Liberi e Uguali, il non detto e i fini reali dietro gli slogan

La scissione del Pd che ha portato alla nascita di LU non convince, per tante ragioni, storiche e di merito. Il livello locale - Venezia è un buon esempio - è un'utile chiave di lettura per capire quel che è accaduto a livello nazionale
CARLO RUBINI
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Adesso che si è consumata fino in fondo la scissione dal Pd con la nascita, o l’embrione meglio, di una nuova formazione politica che si presenterà autonomamente alle elezioni sotto la sigla Liberi e Uguali, si può osservare con maggiore distacco quel che è successo, cercando di capire a mente fredda la natura di questa operazione e i suoi retroscena non detti, oltre che gli obiettivi reali, oggi tenuti celati da inevitabili slogan che cercano di marcare la differenza con il Partito democratico.

Di scissioni la politica italiana ne ha conosciuto decine e decine da quando esiste una dialettica politica democratica, molte di scarso significato e seguito, alcune invece storicamente importanti e un bel numero anche queste. Tutte maturate su presupposti ideologici e se non ideologici comunque su contenuti attraverso i quali si marcava una incompatibilità sostanziale tra i fuori usciti e la formazione che veniva abbandonata.

Lo stesso dicasi per abbandoni individuali, anch’essi numerosi, più silenziosi ma segnati da un dissenso profondo, a volte anche drammatico per i risvolti umani e relazionali.

La scissione che ha partorito Liberi e Uguali in un quadro di scissioni “nobili” di questo genere e che hanno fatto storia, però stride, contiene qualcosa che non convince, se la si valuta sul piano dei contenuti; non tanto di quelli espressi ora, facilmente capibili, ma di quelli espressi in passato e di tutt’altro segno dagli stessi protagonisti di ora. Più capibile Liberi e Uguali nella componente di Sel, lascito di una scissione storica e importante come quella che diede vita a Rifondazione comunista, ma più enigmatica nella componente decisiva quella del gruppo ex Pd di D’Alema e Bersani.

Per cercare di capire mi sposto, con qualche divagazione nazionale e regionale, sul livello locale che conosco meglio, a Venezia e nel suo territorio metropolitano in una situazione a parer mio esemplare e utile per cercare di capire quel che è accaduto a livello nazionale.

Ho avuto personalmente una frequentazione a più riprese ravvicinata con le persone che qui hanno dato vita ad Articolo1Mdp, nerbo consistente di Liberi e Uguali e già vocato a egemonizzare la nuova formazione, solo apparentemente plurale. Li ho visti crescere si può dire e affermarsi nella politica cittadina in tutto l’arco che va dalla nascita del Pdf nel ’91, e da prima ancora, fino a ieri si può dire. La mia era sempre stata fin dall’inizio una provenienza anomala in quel partito, da eterno “esterno” anche quando ero nei ranghi più inquadrati, persino in una prima fase con un mio ruolo nelle segreterie politiche della federazione (continuava a chiamarsi così…) e con qualche battaglia insieme, come per esempio quella, vinta, del referendum separatista del 2003.

Venivo accettato, magari anche a parole apprezzato, ma ritenuto poco controllabile, troppo indipendente e quindi ritenuto, con qualche buona ragione dal loro punto di vista, inaffidabile. Per questo sono entrato e uscito più volte mentre le sigle e la storia del partito cambiavano; criticandoli costantemente, dal mio punto di vista, per la loro concezione nel far politica nel partito, che mi era estranea e quindi non capivo.

Nonostante ciò, ripensando a quella storia, con l’età ho maturato una certa stima per quelle persone, ne ho rivalutato il ruolo svolto in questi quasi trent’anni; e autocriticandomi per l’immaturità di non aver capito allora quello che solo adesso mi appare forse più chiaro.

Oggi queste persone hanno un’età tra i cinquanta e i sessanta o poco oltre, una generazione successiva, anche se anagraficamente limitrofa alla mia, che al loro esordio li considerava “giovani”; e che appunto, vedendoli di primo pelo, rimaneva sinceramente stupefatta di come avevano già assimilato i trucchi e i trabocchetti della politica politicata. E loro sono cresciuti da giovani, alcuni anche nella federazione giovanile, nella fase cruciale che va dalla svolta della Bolognina (’89) alla fondazione del Pds (’91). Un passaggio traumatico nel quale sono riusciti a tenere botta e a farsi le ossa con l’appoggio nazionale di Massimo D’Alema, quantomeno all’inizio, e locale di dirigenti come Cesare De Piccoli, Renato Morandina e Valter Vanni; quest’ultimo soprattutto, una figura qualificata o, meglio, anche qualificata, ma soprattutto tagliata ad hoc per un’impostazione di questo tipo. Meno cercavano e trovavano l’appoggio in Gianni Pellicani, figura rispettata ma ritenuta non garante fino in fondo per le sue posizioni che allora si dicevano “miglioriste”.

