Venezia, ancora qualche carta da giocare

Per non smontare Venezia, la formazione e l'innovazione possono attarre nuove economie e nuovi residenti. La risposta di Giuseppe Saccà a Busacca e Rubini.
GIUSEPPE SACCA'
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Venezia è da smontare? All’articolo di Busacca e Rubini rispondono alcuni commenti che guardano al “discorso su Venezia” a partire proprio da questa amara riflessione. Dopo Monica Calcagno e Giovanni Montanaro, segue Giuseppe Saccà: formazione e innovazione per nuove economie e nuovi residenti.

Busacca e Rubini avanzano una proposta provocatoria? Certamente sì, perché “deportare” gli ultimi veneziani residenti non può suonare altrimenti. Ma in fondo, come sottolineano gli stessi autori, non è altro che un’operazione pianificata di quanto sta accadendo de facto e che è ben presente a tutti: specializzazione della città storica nell’industria turistica con tutte le esternalità negative che oramai comporta.

Mi spingo a dire inoltre che i due autori sono troppo ottimisti per ciò che concerne Mestre poiché dubito fortemente che una Venezia esclusivamente turistica non avrà ricadute pesanti anche per la salvezza della terraferma. Basta sfogliare i giornali di questi ultimi mesi: gli unici investimenti che si muovono nel centro abitato (Porto Marghera fa sempre storia a sé) sono rivolti all’industria turistica.

Certo i quotidiani non sono la fonte più accurata a precisa che ci sia, una questione di tale importanza meriterebbe infatti uno studio approfondito, ma la sensazione è questa. Forse anche il declino commerciale di Mestre è un passaggio per arrivare all’apertura di servizi dedicati alla domanda turistica come già accaduto a Venezia.

Il “buco” dell’Ex Umberto I credo sarà la prova del nove: se anche in questa zona non si riuscisse che a edificare un paio di alberghi allora il trend sarebbe inequivocabile. E non a caso si sono letti già dei commenti che immaginano una Mestre che da quartiere dormitorio di Porto Marghera diventa quartiere dormitorio di una Venezia solo turistica.

Gli autori sostengono che sia lo stesso Florida, cantore della creative class, a suonare le campane a morto della sua stessa creatura. Dunque perché insistere su questa “classe” con tutte le politiche a contorno che da anni si leggono nei libri?

Io credo che la creative class sia solo una parte di quelle che potremmo definire le professioni dell’innovazione. Quindi se puntassimo “solo” alle professioni creative faremmo poca strada, ma se partissimo da un insieme più grande forse… Un insieme che ancora oggi è considerato vitale per generare valore aggiunto.

Basti pensare agli scritti di Enrico Moretti sulla nuova geografia del lavoro. Mi preoccuperei molto di più se Moretti dicesse “mi ero sbagliato”, ma fino ad ora i suoi studi rimangono validi e non confutati.

La vera domanda è se Venezia – metropolitana – abbia un numero adeguato di professionisti dell’innovazione e se stia attuando politiche atte a implementarli. Al riguardo rimando a uno studio della Fondazione Gianni Pellicani al quale ho collaborato nel 2014 dove si trovano molti numeri e suggestioni al riguardo, studio dove emerge chiaramente come la creative class sia una piccolissima parte di un insieme più grande.

Ciò non toglie che alcune riflessioni di Florida debbano essere prese seriamente in considerazione, soprattutto su temi quali la gentrification o ancor più sulle enormi diseguaglianze in fatto di reddito e tutele tra lavoratori autonomi e dipendenti.

E quindi: su quale industria puntare per rintuzzare il turismo e rendere Venezia una città innovativa?

Brugnaro aveva ragione, la chiave è Boston. Ossia formazione e università. Il problema è mettere in essere politiche conseguenti a tali enunciazioni. Uno scenario sul quale si gioca una partita molto complessa, anche a livello italiano.

I dati sono impietosi. La media del numero di anni di frequenza scolastica ci restituisce un’Italia abbondantemente dietro a tutti i partner europei, agli Usa e al Giappone. Ma ancora più evidenti sono le differenze nell’istruzione terziaria, cioè nei livelli di formazione universitaria e post-universitaria.

Se consideriamo i dati degli ultimi dieci anni siamo passati solo dall’11 al 15 per cento di laureati sul totale della popolazione tra i 25 e i 69 anni. Nel 2015 in Germania la quota era superiore al 25 per cento, in Francia del 30 per cento e negli USA siamo a livelli che superano il 42 per cento, quasi il triplo dell’Italia (dati Ocse).

L’economia mondiale è sempre più esigente, la formazione degli individui, le loro capacità e competenze sono elementi discriminatni per lo sviluppo del sistema produttivo del terzo millennio. Ecco quindi un tema italiano prima ancora che veneziano.

La formazione universitaria può essere la chiave per attrarre talenti, leva a cui fare seguire politiche adeguate per trattenerli (casa, servizi, ecc.).

Venezia dunque città degli studi e dell’innovazione? Venezia (e Mestre) si salvano riconvertendole alle Università? Vecchia e pazza idea. La mente corre al celebratissimo Istituto Gramsci. Ma forse si può andare ben più indietro. Discutendone con Cesare de Michelis, quest’ultimo mi ricordava infatti come se ne parlasse già negli anni Sessanta e mi faceva il nome, ad esempio, di Renzo Sullam.

Il parlare di formazione e università però non può essere scisso da un capitolo molto poco esplorato nella nostra città, ossia la cosiddetta terza missione, che si interseca con temi di vitale importanza quale il capitale sociale. A Venezia alcuni centri studi e non solo si stanno interrogando, ma il dibattito è ancora agli albori.

Ritornando alla provocazione di Maurizio e Lucio, credo che convertire Venezia in una città ad alto tasso di formazione/innovazione potrebbe generare nuove economie e nuovi residenti. Nuovi veneziani, magari non bravissimi a parlare in dialetto, magari incapaci di tenere un remo in mano, di distinguere tra una sanpierota e un sandolo o, ancora peggio, un puparin, di realizzare a occhi chiusi dei nodi d’anguilla per issare una vela al terzo, ma capacissimi di infondere nuova linfa alla città.

Si stima infatti che città di media taglia che attuano determinate politiche (qui) vedranno crescere il numero dei loro abitanti. E non in Estremo Oriente o nei paesi in via di sviluppo, ma nella vecchia Europa: da qui al 2030 Dublino crescerà del 25 per cento, Oslo del 20 per cento e Zurigo del 19,9 per cento, per citare alcuni esempi (dati Cresme).

Insomma, prima di isolarsi e votarsi alla conservazione qualche carta da giocare c’è ancora. Forse è l’ultima mano, ma ci penserei prima di passare.

La foto del titolo è di Giorgio Bombieri.

Venezia, ancora qualche carta da giocare ultima modifica: 2017-12-15T15:58:08+01:00 da GIUSEPPE SACCA'
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