Come gestire lo sviluppo delle attività portuali e il delicato equilibrio dei
centri storici urbani? Ne hanno parlato a Venezia, pochi giorni fa, esperti e
amministratori locali in un seminario internazionale dal titolo eloquente
“Porti competitivi in città storiche”.
ytali ha intervistato Rinio Bruttomesso, presidente di RETE, l’associazione per la collaborazione tra Porti e Città che ha promosso l’iniziativa. Bruttomesso, già docente di Urbanistica allo Iuav, è stato direttore del Centro “Città d’acqua” di Venezia e ha curato per la Biennale di Architettura di Venezia due mostre: sulle “Città d’acqua” (nel
Padiglione galleggiante all’Arsenale nel 2004) e sulle “Città-Porto”, a Palermo
nel 2006.
Quale è la relazione tra porti competitivi e centri storici?
Parlare di porti competitivi e di città storiche è tema complesso. Si tratta di
due elementi che possono entrare anche in forte contrasto tra loro. Che siano
commerciali – i porti container – o passeggeri – la crocieristica, ma non solo – i
porti si trovano normalmente dentro ambiti urbani. La vicinanza di per sé
genera già problemi. Pensiamo soltanto a quelli di carattere ambientale. Il
caso di Venezia è quello più vicino a noi.
Se la relazione è sempre stata di difficile gestione, oggi che i porti sono tra i
principali protagonisti della competizione a livello globale, possiamo soltanto
immaginare gli sviluppi futuri della competizione e le conseguenze sugli
ambienti urbani storici.
Che tipo di problemi?
Il porto è una realtà economica molto complessa. Oggi uno dei temi della
nuova portualità è il bisogno di spazi sempre più grandi. Questo vale per le
merci innanzitutto. L’obiettivo è il trasporto di merci just-in- time. La necessità
di trovare nuove superfici dentro gli spazi delle città storiche genera quindi un
primo terreno di scontro. E problemi da gestire.
Ma c’è un altro tema caldo in questo confronto-scontro tra porti e città:
quello del gigantismo navale che tocca tanto il settore del trasporto merci
quanto il settore dei passeggeri.
Come si risolvono questi problemi?
La via maestra è il dialogo intelligente tra porto e città. Se le strade rispettive
si mantengono parallele e non si incontrano, si rischia di generare tensioni e
di non risolvere i problemi. L’obiettivo della nostra associazione, che si
occupa di queste tematiche sia nell’area europea, in particolare quella
mediterranea, che in quella latinoamericana, è proprio di favorire questo
dialogo. Anche attraverso l’esame di esperienze fatte in contesti locali
specifici, come quello dell’Argentina, Paese ospite d’onore di questo
seminario. Pensiamo infatti che sia necessario maturare una riflessione teorica
approfondita sul tema.
E chi dovrebbe partecipare a questo dialogo?
Ovviamente il porto e l’amministrazione cittadina. Ma non solo. Aggiungerei
l’università e il mondo associativo. Rete vuole anch’essa svolgere una
funzione: esterna alla realtà locale, ma capace di mobilitare conoscenze e
riflessioni teoriche. E soprattutto per formare coloro che sono esposti in
prima persona e sono responsabili delle politiche e delle decisioni. Che
necessariamente devono avere un livello adeguato di conoscenza, essere
aggiornati e informati.
Non si fa formazione?
Purtroppo nel nostro Paese si fa pochissimo in questa direzione. E
l’università non riesce ad insegnare come debbano essere disegnati i piani
regolatori dei porti. Ecco, ad esempio: noi cerchiamo di fornire il nostro
supporto, di carattere formativo in questo campo strategico per lo sviluppo
della portualità.
“Conoscere per deliberare” diceva Einaudi.
Si, ma vi aggiungerei una chiosa. Purtroppo non è così semplice passare dalla
conoscenza alla delibera, che rappresenta la parte finale di un processo. Direi
piuttosto “conoscere per dialogare, per poi deliberare”. Peraltro, nell’ambito
dei piani regolatori portuali, la legge ti obbliga già a dialogare. Quello è stato
un grande passo in avanti per la relazione tra città e porto.
