Cari Maurizio e Lucio, ho letto con interesse le vostre riflessioni su Venezia pubblicate su ytali. Comprendo e appezzo il vostro approccio. C’è rigore e, dove c’è rigore, c’è pensiero. In sostanza la vostra è una critica – tra il provocatorio e il rassegnato – alle strategie di pura conservazione di ciò che resta di Venezia.
Risparmiamo tempo, voi dite: affrettando l’ineluttabile fine della città, riduciamo lo strazio. Confesso che anch’io in passato ho coltivato questo ragionamento (l’ho anche proposto in pubblico) e ritengo anche ora che attraversare questa posizione sia necessario per distaccarsi delle nebbie sentimentali che avvolgono la nostra città, e guardarla lucidamente.
Seguendo il vostro ragionamento, supponiamo di essere arrivati “alla fine”. Che cosa resterà di questa città alla fine della grande orgia speculativa che la uccide? Delle pietre, un giocattolo delicatissimo dai costi sempre più esorbitanti per essere mantenuto (MoSE insegna), una macchina per far soldi – di cui ai locali, come già ora, andranno solo briciole – e per far da traino a un’economia di un hinterland ridefinito in funzione della rendita turistica. Con tutte le conseguenze del caso: impoverimento della varietà del tessuto economico e sociale, precarizzazione e dequalificazione del lavoro, alienazione, degrado culturale e civile, passivizzazione ed emarginazione del nostro territorio (non solo di Venezia) dalle strategie di proiezione nel mondo.
Venezia e Mestre trasformate definitivamente in non città: Mestre come città mai nata, Venezia come post città. Entrambe entro un’area metropolitana ridotta a un’unica grande periferia senza centro.
Venezia sarà allora solo uno spazio post. Tecnicamente, uno spazio spettrale (lo avete considerato?). Questa sua “vera natura” potrà svelarsi di colpo, in ogni momento: il turista, rapito dal dolce tremolio di un palazzo sull’acqua, all’improvviso potrà sentire il brivido di chi ha visto un fantasma.
La postcittà che vediamo già ora profilarsi evoca fatalmente il vuoto. Suscita perciò in chi la gestisce una coazione a riempire: così perfino Benetton – o chi per lui – s’ingegna a inventarsi improbabili attività culturali nell’ex Fontego dei Tedeschi adibito a sagra del lusso.
Sono esorcismi che, lungi da eliminarlo, sortiscono l’effetto opposto, di far risaltare il vuoto. Come succede quando si fa qualcosa per “ammazzare il tempo”: l’effetto è quello di renderlo ancora più noioso e alieno.
L’idea di fare a Venezia piazza pulita di ogni residuo vitale può anche essere percepita come liberatoria, perché consente di formulare il pensiero: “così poi possiamo cominciare daccapo”. Ma solo superficialmente.
L’azione di chi ha fatto tabula rasa non è realmente libera, perché viene dopo il dopo. È in reazione al vuoto che il dopo lascia davanti a sé. Non è un’azione iniziale: deriva dall’obbligo a riempirlo. Che genere di azioni può nascere da questa situazione? Al massimo uno sperimentalismo, un rimestare continuo di “belle pensate” che non riesce ad andare oltre l’orizzonte del postremo.
Ma forse voi non intendete andare oltre, guardare a dopo il dopo. Solo affermare la fine come tale, la sua valenza catartica, tenendo distinto lo “smontaggio” finale della città che proponete da ogni prospettiva di rimontaggio. Ma così voi proponete la fine di Venezia come evento.
In questo siete perfettamente in sintonia con il tempo in cui viviamo, in cui i fatti vengono eclissati dagli eventi. La speranza, che voi adombrate, che la fine di Venezia possa, oltre il suo evento, assumere una qualche valenza esemplare, educativa è – scusate – un po’ ingenua: gli uomini non imparano mai davvero dai loro errori.
Forse – raramente – possono imparare qualcosa dai loro successi.
Ma questo ci porta a riflettere sull’evento. Che cos’è nella sua essenza? E-viene, si trae compiendosi e scomparendo insieme nella propria puntuale attualità. La sua consistenza sta nel suo passare. Da che cosa e-viene l’evento? Dal vuoto in cui immediatamente ritorna. È prodotto della dialettica del vuoto, il quale, come tale, impone di essere riempito, ma senza essere smentito, negato come vuoto.
Diciamolo chiaro allora: l’evento nella sua essenza è un riempitivo.
