Vincere le elezioni a trentaquattro anni e restare al potere fino al momento di compierne novanta. Questo il sogno di Jaroslaw Kaczyński adolescente. Governare mezzo secolo il paese senza diventarne il dittatore. Questa la sua scommessa.
“Mi ritengo cosi buono da poter vincere un’elezione dopo l’altra”, affermava nel 2006 l’uomo forte di Diritto e Giustizia, Prawo i Sprawiedliwość, PiS, l’attuale partito di maggioranza polacco. La frase è contenuta in “L’alfabeto dei fratelli Kaczyński”, una lunga intervista uscita nel 2006 a Varsavia. Un libro in cui Lech e Jaroslaw raccontano l’infanzia e la giovinezza da gemelli, la resistenza al comunismo e i comuni progetti futuri.
Nel 2006 Lech era capo dello stato mentre Jaroslaw dirigeva il governo senza farne parte. Quattro anni dopo, aprile 2010, Lech moriva insieme a gran parte dell’elite conservatrice del paese nella catastrofe aerea di Smolensk, città russa al confine con la Bielorussia. Difficile immaginare il legame simbiotico spezzato dalla tragedia e le conseguenze non solo affettive del dramma per Jaroslaw.
I due gemelli avevano caratteri molto differenti, spesso erano di opinioni contrapposte al punto da passare giornate intere senza rivolgersi la parola. Una diversità che l’incrollabile fiducia esistente tra loro è sempre riuscita a trasformare in forza. Una fratellanza ferrea nutrita da un pessimismo quasi patologico verso il mondo esterno e particolarmente verso la politica. Anche per questo Jaroslaw non ha mai creduto che la morte di Lech sia stata causata da un incidente, dando invece per scontato l’attentato.
Per lui la morte del fratello rappresenta tuttora un sacrificio per la Polonia, la nazione crocefissa come Cristo. Con la fine di Lech viene meno anche la pienezza della vita di Jaroslaw, la sua esistenza sarà per sempre “mutilata” e priva di felicità.
Ciò che invece resta, incrollabile, è la fede nella Polonia.
Se la scomparsa di Lech ha trascinato via ogni principio di speranza umana, in politica Jaroslaw si riconosce sempre più nel pensatore che meglio di altri ha liberato dalla morale l’arte dell’uomo di stato, Nicolò Machiavelli. O meglio nella vulgata della dottrina del fiorentino. Quella dello stato costretto ad agire con la menzogna, la violenza e l’omicidio.
L’amoralità machiavellica rivendicata da Jaroslaw Kaczyński non è però quella dell’edonista. Il potere che lui vuole non è quello del sultano, lo scintillio della carica non lo interessa. La sua vita privata si svolge tra la sede del partito e un appartamento privato monofamiliare. Immobili costruiti dopo la Seconda guerra mondiale con cui i polacchi cercavano di nascondere le devastazioni del conflitto. Tra i suoi nemici, anche tra quelli più implacabili, nessuno gli rimprovera di cercare la ricchezza personale.
L’amoralità rivendicata da Kaczyński è, come per Machiavelli, funzionale a uno scopo. E se il fiorentino vedeva nella liberazione dell’Italia dai barbari il compito che giustifica tutto l’agire del principe, alla base del machiavellismo del polacco vi è la rivoluzione nazional-cattolica della patria polacca. In questa stanno i valori supremi degli individui. Non nello stato per Jaroslaw nient’altro che lo strumento di una congiura contro la nazione benedetta da Dio. Per questo bisogna agire per sottomettere lo stato alla nazione.
Che il pensatore preferito da Jaroslaw Kaczyński, sia il teorico della menzogna e della violenza razionale in politica non deve stupire. Il mondo descritto dal toscano lui lo ha vissuto in prima persona o ne ha sentito il racconto diretto. Varsavia non è solo il luogo d’infanzia dei due gemelli. La capitale polacca è stata prima sventrata dai tedeschi e poi paralizzata dal terrore stalinista. Più che sui libri di storia, i bambini questi avvenimenti li hanno appresi dalle parole dei genitori entrambi combattenti clandestini dell’insurrezione di Varsavia.
I Kaczyński appartenevano all’ala ecclesiastico-patriottica della resistenza antinazista e della dissidenza anticomunista. Da loro i figli ascoltano un racconto cattolico-patriota fatto di distruzioni, sacrifici, resistenze, sopravvivenze. Una saga popolata di donne e bambini fucilati per strada, di opposizioni disperate agli invasori, di patrioti assassinati e traditori giustiziati.
Alla Wehrmacht faceva seguito l’Armata rossa. Ai tedeschi i russi. In un mondo privo di diritto e appestato dalla menzogna, in ambienti vuoti di solidarietà umana e gonfi di dissoluzione civile, solo l’oppressione restava identica a se stessa. Per decenni paure di denunce e arresti saranno il pane quotidiano della famiglia.
Sul corpo della nazione polacca Jaroslaw vedeva applicate le massime di Machiavelli. La necessità di inganni e menzogne teorizzate dal fiorentino rappresentavano il manuale della storia patria.
Menzogne di Hitler sull’aggressione polacca ai tedeschi. Menzogne di Stalin su Katyn. Menzogne di Stalin e Hitler sul patto di spartizione del 1939. Menzogne dei comunisti polacchi sull’insurrezione di Varsavia e i suoi obiettivi diversi da quelli sovietici.
