I rapporti tra Stati uniti e Cuba hanno spesso bisogno dell’ausilio di uno psicanalista per essere compresi e non di un esperto di politica internazionale. Grazie all’amministrazione Trump, si è tornati non a prima di Obama ma molto peggio nelle relazioni tra Washington e L’Avana.
Chiusa di fatto l’ambasciata a stelle e strisce a Cuba, attualmente un cubano deve fare molte peripezie per chiedere un visto familiare o d’altra natura che gli permetta di andare dall’altra parte degli Stretti della Florida. L’ambasciata statunitense autorizzata a questo compito è infatti solo quella che ha sede a Bogotà, Colombia. Il costo della tratta aerea L’Avana-Bogotà è all’incirca di 600 dollari: un capitale per qualsiasi cubano. Chi si reca lì per chiedere il visto non ha poi la sicurezza che gli venga concesso.
È un impedimento politico-burocratico che blocca il flusso di ventimila nuovi visti all’anno e quelli di routine, con l’obiettivo di esasperare il malessere sociale nell’isola a causa di una decisione incomprensibile.

A Miami Donald Trump firma l’ordine esecutivo che ribalta l’apertura a Cuba, sostenuta da Barack Obama.
Ricostruiamo i fatti. Washington ha ordinato lo scorso settembre a più di metà dello staff della sua ambasciata all’Avana di lasciare la sede di rappresentanza. Il motivo ufficiale di tale decisione erano gli “attacchi acustici” – qualcosa di simile a un film di fantascienza – contro i propri diplomatici.
Gli Stati uniti hanno perciò deciso di mantenere a Cuba solo il “personale di emergenza” e di riportare a casa tutto il personale “non essenziale” dell’ambasciata a L’Avana.
Washington ha contemporaneamente interrotto, con scadenza indefinita, il rilascio di visti a Cuba e ha di conseguenza bloccato i viaggi di delegazioni ufficiali da una parte e dall’altra dei due paesi. Un comunicato ufficiale della Casa Bianca invitava inoltre i cittadini statunitensi a non recarsi a Cuba in quanto possibili bersagli di “attacchi acustici” anche negli hotel e non solo per strada. Il pretesto dell’udito vilipeso serviva a Trump per fare indietreggiare le lancette dell’orologio nei rapporti Usa-Cuba e per fare chiudere anche l’ambasciata cubana a Washington.
Secondo la versione a stelle e strisce, diciannove diplomatici erano stati colpiti da alcuni problemi di salute, in particolare da improvvise perdite di udito con forti emicranie, giramenti di testa e perdite di equilibrio, lievi lesioni cerebrali e finanche deficit cognitivi. La “rivelazione” è stata fatta lo scorso agosto, dopo che gli Stati Uniti avevano espulso due diplomatici cubani da Washington per rappresaglia contro gli “attacchi acustici”.
La ricostruzione statunitense indicava la causa della perdita dell’udito nell’emissione “di onde sonore non udibili dall’orecchio umano in grado di creare gravi danni”. La diplomazia cubana ha immediatamente replicato negando gli “attacchi acustici” e mettendo a disposizione il proprio personale sanitario per verificare la natura dei malesseri denunciati dai diplomatici. La risposta di Washington è stato un secco “no” pure alla controprova medica da parte di personale né cubano, né statunitense.
Con un tratto di penna sono state così cancellate tutte le innovazioni volute da Barack Obama e Raúl Castro dopo anni di faticose trattative: liberalizzazione dei viaggi e del turismo, liberalizzazione tendenziale del commercio, normalizzazione delle relazioni diplomatiche con l’apertura – per la prima volta dal 1959, anno della rivoluzione cubana – delle reciproche ambasciate. Tutto quello non era ancora la fine dell’embargo americano contro l’isola, ma ci si stava avvicinando al traguardo.
Lo storico viaggio di Obama a Cuba nel marzo 2016 aveva fatto ben sperare e a Cuba erano tornati i turisti yankee come un tempo, colorando le città dell’isola con cartelli e cartelloni bilingue all’insegna dell’amicizia pur nel rispetto delle proprie diversità. Grazie a Trump, siamo invece fermi a “Il nostro agente a L’Avana”, romanzo di Graham Greene del 1958.

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