Con il bilancio demografico aggiornato a giugno, l’Istat ci permette di fare una sorta di primo preconsuntivo dell’anno che si va concludendo. Un preconsuntivo che presenta almeno tre elementi di novità.
Il primo riguarda la popolazione nel suo complesso. Che cala di circa 82 mila unità, per arrivare cioè a fare oggi dell’Italia un paese di sessanta milioni e mezzo di abitanti. L’aspetto nuovo è però che il decremento sembra riprendere la sua corsa, a farsi più sostenuto: nei primi sei mesi dello scorso anno, infatti, il cosiddetto depopolamento fu di 73 mila unità, anche se l’anno prima sfiorò quota centomila (ed era la prima volta che ciò succedeva in tempo di pace).
D’altronde la strada appare tracciata: nel 2045, prevede l’Istat, la popolazione dovrebbe essere sotto i 59 milioni (mentre le probabilità di una crescita sono pari solo a un sette per cento) e sotto i 54 milioni nel 2065. In termini geodemografici, l’Italia era il decimo paese più popoloso del mondo nel 1950 ma sarà il trentatreesimo alla metà di questo secolo.
Il secondo aspetto riguarda le nascite: con 220 mila nati, il primo semestre sembra aver frenato la sua corsa sul piano inclinato della denatalità, grosso modo stabilizzandosi sui livelli natalistici dello scorso anno (quando sempre nei primi sei mesi le nascite furono 222 mila: il 2016 già venne considerato un anno “limite” per quanto riguarda la natalità e per il presidente dell’Istat Alleva un numero così basso non si registrava dalla metà del Cinquecento, quando la popolazione italiana era un quinto di quella attuale).
Il terzo aspetto tocca invece il numero dei decessi. Che invece è cresciuto in modo consistente, passando dai 314 mila morti della prima metà dello scorso anno ai 343 mila del 2017: un aumento del nove per cento. È fisiologico che in una società che invecchia il numero dei decessi cresca (anche se il tasso standardizzato di mortalità cala ampiamente: meno 23 per cento tra il 2003 e il 2014). Ma per effetto dell’ingresso nella terza e quarta età delle cospicue generazioni dei baby boomer (i nati dal dopoguerra ai primi anni settanta), il numero dei morti – prevede l’Istat – passerà dai 671 mila del 2025 ai 768 mila del 2045 per toccare infine il picco massimo di 852 mila unità nel 2058.
Tuttavia, attualmente il nostro fin troppo consistente aumento dei decessi si concentra in realtà nel mese di gennaio, con 76 mila morti (ventimila in più del gennaio 2016, pari a un più 35 per cento). La risposta a tale concentrato picco del numero dei deceduti la fornisce l’Istituto Superiore di Sanità, che ha rilevato soprattutto nelle due ultime settimane di dicembre 2016 e nelle quattro di gennaio 2017 una crescita dei decessi degli anziani del quindici per cento (e addirittura del 42 per cento nella settimana di picco, la seconda di gennaio) rispetto al valore atteso e potenzialmente attribuibile all’epidemia influenzale. Un’epidemia dovuta non solo alla particolare aggressività del virus, ma anche alla insufficiente copertura vaccinale degli anziani (sotto il cinquanta per cento, nonostante l’obiettivo minimo dell’Oms e del ministero della salute sia il 75 per cento).
Ma al di là dello specifico episodio è ormai chiaro che l’invecchiamento della popolazione innesca un’inevitabile e crescente fragilizzazione (fisica, psichica, talvolta anche relazionale ed economica) che favorisce ciò che in epidemiologia si chiama “effetto raccolto” (harvesting effect), evocante le immagini quattrocentesche della morte raffigurata come uno scheletro con mantello nero che con la falce impietosamente recide vite umane a più non posso.
Allora c’erano guerre e pestilenze, oggi una popolazione sempre più in là con gli anni e quindi oggettivamente debole dal punto di vista della salute. Per questo motivo, fatti eccezionali o episodici come inverni particolarmente freddi, influenze virulente e con vaccinazioni insufficienti, ondate di calore estive (sarà interessante vedere i numeri dei decessi dell’agosto eccezionalmente canicolare appena trascorso), oscillazioni rapide della temperatura e altri eventi non sempre prevedibili generano picchi inattesi di morti “anticipate” interessanti persone particolarmente defedate e dalla salute compromessa che, probabilmente, sarebbero comunque scomparse nel breve periodo.
Per di più, le condizioni di salute degli anziani italiani – come ha rilevato recentemente l’Istat – in particolare dopo i 75-80 anni, presentano un quadro non soddisfacente, qualitativamente inferiore alla media europea. Sopra gli ottant’anni quasi due terzi (il 64 per cento) dei grandi anziani italiani presentano almeno tre patologie croniche (comorbilità o multicronicità) e quindi condizioni di salute inevitabilmente complesse e rischiose (tali da definire la geriatria come la “medicina della complessità”).
Il saldo naturale del semestre è ovviamente negativo (per 123 mila unità) e superiore di trentamila unità a quello dell’analogo periodo dello scorso anno. Tuttavia, il segno meno oggi è dovuto essenzialmente all’invecchiamento e alla crescente massa di valetudinari che trascina, una massa longeva ma al tempo stesso fragile, dalle non ottimali condizioni di salute e quindi facilmente soccombente a condizioni ambientali ostili o critiche.

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