08/02/1990 Marghera – Valter Vanni al Petrolchimico con Achille Occhetto e Gianni Pellicani © Errebi

La loro casa, la casa di questi giovanotti, era in definitiva il “grande centro” del partito, il grande manto sotto cui si può far carriera, quello che sarà a lungo maggioritario e loro sono cresciuti così. Si può discutere quanto si vuole sul ruolo dei partiti, se la loro funzione è finita o se vanno ripensati diversamente. Ma se in una certa fase un ruolo i partiti l’hanno avuto e comunque lo ha avuto un partito che si diceva (si diceva) “di sinistra”, questa generazione di dirigenti, in seguito cresciuta e maturata generando a sua volta una successiva con le medesime caratteristiche, quella degli attuali quarantenni/cinquantenni anch’essi logicamente oggi fuoriusciti dal Pd, questa generazione, dicevo, con i mezzi che aveva, è riuscita a mantenere aggregato e radicato il partito; in una fase difficilissima di transizione fino alla nascita del Pd e anche oltre, fase difficile nella quale cambiavano continuamente i riferimenti ideologici e sociali, oltre che i sistemi di comunicazione.

È stata la fase del centro-sinistra al potere in città che riprendeva, dopo una breve pausa tra fine anni Ottanta e primi Novanta, il lascito della sinistra al potere dei Settanta/Ottanta, di fatto una continuità unica di quarant’anni dal ’75 al 2015 fino alla svolta (per taluni svolta/involuzione) di Brugnaro. Una lunghissima fase di governo cittadino che oggi viene accusato da più parti, e anche all’interno della sinistra stessa, di essere stato “malgoverno” e di avere la responsabilità di tutti i mali della città, sia in acqua che in terra.

Ci penseranno gli storici ad analizzare la politica cittadina di questi quarant’anni e a confermare o meno un giudizio così severo. Come sempre la realtà quando diviene storia non è mai così in bianco o nero e anche questa dimostrerà la sua complessità per la quale bocciare o promuovere tutto in blocco non ha senso, domani di sicuro, ma neppure oggi.

Michele Mognato e Davide Zoggia

Sia come sia la generazione di cui sto parlando aveva in definitiva un’idea di partito e l’applicava come poteva riuscendo a mantenerne i numeri e il radicamento. Certo lo faceva con i mezzi che a me davano l’orticaria, esibendo tutto l’armamentario, candidamente cinico, di come si fa squadra e sfruttando fino in fondo la presenza nelle istituzioni nelle quali cominciavano ad avere responsabilità importanti.

L’armamentario? Una maestria nel puntellarsi a vicenda, numeri sicuri nelle sfide elettorali, con agendine sempre zeppe di elettori altrettanto sicuri che facevano regolarmente ottenere i numeri desiderati (e a Venezia bisognava averne centinaia di preferenze, a volte qualche migliaio); decisioni prese in “caminetti” correntizi in cui, “manuale Cencelli” alla mano, si facevano accordi e spartizioni intercorrentizie con gli altri e accordi che reggevano, una sorta di doppio fondo nella catena dirigenziale, alla faccia degli organismi ufficiali, votati pomposamente in assemblee sempre blindate in anticipo e dall’esito sistematicamente scontato; e ancora: capacità di ripetere fino allo sfinimento le parole e i concetti della linea del momento, nazionale e locale, anche con piroette repentine che lasciavano esterrefatti gli osservatori esterni, e io tale in fondo ero, quando la linea cambiava di botto e di botto si diceva oggi il contrario di quel che si diceva ieri; riposizionamenti veloci quando serviva e infine la candida capacità di mentire autogiustificando la menzogna con la ragion di partito, una condizione per cui la menzogna perde la sua caratteristica negativa e diventa una virtù; e attribuendola loro la svesto anch’io di quell’alone che in circostanze normali, se attribuito a qualcuno, diventa un insulto. Non vuole esserlo.

