[KUTUPALONG, BANGLADESH]
Non sappiamo se esista o meno nell’aldilà – anche se ci auguriamo di sì – ma qui in terra l’inferno esiste, eccome. Ne abbiamo appena visto uno, orribile, terrificante, dove non c’è nemmeno bisogno dei diavoli per mantenere l’ordine e il tipico, insostenibile, tasso di sofferenza. Ma soprattutto, dove la popolazione non è formata da peccatori impenitenti, ladri, truffatori o bogomili, ma da coloro che dappertutto dovrebbero stare, tranne che all’inferno. Bambini.
Sono dappertutto i bambini, a Kutupalong, il girone più grande dell’inferno di Cox’s Bazar, una terra arida e sino a qualche tempo fa più o meno disabitata nel sud del Bangladesh, ma che negli ultimi mesi ha subito l’ennesima invasione forzata dei Rohingya, una delle minoranze etniche sinora più sconosciute e perseguitate del pianeta, costretta a fuggire dai propri villaggi dalla furia sanguinaria del Tatmadaw, l’esercito birmano.
Oltre seicentomila persone, più della metà bambini, che qui sembrano addirittura felici, come se anziché all’inferno fossero sbarcati in paradiso.

foto di Pio d’Emilia
Ci sta, per chi ha visto i genitori, una madre, un marito sgozzati davanti ai propri occhi, per chi ha visto gettare sul fuoco un fratellino, per chi ha guadato un fiume, di notte, facendosi strada tra i cadaveri. Ci sta pensare di essere arrivati finalmente in paradiso.
Lavoro dodici ore al giorno, trasportando pesi enormi, e guadagno meno di un dollaro – racconta Rashid – ma sono sereno, so che quando torno nella mia baracca ritroverò i miei fratellini, felici, che giocano menre aspettano che gli prepari da mangiare.
Rashid ha quattordici anni. È uno dei quattromila “capifamiglia” ufficialmente riconosciuti dall’Unhcr.
Per noi invece no. Non ci sta. Non ci sta che i bambini, centinaia di migliaia, spesso soli, senza genitori, vivano all’inferno, e che debbano anche lavorare, per sopravvivere. Ma per tirarli fuori da questo inferno, questi poveri, piccoli dannati innocenti, bisogna intanto capire perché ci siano finiti dentro. E perché proprio adesso. Prima di avventurarci dunque nell’esegesi delle parole e dei gesti compiuti dal Papa nella sua recente visita, di azzardare giudizi sull’incomprensibile, reiterato e spesso sprezzante silenzio del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi – oggi di fatto alla guida del paese assieme ai militari che per trent’anni l’hanno perseguitata – o di avanzare ipotesi di soluzione, cerchiamo di inquadrare il problema dal punto di vista storico/politico. Senza farlo, rischiamo davvero di immaginare che ci sia una soluzione a portata di mano. E che possa dipendere da un gesto, da un parola, da un appello di questo o quel leader occidentale, Papa compreso. Purtroppo, non è così.

Bambini pompano acqua da un pozzo (foto di Pio d’Emilia)
Rohingya. Chi sono e perché sono perseguitati
I Rohingya sono una minoranza etnica, in maggioranza (ma non esclusivamente) di religione musulmana, che convive da molti secoli con un’altra etnia di religione buddhista, i Rakhine, nello stato di Arakan (oggi chiamato Rakhine), nel nordest dell’attuale Myanmar, l’ex Birmania. Uno stato, quello di Arakan/Rakhine, dalla lunga e affascinante storia, antecedente a quella della stessa Birmania. Uno stato più volte invaso dai re birmani a cominciare da Anawrahta (1044-1077), un re fanatico e sanguinoso che, dopo aver ucciso il fratello, si convertì al buddhismo e in nome del buddhismo, stravolgendone l’originale messaggio di pace, armonia e compassione, lanciò una violenta campagna di conquista dei regni confinanti. Nel 1784, vi fu l’altrettanto sanguinosa e definitiva invasione da parte di re Budapawa.
