione” di migranti, Pechino s’insedia nel paese nordafricano. Nell’ottobre del 2016 una delegazione cinese ha sottoscritto con il nuovo governo della Cirenaica del generale Khalifa Haftar accordi per almeno trentasei miliardi per il nuovo porto e aeroporto di Tobruk. Per l’ospedale e l’università, diversi complessi residenziali e un’autostrada di oltre mille chilometri lungo il confine con l’Egitto fino al Sudan.
Affari, certo, ma non solo. Perché è notizia di pochi giorni fa la presenza di militari cinesi in Siria. Già a maggio l’ambasciatore siriano a Pechino, Imad Moustapha, aveva dichiarato che i foreign fighter uiguri in Siria erano un problema anche per la Cina perché dalla Siria promuovevano “la causa della secessione dello Xinjiang”, la loro regione. Parole calibrate per convincere Pechino, che è sensibilissima a ogni allarme separatista. L’ambasciatore stimava allora i combattenti islamisti in cinquemila, uno dei più folti contingenti di foreign fighters. Il corpo di spedizione cinese sarà composto da qualche centinaio di uomini. Una presenza sul campo come premessa per un investimento futuro. Quando inizierà la ricostruzione della Siria, un paese distrutto da quasi sette anni di guerra, la Cina ci sarà. E con un ruolo da protagonista.

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