Un armamentario in definitiva utile ed efficiente per tenere unito il corpaccione del partito e che avevano riversato paro paro anche nel Partito democratico. Dove non è cha la nuova componente degli ex margheriti si comportasse diversamente da loro, avendo questa in parte ereditato dalla vecchia Dc o dal sindacato cattolico da cui molti provenivano, le stesse tecniche, lo stesso cinismo, con addirittura una maggior predisposizione a mentire, anche se più goffamente e maldestramente, con menzogne scoperte molto meno credibili. E alla fine ho rivalutato gli ex diesse anche per questa differenza di statura, a loro favore s’intende.

D’altra parte con gli ex margheriti si son subito messi a fare accordi, anche duraturi, abituati allo stesso metodo. Nel gorgo della vicenda Mose ci son finiti, uscendone giuridicamente puliti, mi par di capire, ma forse non politicamente, sempre per la stessa convinzione di fare il “bene” alla causa. Assolti in questo caso, ma veramente acciaccati forse per la prima volta. Dentro alla rete da quel che si sa ci è rimasto solo quel Gianpietro Marchese che ha tenuto per molto tempo la cassa dal Pds in avanti, sempre con la logica di “fare il bene del Partito”.

Molti di loro hanno avuto a lungo ruoli istituzionali, vice sindaci con Cacciari, Costa e Orsoni, sono stati ripetutamente assessori, presidenti provinciali, sindaci e assessori nell’area rossa della provincia, infine parlamentari come richiedeva la conclusione di un cursus honorum iniziato da giovani peones e che deve, legittimamente vien da dire, alla fine nella maturità incassare per l’abnegazione di una vita trascorsa a tenere insieme, in qualche modo sempre riuscendoci, la struttura partitica nel territorio. Vero che non hanno mai avuto a Venezia una figura di sindaco espressione diretta del loro gruppo dirigente; ma questa ai più accorti è sempre sembrata una scelta strategica. Voluta per poter poi avere, in contraccambio e come compensazione, posti numerosi, diffusi, ben distribuiti e quindi determinanti in tutti gli altri livelli istituzionali, spalmandosi un po’ dappertutto e, si capisce, anche nella macchina istituzionale e nelle municipalizzate.

Radicatissimi nella terraferma comunale, e almeno in una prima fase nella parte rossa della provincia (Riviera), che notoriamente hanno i numeri e le quantità per garantire maggioranze, quasi per un tacito patto avevano lasciato la piazza del centro storico alla vecchia sinistra del partito, consapevoli che alla fine, anche per dato anagrafico, si sarebbe esaurita da sé; come è inevitabilmente accaduto anche se non del tutto.

[Per inciso, e per mettere ancor meglio a fuoco i lineamenti della generazione di cui sto parlando, a proposito di accordi riusciti, quell’accordo/spartizione tra partito di terraferma e partito di centro storico ha tenuto per anni e bisogna dire che nel centro storico veneziano a lungo è rimasta, anche in posti di governo, la riserva indiana dell’unica sinistra ‘vera’ che il Pds-Ds-Pd ha espresso, salottiera, radical chic anche se opportunisticamente appoggiata ai militanti popolari della Venezia profonda, scopertamente ideologica e conservatrice come si conveniva all’intelighenzia del tardo novecento, tanto quanto anch’essa incapace di incidere nelle sorti cittadine; e bilanciata dall’altra parte dalla figura di Massimo Cacciari, loro nume tutelare, quasi un mito subliminale, anche quando diceva cose del tutto opposte alle loro. Del resto i cascami di quella cultura politica sopravvivono ancor oggi e ne vediamo nella municipalità lagunare cittadina uno spaccato interessante].

Come hanno svolto invece il loro ruolo, quando poi hanno governato, i giovani “centristi” del partito che hanno tenuto saldamente e lungamente in mano, forti dei numeri della terraferma? Lo hanno svolto proprio con un profilo moderato, direi quasi curiale, qualcuno direbbe “doroteo” ( definizione del resto assegnata fin dall’inizio al loro padre fondatore, il leader Maximo), intenti sempre a mediare, a smussare, a sopire, a non accelerare mai, a gettare acqua sul fuoco di situazioni che potevano sfuggire di mano, attenti semmai ad anteporre le ragioni di partito a quelle cittadine; non per egoismo di gruppo, va detto subito, ma per la consapevolezza tipica e giustificata di chi vede nel partito una garanzia democratica in assenza del quale anche la città ci rimette.