Un’invasione che gli storici definiscono unanimemente il primo tentativo di “pulizia etnica” da parte dei birmani nei confronti della popolazione Rohingya. Re Budapawa, per essere sicuro, non esitò a massacrare oltre trentamila abitanti dell’Arakan, senza distinguere tra le due etnie, i Rhakine, di religione hindu e buddhista, e, appunto i Rohingya.
Dopo aver raso al suolo tutte le maggiori città di Arakan, se ne tornò a Mandalay, l’allora capitale, costringendo circa diecimila prigionieri, per la maggior parte Rohngya, a trascinare per centinaia di chilometri il simbolo della cultura Arakan: la statua di Mohamuni, una delle cinque statue ancora esistenti che si ritiene siano state realizzate e “benedette” direttamente dal Buddha. Una volta arrivati a destinazione, la statua venne sistemata dell’omonima pagoda, ancora oggi uno dei luoghi più sacri di Mandalay, mentre i prigionieri furono uccisi.
L’allora sovrano di Arakan, Ga Thandi, riuscì a fuggire con un migliaio di sudditi, e si rifugiò a Chittagong, nell’attuale Bangladesh, che allora apparteneva all’India ed era già sotto il dominio inglese. I suoi discendenti vivono ancora nella zona, alcuni si sono integrati nel Bangladesh, paese di cui sono diventati cittadini, altri hanno continuato ad andare e venire dal Rakhine. Ne ho incontrato uno, tale Famas Ayed, 75 anni, che ha passato la frontiera per ben sei volte nella sua vita. Ora, pur avendo la cittadinanza bengalese, e pur vantando una discendenza diretta con l’ultimo re, gestisce un chiosco nel campo profughi di Kutupalong, dove ha deciso di lasciarsi morire.
Basta, non tornerò mai più dall’altra parte. Finalmente i maledetti birmani sono riusciti a sbarazzarsi di noi. Non torneremo mai più nel Rakhine.
Chiedo perdono per questo lungo excursus storico, che ritengo tuttavia essenziale per capire un punto fondamentale. Quello dell’origine dei Rohingya, che la narrazione ufficiale birmana, sostenuta (vedremo poi perché) da Cina e India e che ogni tanto fa breccia sui media internazionali, afferma essere originari del Bangladesh o al massimo discendenti dei “migranti” indopakistani che gli inglesi lasciavano liberi di circolare all’interno del loro impero. E che invece, senza alcun ombra di dubbio, vivevano nello stato di Arakan prima ancora che la Birmania diventasse, ammesso che lo sia davvero diventata, una “nazione”.
È vero che qualche migliaio di Rohingya, nell’ultimo secolo, sono entrati e usciti dallo stato del Rakhine, provenienti dal Bangladesh. Ma si tratta di vari e disperati tentativi di rientrare in “patria”, non di immigrare clandestinamente.
“Patria”, poi, per modo di dire. Perché dopo la fine dell’impero inglese e la breve quanto sanguinosa occupazione giapponese (il cui atteggiamento verso i Rohingya, all’epoca, era simile a quello odierno dell’esercito birmano: “ucciderli tutti, bruciare tutto” era il loro motto) non è che per i Rohingya la situazione sia migliorata. O quanto meno, non a lungo.
Nel 1949, ottenuta l’indipendenza, il nuovo governo birmano (presieduto per pochi giorni da Aung San, padre del premio Nobel e attuale ministro degli esteri Aung San Suu Kyi, massacrato assieme ad altri ministri da un gruppo di terroristi probabilmente finanziati dagli stessi inglesi) approvò una legge sulla cittadinanza abbastanza complessa, ma che comunque offriva ai Rohingya due possibilità di emersione giuridica.