Fino alla menzogna della svolta del 1989. Jaroslaw e Lech sono convinti che il crollo comunista sia stata solo una mascherata. Una pseudo rivoluzione. In verità il potere ha solo cambiato d’abito. Tutto, economia, partiti, giustizia è rimasto nelle mani delle vecchie elite. Ecco la realtà.
Anche l’Europa, lo stato secolare europeo è una menzogna. Multiculturalismo e teorie di genere non sono altro che figure accessorie dietro cui si camuffa la volontà di continuare a svuotare quei valori storici che ancora attendono di realizzarsi nella carne e nel sangue della nazione: Dio, onore, patria. Fino alle menzogne raccontate da Jaroslaw nella campagna elettorale 2015 secondo cui in caso di vittoria nel futuro governo non ci sarebbe stato spazio per i rappresentante della versione più rigida dell’ideologia nazional-cattolica.
L’uomo politico la cui durezza non è accettata dagli elettori sceglie di ingannarli. Perché non mentire se il mondo è tutto una menzogna?
Tra i motivi che dopo la sconfitta elettorale del 2007 spingono Jaroslaw ad agire dietro le quinte il principale sta nella sua mancanza di carisma, nell’incapacità di essere un tribuno popolare, di avere sintonia con le masse. Handicap colmati da Lech finché è rimasto in vita.
È il gemello a sostituirlo nel “teatro” della politica. Lech sosia di Jaroslaw. I due erano cosi somiglianti che solo gli amici riuscivano a cogliere le differenze. Lech aveva inoltre un’altra qualità di cui il fratello era privo: il calore e la simpatia umane. Per questo a lui spettavano le apparizioni pubbliche che l’altro preferiva evitare.
Nel gioco di specchi della politica e nel labirinto di menzogne che la caratterizzava, Lech era la figura artificiale creata da Jaroslaw per raggiungere i propri scopi. Ruoli che dopo la sua morte sono stati affidati ad altri. La recita di primo ministro è caduta su Beata Szydlo. Quella di capo dello stato su Andrzej Duda. A tirare le fila sempre lui, Jaroslaw Kaczyński, che dal 2015 torna, sempre restando nell’ombra, a dettare tempi e obiettivi dell’esecutivo di Varsavia. E come allora è accusato di voler fare della Polonia uno stato autoritario.
Del suo sogno giovanile, governare per oltre cinque decenni, resta ben poco. Tra cinquant’anni anni l’uomo, nato nel 1949, sarebbe ultracentenario. Anche la seconda parte di quella utopia non si è realizzata. La breve esperienza da primo ministro di Jaroslaw, luglio 2006 – agosto 2007 non è caratterizzata dalla bontà. Al contrario polarizzazioni, conflitti, scandali renderanno le elezioni anticipate dell’ottobre un plebiscito per l’opposizione. La partecipazione al voto sarà la più alta dal 1989 e il partito di Donald Tusk, Piattaforma civica, PO, raggiungerà consensi mai avuti prima e mai bissati in seguito.
Nel 2015 la rinascita di Jaroslaw Kaczyński e del PiS è veicolata dal pensiero che
l’uomo che in ogni cosa vuole fare solo il bene, circondato da altri che agiscono in base al male, è destinato a fallire.
Di nuovo Machiavelli ma non solo lui. Dietro il fiorentino vi è l’altro teorico del realismo politico, Carl Schmitt.
Difficile però per il polacco sposare tutte le tesi del filosofo tedesco. Schmitt è il giurista del Terzo Reich, il regime che voleva cancellare la Polonia dal mondo. Schmitt è però anche l’apologeta del sovrano che va oltre il diritto. Del politico che decide sullo stato d’eccezione. La mancanza di scrupoli del tedesco schierato col nazionalsocialismo, la sua mancanza del machiavelliano mare che “s’è aperto”, rendono impossibile a Kaczyński la totale accettazione del suo pensiero. Di lui come di Machiavelli condivide la visione del mondo senza fronzoli, “cosi come questo è”. A volte “estremamente brutale, a volte un po’ meno”.
Per questo dopo Machiavelli, “il più grande”, è Carl Schmitt. Due scienziati di una politica in cui non c’è spazio per la speranza. Solidarietà con l’Europa? Riconciliazione con la Germania? Umanesimo e diritto? Solo frasi retoriche per nascondere volontà di potenza e cinismo. Solo questo domina il mondo e solo questo vale per chi nel mondo vuole sopravvivere. Una sfiducia fondamentale verso la possibilità della pace che domina anche i rapporti interni polacchi.
Da qui l’attacco ai corpi separati dello stato iniziato subito dopo il ritorno al potere del 2015. Giustizia, mass media, militari, tutto va sottomesso al governo e va fatto nel più breve tempo possibile. Che il primo passo di questa lunga marcia sia stato la volontà di mettere al passo la Corte costituzionale non è un caso. Già nel 2006 Jaroslaw Kaczyński aveva definito “indispensabile” spezzare il sistema della giurisprudenza polacca visto come integralmente legato al comunismo. Al suo posto serviva “creare velocemente una scuola di diritto alternativa”.
Velocità è infatti l’altro concetto chiave del suo mondo intellettuale. La trasformazione dello stato già tentata nel 2006, ora deve essere veloce, come veloce è stato il “golpe” del 1989. Nel 2006 il fallimento fu dovuto, secondo i dirigenti PiS, alla difficile coalizione su cui si reggeva il governo. Oggi che l’esecutivo è formato dal solo Diritto e Giustizia occorre comportarsi di conseguenza. Velocemente e senza scrupoli.

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