Consapevolezza che ha una sua logica, anche se si è poi ritorta contro e bisognerà valutare sempre a freddo se gli enormi problemi irrisolti nelle due Venezie, di acqua e di terra, non siano dipesi anche dalle non-scelte determinate da questo stile moderato, sempre coperto, molto, forse troppo preoccupato del consenso e dell’impopolarità, uno stile che ha finito per condizionare e di fatto bloccare nella palude anche un uomo determinato come Cacciari. Uno stile che li differenziava nettamente, come già detto, dalle sezioni e dai circoli residuali della Venezia d’acqua, uno stile coerente piuttosto con quella volontà (e non incapacità) di “non dire mai cose di sinistra” che il loro padre nume tutelare ha sempre praticato come scelta politica esplicita, da ben prima che se ne accorgesse Nanni Moretti. E in coerenza con il “realismo” di stampo emiliano che il loro successivo tutor, Pier Luigi Bersani, ha sempre espresso quando ha dato il meglio di sé; nel governare prima il “capitalismo rosso” all’emiliana o nel dare spazio alla logica di mercato e di concorrenza quando da ministro emanò uno dei più liberisti e, secondo lo schema di un tempo, destrorsi perché liberisti, provvedimenti dell’ultimo decennio, quello sul commercio. Lo stesso stile “realista” degli Errani, dei Rossi, “bersaniani” nel profondo, non a caso tacitamente apprezzati anche a destra. D’altra parte altri personaggi locali veneti di questa provenienza ex Ds e riconducibili allo stesso gruppone del centro del partito pre-Pd hanno lavorato nelle istituzioni tenendo lo stesso profilo.

Penso a uno Zanonato, a più riprese sindaco di Padova ed oggi in odore di candidatura di prestigio per Liberi e Uguali nel Veneto; balzato alle cronache per scelte invece non proprio moderate quando era sindaco, ma semmai radicali di segno opposto ad una conformistica impostazione “di sinistra”, come quella dell’innalzamento del “muro” di Via Anelli per proteggere i residenti dal degrado dell’abbinata spaccio-immigrazione. Un provvedimento, peraltro da me condiviso allora, ma indubitabilmente con il marchio da “lega profonda”.

Tutta questa lunga premessa, pedante e me ne scuso, mi era tuttavia necessaria per inquadrare la tipologia antropologica di questo personale politico che, tornando alla specifica realtà veneziana, si è barcamenato bene per un lungo periodo con un atteggiamento costantemente prudente e non identificabile con nulla che potesse richiamarsi esplicitamente alla sinistra se non il naturale quanto silente insediamento in quell’area, ereditato come rendita vitalizia senza dover fare alcun sforzo di riconoscimento con il solo merito, ma per molti non è stato poco, di aver mantenuto in piedi comunque un partito in tutte le sue fasi, anche la più recente.

Ebbene sentire oggi questo gruppo, uscito anche a Venezia quasi in blocco dal Pd, questo gruppo con questa storia per nulla ignobile, con questa formazione, direi con questo dna moderato che la politica da loro incarnata richiedeva necessariamente, sentirlo oggi esprimersi anche qui da noi, sotto la sigla Mdp o Liberi e uguali che sia, con un’inedita e almeno apparente radicalità, con piglio etico, con la precisa volontà di farsi percepire nettamente di sinistra, stride; e lascia onestamente un po’ di stucco, perché, pur conoscendoli, non ci si abitua mai del tutto a cambiamenti di pelle così immediati da un giorno all’altro.

Soprattutto lascia di stucco, ma poi appunto, ripensandoci, fino a un certo punto, chi li ha conosciuti bene, ed io credo di essere tra questi, avendone visto e in certi momenti, come già detto, persino apprezzato tutta la parabola: anche la realpolitik ha il suo fascino e loro la interpretavano magistralmente. Ma vederli e sentirli oggi fare il contrario, i radicali e i sinistrorsi, quantomeno su quei grandi temi nazionali per cui nel passato avrebbero proceduto con la stessa e addirittura maggiore cautela che oggi imputano al governo e al Pd, fa sorgere spontanea la domanda se “ci sono” o se “ci fanno”.