La prima, rinunciando alla loro identità etnica e dichiarandosi Rakhine: se dimostravano in qualche modo di risiedere nello stato e di parlare la lingua nazionale, il birmano, avrebbero potuto ottenere la cittadinanza. Pochi scelsero questa opzione, e sono i soli che, pur con difficoltà, sono riusciti a integrarsi nella società. Alcuni di loro sono diventati anche liberi professionisti, artisti, intellettuali. Due addirittura deputati.
Uno di loro, U Ko Ni, avvocato e da molti anni consigliere giuridico di Aung San Suu Kyi, uno dei quindici candidati di religione musulmana inizialmente inseriti nella lista della Nld (il partito di Aung San Suu Kyi) ma poi improvvisamente depennati su “suggerimento” della potente sangha (sinodo) buddhista, è stato l’inventore della carica di “consigliere di stato” che Aung San Suu Kyi attualmente detiene (oltre a quella di ministro degli esteri). Carica che le ha consentito di aggirare la Costituzione e diventare, di fatto, la guida del paese. Peccato che lo scorso febbraio U Ko Ni sia stato ucciso in pieno giorno, in circostanze ancora da chiarire, davanti all’aereoporto di Yangoon, mentre tentava, sembra, di espatriare. Ai suoi funerali intervennero migliaia di persone, monaci compresi. Ma non Aung San Suu Kyi.

Il funerale U ko Ni
La seconda opzione offerta dalla legge sulla cittadinanza era meno generosa dal punto di vista giuridico-istituzionale, ma più sostenibile dal punto di vista etico-culturale. I Rohingya potevano infatti registrarsi come stranieri, dichiarandosi bengalesi, e ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. La maggior parte scelse questa opzione, salvo poi ritrovarsi, una ventina di anni dopo, obbligati a restituire il documento di identità.
Dopo il colpo di stato del 1962 e poi di nuovo nel 1984, con l’avvento della giunta militare dello Slorc, i Rohingya diventarono dunque apolidi a tutti gli effetti e come tali oggetto di pesanti discriminazioni: nessun diritto di voto, nessun diritto a istruzione e assistenza sanitaria, violenze e continue aggressioni ai loro villaggi. Per anni, senza che il mondo se ne accorgesse, migliaia di Rohingya sono stati costretti a fare la spola tra lo stato del Rakhine, dove vivevano tra mille difficoltà, e il Bangladesh, che non sempre era disposto ad accoglierli.
Tra i profughi “storici” di Kutupalong, quelli che vivono in questo campo dagli anni Settanta, ho raccolto testimonianze inequivocabili. Spesso i militari birmani e le guardie di confine del Bangladesh collaboravano nel massacrare i profughi che cercavano di attraversare la frontiera, gettando poi i cadaveri nel fiume. Ahmed, all’epoca adolescente, mi ha raccontato:
Ci trovavamo in mezzo al fiume, con la mia famiglia, e nel giro di pochi secondi ho visto prima mio padre venire colpito alla schiena dai birmani, e poi mia madre dai bengalesi. Io e i miei fratellini ci siamo salvati buttandoci sott’acqua e poi raggiungendo l’altra riva, aggrappandoci e nascondendoci dietro ai corpi dei nostri genitori.
Racconti devastanti, che sia aggiungono a quelli degli ultimi profughi.
Solo che stavolta l’orrore è tutto di matrice birmana. Una volta arrivati al fiume, i profughi, i pochi che sono riusciti a sfuggire al massacro, sono stati infatti accolti con relativa generosità dalle autorità del Bangladesh.