Tutti gli spazi oggi si organizzano intorno alla diafana puntualità degli eventi. Perché? Perché la globalizzazione ci ha indotto a percepire ogni città, ogni luogo, come location, scenario vuoto che – come tale – pretende di essere riempito. E questo allora sarebbe il nostro destino: riempire vuoti, senza metterne in discussione il predominio. Produrre non pieni, ma riempitivi: non fatti, ma eventi. Non qualcosa che resta, ma qualcosa che non deve restare.
I fatti (le res gestae) hanno una loro pienezza, sono compiuti per essere ricordati. Si radicano e prendono consistenza grazie alla loro reciproca sempre viva connessione dialettica. In tal modo si conquistano un loro posto nella memoria, nelle sequenze delle storie. Gli eventi invece sono staccati tra loro: ciascuno è autoreferenziale. Possono essere anche contigui e sincronici, ma il loro legame è esteriore e non interagiscono in alcun modo tra loro. Fanno la loro apparizione in un presente immemorabile e, mentre vengono a essere, si tolgono.
Questo perché nella lotta tra tempo e spazio – tra dentro e fuori – la globalizzazione ha fatto vincere il fuori (l’esteriorità) – lo spazio – il quale, essendo vuota disposizione a contenere, impone appunto di essere riempito, ma tollera solo che questo sia fatto da riempitivi, da fatti che non siano davvero fatti – per non essere sopraffatto e negato nella sua essenza dalla loro autentica pienezza fattuale – ma da aborti di fatti, quali sono gli eventi.
Siamo passati, senza rendercene conto, dal servizio attivo della memoria alla soggezione passiva alla tirannia del vuoto. Platone diceva che gli uomini sono “marionette nelle mani degli dei”. Ora forse di noi direbbe che siamo “marionette nelle mani degli spettri”.
Non mi stancherò di ripetere che quello che succede a Venezia è simbolo di ciò che accade nel mondo, lo annuncia e lo anticipa in modo eclatante. Perciò è interessante pensare su Venezia. Secondo me Venezia divenuta definitivamente scenario sarebbe un prezioso trofeo della vittoria planetaria del vuoto, del suo potere di assoggettare tutto a vacua figura della sua spettrale dialettica.
Ma quale pensiero, quale principio può dirsi immune e non assoggettabile alla “dialettica del vuoto”? Solo la relazione. Essa non è una figura della dialettica, ma la dialettica stessa, in carne e ossa, di cui quella del vuoto è solo l’ombra spettrale. La relazione esiste, infatti, solo in quanto processo dialettico sempre in atto. Come tale, cioè come relazione in atto, vivente, è feconda, perché produce costellazioni di fatti che formano articolazioni di storie e racconti di senso.
Se vogliamo sottrarci alla tirannia del vuoto dunque dobbiamo impegnarci a sviluppare non sterili eventi, ma relazioni, generatrici di fatti e del loro contesto di senso. La creazione e la pratica delle relazioni, la rielaborazione e il racconto della loro viva dialettica, è l’attività che noi chiamiamo di cittadinanza. Quest’attività costituisce la sostanza della la città.
A Venezia quest’attività di cittadinanza si è ridotta al lumicino, ma dà segni di non volersi spegnere. È su questa brace ricoperta di cenere che bisogna soffiare, invece che, escogitando eventi – e anche la postcittà che voi provocatoriamente/rassegnatamente prefigurate lo sarebbe – inviare al nulla segrete preghiere e impetrazioni.
Forse è meglio non avere “progetti per la città”, ma solo uno di come stare insieme, un progetto di cittadinanza che abbia come fine di rimettere nelle mani dei cittadini, per quanto è possibile, i fili (i linguaggi) della realtà, affinché, intrecciandoli in modo nuovo, essi possano riavviare la dialettica che fa vivere la città – realtà, rigenerarne il senso. In modo che essa possa essere un infinito incubatore di fatti e di storie, non un evento invano riempito di eventi.
Il progetto di cittadinanza consapevole che stiamo proponendo a Venezia ha questo fine. Riguarda la nostra città ma guarda al mondo, alla lotta che in esso sta avvenendo tra dentro e fuori tra tempo e spazio.
Lo sviluppo della dialettica relazionale e la rigenerazione del suo senso è la condizione dell’esistenza di ogni città e di ogni luogo, ma di Venezia in modo speciale, perché Venezia è una città acrobatica, costruita in uno spazio impossibile. Per viverci, da sempre, bisogna saper darsi motivazione e volontà speciali.

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