“Ci sono” o “ci fanno” in entrambi i sensi. Infatti i casi sono due: o emerge solo ora la loro vera natura ‘radicale’, repressa per quattro lunghi lustri dalla ragion di partito e dalle necessità di mediazione continua che il governo cittadino, secondo loro, imponeva per mantenere consenso (e abbiamo poi visto che forse un po’ più di coraggio anche nel consenso avrebbe pagato di più, seppure questo lo si dice con il senno a posteriori). E in questo caso allora, come si usa dire, “ci sono” cioè sono e sono sempre stati così come appaiono oggi, ma non ce n’eravamo accorti. Oppure il contrario: adesso vanno contronatura (e quindi in questo caso “ci fanno”) per ragioni che poco hanno a che fare con i contenuti nei quali improvvisamente sono diventati “radicali”, riuscendo tranquillamente a convivere con i reduci, per quanto depurati, di una scissione lontana (quella di Rifondazione) che invece convintamente esprimono una linea estrema costitutivamente minoritaria. E lo fanno soprattutto su temi nazionali (Jobs act, ius soli) tutto sommato più facili da interpretare, utili per marcare la differenza perché a livello cittadino riuscirebbe loro più difficile essere creduti radicali dopo che per quasi tre decenni hanno espresso un adattamento alla realtà che li ha resi, almeno in questo, poco formati per esercitare opposizione di contenuto, soprattutto verso chi è già all’opposizione a Venezia, cioè oggi il Pd diventato improvvisamente il nemico numero uno.

Roberto Speranza, Pietro Grasso, Pippo Civati, Nicola Fratoianni

Lascio a chi legge una risposta che non è facile e che lascio volutamente sospesa. Gli indizi vanno però sulla seconda ipotesi. Infatti si stanno spendendo in città sui grandi temi nazionali per provare a riaggregare una sinistra che si sente orfana e a quanto pare ci stanno persino un pò riuscendo. Lo fanno imputando alla gestione attuale del Pd a trazione renziana delle scelte che un tempo avrebbero declinato più o meno nello stesso modo o con lo stesso segno di “realismo”; valgano per tutti appunto le già citate scelte liberistiche di Bersani ministro o quelle più eclatanti in politica estera di D’Alema con la sua “guerra umanitaria” a Belgrado, assorbite e difese senza batter ciglio (ma si pensi anche ai pensionamenti allungati di sei anni in un pomeriggio dal governo Monti che Bersani segretario appoggiava alla grande).

Di fatto la rottamazione renziana, si dica quel che si vuole ma è un fatto, è una delle poche”cose” politiche realmente riuscite. È stata cambiata interamente da Renzi una classe dirigente, tutto da vedere se migliore – altri corposi indizi lasciano dubbi su questo-. È stato, il suo, molto un ricambio a livello centrale e nazionale, mentre secondo lo stile e la natura stessa di Renzi, c’è stato disinteresse totale per un ricambio a livello locale, dove invece è rimasto il vuoto o i residui della componente margherita che sarebbero stati semmai da rottamare anche quelli se non fossero venuti utili come appoggio (costoro che, guarda caso, avevano inizialmente con molto opportunismo appoggiato Bersani sono stati ineguagliabili nel salire nel carro del vincitore).

Tutto sommato Renzi non aveva fatto opera di rottamazione nelle vecchie federazioni neppure con la vecchia classe dirigente ex Ds, tant’è che i D’Alema boys a Venezia, pur ridimensionati nella gestione del Pd, avrebbero potuto rimanere e continuare senza problemi. La loro preoccupazione riguardava però i garanti nazionali esautorati e dei quali sarebbe venuto sempre meno un appoggio che per lustri avevano ricevuto. E con un domani incerto, anche nei posti in parlamento, che la lunga militanza aveva fatto meritare loro dopo un curriculum di fedeltà; perchè per questo ceto un posto premio prima o poi alla camera o al senato non è mai mancato. La rottamazione dei loro padri tutelari lo metteva quasi di colpo in discussione.