E da qui, nonostante i reiterati annunci di fantomatici accordi raggiunti tra i due governi – l’ultimo pochi giorni fa, alla vigilia della visita del Papa – difficilmente torneranno in Birmania. Come qualcuno ha già scritto, la “pulizia etnica” perpetrata nei loro confronti e portata avanti con una precisa strategia politica, militare e religiosa – non va sottovalutato il ruolo dei monaci oltranzisti di Ba Ma Tha, l’organizzazione guidata dal monaco razzista Wirathu, il Goebbels in tonaca, che nelle sue deliranti interviste chiama i Rohingya “appestati di Allah” e “spregevoli esseri reincarnazione di immondi insetti” – potrebbe essere più efficace di quelle a cui abbiamo assistito in passato, in Ruanda o in Bosnia.
Una cosa è certa: i Rohingya continueranno in qualche modo a esistere, ma difficilmente rimetteranno più piede nel Rakhine.

Il monaco Wiratu
Pulizia etnica, perché ora
I media, la cui opera di informazione dovrebbe anche avere il ruolo di scuotere le nostre intorpidite coscienze, tendono a “scoprire” e occuparsi di un inferno per volta. Le nostre coscienze sono diventate come i palinsesti: un tanto di politica, un tanto di gossip, un tanto (troppo) di sport, un po’ di orrore. Ma senza esagerare. E soprattutto rispondendo non tanto alla gravità oggettiva dell’emergenza umanitaria (potrebbero anche essercene più d’una contemporaneamente) quanto alle esigenze del particolare momento geopolitico. È per questo che certi inferni non sono mai stati raccontati.
Il silenzio generale sull’Africa, ad esempio, è inaccettabile e disgustoso. E se oggi parliamo dei Rohingya, e non dei Nuba, il popolo che continua a essere sterminato nel Sudan tra l’indifferenza generale, non è certo per decisione autonoma, per un’improvvisa e provvidenziale decisione presa da una potente redazione. Ce lo hanno imposto. Ce lo hanno imposto i player, come di dice oggi, del momento. Anzi, il player: la Cina.
Anziché discutere di quale sia stato, quale avrebbe potuto essere stato (se avesse pronunciato alcune parole in più o in meno) e sopratutto quale potrà essere in futuro il ruolo del Papa nell’immane tragedia dei Rohingya, faremmo bene a renderci conto che a condurre le danze, per ora in Asia, e presto in tutto il resto del mondo, è ormai la Cina. E questo lo sa anche papa Francesco, che porta il cuore e le parole – specie quando parla a braccio – ovunque vada, ma tiene la mente ben appuntata sul suo unico, vero, impossibile obiettivo. Quello di essere il Papa che entra in Cina.
Un obiettivo, a modesto avviso di chi scrive, difficilmente realizzabile se non imponendo al Vaticano un prezzo insostenibile anche per il più ardito dei gesuiti. E non parlo del necessario “tradimento” di Taiwan, quanto di accettare che le nomine dei vescovi siano sottoposte – e gradite – da Pechino. Condizioni alle quali la Cina, soprattutto ora che è sempre più forte, non rinuncerà mai.
Ma questo con i Rohingya c’entra poco, anche perché è bene ricordare che la visita del Papa era stata concordata da tempo, prima che scoppiasse l’ultima emergenza umanitaria, e che proprio questa emergenza ha fatto seriamente valutare alla Santa Sede l’ipotesi di cancellarla. Così non è stato, ed è stato un bene. Ma pensare che possa essere il Papa, l’Europa, il Giappone (pronto come al solito a cacciar denaro ma senza schierarsi) o il Consiglio di sicurezza (che sulla vicenda non è riuscito nemmeno a convocare una riunione) a risolvere la situazione significa non avere la minima consapevolezza di quali siano oggi gli equilibri in quella parte del mondo. E quali siano le poste in gioco.
Cina, India e il ruolo dei militari
La Birmania è uno dei paesi più poveri del mondo, quanto a reddito procapite. Ma è un paese dalle grandi risorse naturali e dalle terre fertilissime. Terre che arrivano fino al mare e che sono da tempo oggetto di interesse strategico sia per la Cina sia, in misura minore, per l’India. Forse è per questo che entrambi i paesi, a differenza della gran parte della comunità internazionale, sono decisamente schierati con il governo birmano e considerano la tragedia dei Rohingya un semplice ostacolo, un “costo” da superare e sostenere.