Perché?
Perché prima i porti erano autonomi. E il porto era visto soprattutto come
una realtà tutta fisica e territoriale, chiusa in se stessa, che aveva un rapporto
minimo con la città che lo ospitava. Quando nel 1994 la legge interviene e
dice che il piano portuale deve fare i conti con la realtà della città e impone la
necessità della concertazione, si sono poste le basi per un cambiamento
epocale.
A cui però la città stessa forse non era pronta?
Gli amministratori locali spesso hanno un’idea approssimativa di come
funzioni un porto oggi. Spesso si pensa che il porto operi come vent’anni fa.
Allora il pensiero va alle gru tradizionali, ai grandi magazzini portuali. E
anche ad un certo tipo di lavoratori che si muovevano dentro una realtà
molto “dura”. Ma oggi non è più così. Oggi l’introduzione massiccia delle
tecnologie ha profondamente cambiato il panorama portuale, sia fisico che
del lavoro.
Ricorre il centenario di Porto Marghera. La relazione tra porto e città
può passare attraverso le aree di interazione tra attività portuali e
attività urbane, le zone appunto di waterfront?
Certamente. Ed anche a Venezia è successo questo e ancora succede.
Purtroppo però qui, come in tutto il nostro Paese, spesso dimostriamo scarsa
memoria… abbiamo poca capacità di ricordare e di sedimentare esperienze.
E così ogni volta si ricomincia un nuovo confronto. Il waterfront veneziano è
uno dei temi di queste ricorrenti discussioni. Porto Marghera, il cui
contributo in termini di occupazione e di sviluppo economico è fuori
discussione, dal momento che inizia la sua fase critica non ha saputo giocare
un ruolo importante ed innovativo per disegnare una nuova e diversa
interazione tra laguna e terraferma. L’unico tentativo di pensare a un
insediamento urbano nella zona di gronda lagunare è stato storicamente il
modesto intervento del Cep di Campalto. Una sorta di piccolo villaggio che
sta tra la Triestina e il fronte laguna, prima di arrivare all’aeroporto.
E il Parco di San Giuliano non è parte di un possibile waterfront?
Assolutamente sì, poiché si tratta un parco ricco di potenzialità. Ma
dobbiamo ricordare anche che il verde, in altre zone, può diventare un
elemento separatore più che di cerniera tra le parti. Ad esempio, nell’area
industriale attigua ai Pili, una volta tolte di mezzo le attività incompatibili con
un futuro sviluppo urbano, non dovrebbe formarsi un’altra zona verde, ma si
dovrebbe invece dar vita ad un autentico pezzo di una Mestre “lagunare”, che
potrebbe avere le potenzialità per creare un waterfront unico e straordinario.
Perchè non pensare di lanciare un grande concorso internazionale di idee in
questa prospettiva?
Perché queste politiche frammentate rispetto allo sviluppo urbano
veneziano?
In molte città italiane politici ed amministratori sembrano in grave difficoltà
per affrontare le grandi sfide che queste città richiedono sempre di più per
essere rilanciate. Certo, governare questi organismi urbani oggi è impresa
titanica ma a volte i soggetti destinati a questa funzione paiono poco adeguati
a tali compiti e non è vero che i problemi siano sempre di carattere
economico.
Le zone di waterfront possono rappresentare degli strepitosi
laboratori per riformulare le idee sulla città, ma bisogna ricordare che questi
progetti sono costosi ed hanno tempi di realizzazione molto lunghi. Dai
quindici ai venti anni. Si tratta in pratica di quattro mandati di un sindaco. Chi
è disposto a scommettere su tempi così lunghi? Quale amministratore ha oggi
il coraggio di farlo? Serve molta capacità di concertazione per definire la vision
di una città che guardi al futuro. Serve caparbietà per portarla avanti. E, una
volta raggiunto l’accordo sul progetto, occorre garantirne, con strumenti
adeguati, la realizzazione nel corso degli anni: altrimenti il rischio è quello di
disfare ciò che il predecessore ha creato. La classe politica deve tornare a
pensare come “Città”.

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