Jeremy Corbyn sostiene la @tiecampaign, la campagna delle cravatte organizzata dal leader del Partito laburista scozzese Richard Leonard contro omofobia, biphobia, transphobia nelle scuole, per un’istruzione inclusiva

C’è chi osserva che, quantomeno nei grandi partiti democratici anglosassoni, i Corbyn, i Sanders convivono senza problemi con posizioni diversissime dalle loro di segno moderato e più liberali anche in economia. Di tanto in tanto i Corbyn e i Sanders mettono la testa fuori e vengono regolarmente bocciati, dicono la loro con coraggio e un po’ sempre fuori dalla realtà e tornano poi nei ranghi. Avrebbero potuto fare così anche i nostri Bersani e D’Alema e i loro affiliati in periferia, che, una volta esautorati dal comando, Renzi avrebbe tranquillamente tenuto ugualmente dentro? No perché la differenza è palpabile. Quelli citati in Inghilterra e negli Usa sono veramente “radicali” nel profondo, esprimono una linea che personalmente giudico perdente in Occidente oggi, ma credibile e genuina. Invece fare i radicali ‘dentro’ come stampella, agli occhi degli attuali fondatori di Mdp stampella inutile e improduttiva, ai ‘nostri’ non sarebbe riuscito bene, e neppure ai loro affiliati locali, la cui natura ho cercato di delineare; anche perché sono da decenni stati abituati ad essere il ‘centro’ del partito.

Meglio andare fuori, cercare di attraversare senza danni il deserto e cercare di riconquistare dall’esterno il partito da cui sono usciti. Magari non lo stesso partito, ma attraverso una scomposizione-ricomposizione, anche perché dentro restano pur sempre gli ‘orlandaini’ a fare i cavalli di Troia, secondo un gioco delle parti a parer mio calcolato se non proprio organizzato. E che un domani può venire utile.
Se così fosse, ed anche questo da dimostrare (la mia, lo ammetto, è solo una narrazione di fantasia direi più verosimile che vera e potenzialmente sempre smentibile), ma se così fosse tutto è comprensibile e tutto torna.

Ed è uno scenario che se si confermasse consacra tra l’altro un fallimento sostanziale di tutta questa ormai lunga fase renziana. Il prezzo di questa fuoriuscita di Mdp, probabilmente dettata solo dall’esautoramento dal potere della vecchia classe dirigente, si poteva ragionevolmente pagare se il Pd renziano avesse ottenuto uno sfondamento notevole al centro dell’elettorato e anche a destra, operazione sempre orgogliosamente rivendicata nelle intenzioni da Renzi, ma mai poi ottenuta, anche per ragioni che meriterebbero un altro nuovo racconto e altre analisi; e non c’è stato mai in tutti questi anni, neppure con la “drogata” vittoria alla elezioni europee. Le cause sono probabilmente esterne a Renzi e alle sue capacità e affondano le radici nella natura contraddittoria e viscerale dell’Italia, accentuata dalle diversità culturali e sociali della sua geografia.

Questa storia che ho provato a raccontare credo sia emblematica, e me lo confermano altri amici dislocati qua e là in Italia, per tutte le situazioni locali in cui è nata Mdp e in cui si trova l’attuale Partito democratico; che, parafrasando il riuscito titolo del recente bel libro di Piero Fassino, ha provato realmente ad essere “l’ultimo partito” ed effettivamente lo è stato finchè questo ceto ex Ds è rimasto dentro, perché portava la tradizione e l’attitudine a “fare” partito.

Può essere che il calcolo dalemian-bersaniano preveda però anche questo: “andiamo fuori e ‘crepi Sansone con tutti i Filistei’”. Siccome un partito che vuol essere tale si regge con solidità in periferia, ce ne andiamo anche e soprattutto in periferia, lasciamo il vuoto e anche la struttura crolla. Abbinato il vuoto e il conseguente sfaldamento del partito alla sua possibile se non proprio probabile sconfitta alla prossime elezioni, il castello renziano si sbriciolerà del tutto. Poi in qualche modo ritorneremo noi. Al centro della scena, laddove siamo sempre stati e dove ci è naturale stare’; al centro di macerie però, aggiungerei io.

Questo calcolo se ci fosse non fa appunto i conti con i prezzi da pagare, per l’Italia soprattutto nel contesto economico mondiale ed europeo e per la minaccia populista, xenofoba, persino neofascista che tra le macerie può trovare praterie da occupare e questa volta stabilmente.

E a Venezia? Questo stesso calcolo può essere pagato con un’estromissione dalla gestione della città che può perpetuarsi, lasciando la conduzione in esclusiva al fronte oggi avverso anche nei mandati che verranno. E che lo resti, quantomeno in esclusiva, per la città, lo abbiamo ormai capito, non sarà un dato certo positivo.

Liberi e Uguali, il non detto e i fini reali dietro gli slogan ultima modifica: 2017-12-11T16:36:12+01:00 da CARLO RUBINI
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