Oleodotto sino-birmano
Questo è comprensibile per la Cina, che sui diritti umani e delle minoranze non ha mai brillato, ma è davvero inquietante per l’India, paese tradizionalmente ospitale e generoso con chiunque. L’India ha dato e continua a dare asilo a centinaia di migliaia di tibetani, cingalesi. Persino a varie minoranze religiose come i Chin (provenienti anche loro dalla Birmania ma di religione cristiana) o i Chakmas, una minoranza buddhista del Bangladesh. Anche circa quarantamila Rohingya, negli anni Settanta, sono stati accolti e vivono come tutti gli altri profughi: nel perenne incubo di essere deportati. E infatti stavolta il governo di Modi non solo ha sigillato le frontiere, ma annunciato l’intenzione di rimpatriare tutti i Rohingya, non solo quelli arrivati con l’ultima ondata. Una decisione che per ora è stata bloccata dalla Corte suprema, ma che rischia di creare tensione con le Nazioni Unite.
Molti Rohingya infatti sono stati riconosciuti rifugiati politici e sono dunque sotto la protezione dell’Unhcr. Fatto non decisivo, tuttavia, visto che l’India non ha mai ratificato la Convenzione internazionale sui rifugiati e visto che, nel caso dei Rohingya, Modi si appella al diritto di ogni paese di proteggersi dal terrorismo. Per lui i Roghingya non sono dei poveri perseguitati, ma potenziali terroristi, addirittura legati, attraverso l’Arsa, l’Esercito di liberazione dei Rohingya, una piccola formazione locale che ha compiuto alcuni attacchi contro le caserme dei militari, a Lashkar-e-Taiba, il gruppo jihadista con base in Pakistan che l’India considera il responsabile del sanguinoso attentato di Mumbai del 2008. Ma sono legami tutti da dimostrare: non c’è per ora la minima traccia che leghi i guerriglieri Rohingya a organizzazioni terroristiche all’estero.
Alla fine, Modi potrebbe farcela. In India gli stranieri sono tutti uguali, che siano turisti, uomini d’affari, immigrati clandestini, rifugiati. Dipendono tutti dal ministero degli interni che gestisce la situazione con assoluta arbitrarietà. Da un lato concede agli esuli tibetani di chiedere – e ottenere – la cittadinanza, dall’altro può decidere di deportare migliaia di rifugiati sotto protezione Onu. Il tutto, sembra a questo punto evidente, per assicurarsi un ruolo nell’ormai avviata “rinascita” della Birmania. Una rinascita che avviene sotto l’egida cinese ma che all’India porterà una consistente partecipazione nelle nuove Zone economiche speciali, e soprattutto la realizzazione dell’ambizioso progetto di Kaladan, che grazie al porto che i cinesi realizzeranno a Kyaky Pyu (25 miliardi di investimenti) nello stato del Rakhine (da dove stanno fuggendo i Rihingya…) offrirà un collegamento fluviale tra l’impoverito nordest del paese e il sud.

Il porto “cinese” di Kyauk Phyu
Gli interventi cinesi ovviamente non si fermano qui. Dopo le ripetute visite ufficiali che i rispettivi leader si sono scambiati, Xi Jin Pin ha coinvolto ufficialmente la Birmania nel progetto Obor (One belt one road), le due nuove “vie della seta”, una ferroviaria e l’altra marittima, che grazie a un investimento complessivo di oltre settemila miliardi di dollari stanno cambiando gli assetti politici, economici, finanziari e forse anche militari del continente e del mondo intero. Un processo storico, già in atto da tempo, di cui l’Occidente, in particolare l’Europa, ha per ora scarsa conoscenza e poca percezione della sua importanza.
Il generale Min Aung Hlaing
Di fronte a questo scenario è facile comprendere come la questione dei Rohingya sia assolutamente marginale e come lungi dall’essere affrontata e risolta in tempi brevi sia destinata a essere congelata. Qualcuno ha già previsto – non senza una qualche ragione – che i Rohingya sono destinati a diventare i palestinesi dell’Asia.
È molto probabile, dato che i riflettori dei media si sono già spenti (e chissà quando si riaccenderanno) e che il fantomatico accordo annunciato tra Bangladesh e Birmania per l’“immediato” rimpatrio non sembra logisticamente – ed eticamente – praticabile; né sembra possibile, al momento, l’applicazione del piano in tre fasi proposto senza troppa convinzione dalla Cina.
Un piano in tre fasi: cessate il fuoco (che peraltro ufficialmente non è mai iniziato, visto che il governo del Myanmar sostiene la teoria dell’operazione di pubblica sicurezza), rimpatrio controllato, nuovi insediamenti protetti. Quest’ultimo passaggio indica chiaramente la volontà cinese di non ritrovarsi tra i piedi i “pezzenti di Allah” mentre nelle zone da loro sinora abitate inizieranno i grandi lavori del lungo gasdotto che collegherà i mari del sud all’emergente e assetata di energia regione cinese dello Yunnan.
Ma c’è qualcuno che può fare la differenza. E non sarebbe la prima volta, nella storia, che i responsabili delle carneficine, coloro che provocano i problemi si candidano poi a trovarne la soluzione. È quello che è successo e sta succedendo in Birmania, dove i militari sono ancora in grado di fare e disfare. E viceversa.
Chiunque metta istituzionalmente piede in Birmania/Myanmar deve sperare di incontrare – o rassegnarsi a incontrare, come sembra abbia fatto il Papa, al quale si è presentato con un giorno in anticipo, pretendendo un incontro prima di ogni altra autorità – il generale Min Aung Hlaing, architetto e direttore delle ultime operazioni militari che hanno portato al massacro dei Rohingya e alla loro fuga in massa verso il Bangladesh.
Succeduto nel 2011 al sanguinario Tan Shwe, per molti anni a capo dell giunta militare che ha guidato la Birmania, il generale Hlaing è ancora relativamente giovane, 62 anni, e ha tutte le intenzioni di mantenere il potere. Ufficialmente ricopre il numero otto dell’organigramma istituzionale, ma di fatto è l’uomo forte dell’attuale governo. Da quando la giunta militare nel 2015 ha lasciato il posto al governo civile (mantenendo il venticinque per cento dei seggi in parlamento e cinque ministeri chiave) guida di fatto il paese assieme alla signora Aung San Suu Kyi, che da paladina dei diritti umani e simbolo della resistenza civile contro l’arroganza del potere ha deciso di percorrere, tra mille critiche e perplessità della comunità internazionale ma con evidente successo interno (la sua popolarità, in patria, è sempre altissima), la via del compromesso con i militari. Una via che ha una strategia molto chiara e coerente. Prendere atto del sempre maggiore, inarrestabile indebolimento del ruolo degli Usa nella regione, rafforzare i rapporti con Pechino e saltare sul carro dell’Obor e di tutte le opportunità che è destinato a portare con sé e a distribuire ai paesi vicini.
E noi, e i nostri media, ancora a discutere sulle parole dette e non dette dal Papa, sul ruolo dell’Europa, della “comunità internazionale”, dell’Onu. Basta vedere quello che è successo e sta ancora succedendo in medio oriente per capire che fine faranno i Rohingya. E a questo punto c’è solo da augurarsi che le agenzie internazionali, le ONG e le varie associazioni di volontari possano in futuro continuare a fare il loro lavoro. Rendere meno crudele la vita all’inferno. Come se fosse possibile.
Le immagini della photogallery sono di Pio d’Emilia

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