Bibi e la sua verità. Su Gerusalemme. Sul processo di pace. Le manifestazioni che stanno infiammando il mondo musulmano, da Giakarta a Beirut, non scalfiscono le certezze del premier israeliano. La prima delle quali è la seguente: riconoscere Gerusalemme capitale di Israele è “riconoscere la verità” ed è dunque “un passo verso la pace”, ha affermato Benjamin Netanyahu, incontrando nei giorni scorsi a Bruxelles i ministri degli esteri dell’Ue.
Per tremila anni Gerusalemme è stata la capitale degli ebrei, dai tempi di re Davide. Noi non abbiamo mai perso il collegamento alla nostra storia. Un collegamento che è stato negato dalle forme dell’Onu e dell£Unesco e dalle risibili decisioni che cercano di negare la verità storica
insiste Netanyahu.
Gerusalemme è stata la capitale di Israele per gli ultimi settant’anni. Quanto il presidente Trump ha fatto, è mettere i fatti sul tavolo. La pace è basata sul riconoscimento della realtà. Ora c’è uno sforzo dell’amministrazione Usa di portare avanti una nuova proposta di pace. Penso che dovremmo dare un’opportunità alla pace. Guardare ciò che viene presentato e vedere se si può andare avanti.
Il rischio è che la “miccia Gerusalemme” faccia da detonatore ad una guerra di religione che non si fermerebbe alla Terrasanta e al Medio Oriente. E a scatenarla non sarebbe certo Abu Mazen, il moderato presidente palestinese, né i leader arabi più legati all’Occidente (l’egiziano al-Sisi, il sovrano hashemita, Abdullah II, il principe ereditario saudita Mohammad bin-Salman…) ma un rinvigorito fronte integralista.
La Verità. Il Tempo. Principi assoluti che segnano pesantemente, rendendolo unico, il conflitto in Terrasanta. Netanyahu parla di una Gerusalemme capitale degli Ebrei da tremila anni. Un dotto islamista, non un pericoloso e ignorante fondamentalista, ribatterebbe citando altri testi sacri, o storici, per affermare che quella Terra era abitata dagli arabi ben prima che si manifestassero le dodici tribù di re Davide.
Di fronte a queste “verità”, la politica e la diplomazia possono davvero ben poco. Perché a vincere, in ambedue i campi, è la “terra” non lo “stato”. È il sogno del “Grande Israele”, come quello della “Grande Palestina”, che spazza via ogni pensiero che si fondi sul riconoscimento dell’altro da sé.
È un problema culturale prim’ancora che politico. Perché tocca nervi scoperti, ferite ancora aperte. Perché quei “sogni” celano incubi. E desideri di possesso assoluto.
È questo, a ben vedere, ciò che unisce gli opposti, che connota i fondamentalismi comunque religiosamente declinati: la sacralità della “terra” proprio perché tale non è materia negoziabile, perché nessun politico può sostituirsi a Dio. E chi lo fa compie un atto sacrilego da punire con la morte.
Così alcuni rabbini ultraortodossi lessero, per non dire giustificare, l’assassinio dell’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin per mano di un giovane zelota dell’ultradestra ebraica, Yigal Amir.
Per costoro, la colpa inescusabile di Rabin non era quella di aver stretto la mano a Yasser Arafat o messo a repentaglio la sicurezza d’Israele con gli accordi di Washington (settembre del 1993). La sua colpa era di essersi elevato a livello di Dio, negoziando ciò che nessun uomo può negoziare: Eretz Israel, la “Sacra Terra d’Israele”.
Tempo fa, nel perorare, inutilmente, un negoziato con i palestinesi, i più importanti e conosciuti scrittori e intellettuali israeliani, da Amos Oz a David Grossman, da Abraham Yehoshua allo storico Zeev Sternhell e tanti altri, in una lettera aperta rivolta non solo ai governanti ma all’opinione pubblica israeliani, affermarono un concetto che spiega molto della psicologia di una nazione e della enorme difficoltà a fare i conti con qualcosa di più profondo, vissuto, sofferto di un sacrificio territoriale: cedere dei territori, era la sostanza della riflessione, seppur doloroso lo è molto meno, per noi israeliani, dell’ammettere che la nascita del nostro stato ha significato la “Nakba” (catastrofe, ndr) per un altro popolo che su questi territori vive.
È così. Ed è per questo che ho sempre ritenuto illusorio pensare, come pure spesso nei tanti momenti di stallo del negoziato era stato detto e scritto, che un accordo di pace poteva realizzarsi solo se l’America, la comunità internazionale generalmente intesa, fossero intervenuti sulle due parti per “imporre” un accordo.
No, nella “terra delle verità assolute”, più che in ogni altra parte del mondo, quest’idea non solo non è praticabile ma se anche vi fosse qualche leader mondiale, ma all’orizzonte non se ne vedono, disposto a rischiare, finirebbe in tragedia.
Per questo è importante il lavoro dal basso, per questo ritengo un autentico boomerang qualsiasi appello al boicottaggio culturale d’Israele, cosa che fa estremo piacere a quanti, in Israele, hanno costruito la psicologia di una nazione attorno al concetto di “trincea”: una trincea accerchiata da un mondo, non solo arabo, del tutto ostile.
Senza memoria non c’è futuro, ammoniva Elie Wiesel. Ma un futuro condiviso non può non passare da una rivisitazione condivisa della memoria storica. Ecco perché è encomiabile, anche se non fa notizia, il lavoro di insegnanti, accademici israeliani e palestinesi che hanno provato a scrivere un libro di storia che tenesse insieme, nella doppia versione e su ogni passaggio fondamentale nel vissuto dei due popoli, tutti i momenti topici dalla Dichiarazione di Balfour (che celebra i settant’anni) ad oggi.
È un impegno nobile, doloroso, ma è anche un esercizio liberatorio perché nella discussione, nella lettura di avvenimenti che hanno cambiato la vita di due popoli e dell’intero Medio Oriente, emerge ciò che Oz rimarca nel suo libro “Contro il fanatismo”. Scrive Oz rivolgendosi agli “europei benpensanti, gli europei di sinistra, gli europei liberali” che, “come è noto, hanno sempre bisogno di sapere per prima cosa chi sono i buoni’ e chi i cattivi’ in un film…”.
Ma, avverte Oz,
non è così semplice, amici miei, non è così semplice perché il conflitto israelo-palestinese non è un film western. Non è una lotta fra bene e male, la considero piuttosto come una tragedia antica, nell’accezione più precisa che la parola assume: lo scontro fra un diritto e un altro, fra una rivendicazione profonda, pregnante, convincente, e un’altra assai diversa ma non meno convincente, pregnante, non meno umana…
Se questa è, come credo che sia, la natura più profonda, intima, di questa tragedia, ne consegue che il lavoro da fare non può limitarsi all’elaborazione, pur necessaria, di un compromesso possibile su tutte le grandi questioni irrisolte nel conflitto israelo-palestinese: lo status finale di Gerusalemme, il controllo delle risorse idriche, i confini, la smilitarizzazione di un ipotetico, sempre più ipotetico, Stato palestinese, il diritto al ritorno dei rifugiati, etc.
La pace o nasce da una rielaborazione collettiva che investe anzitutto le giovani generazioni, israeliana e palestinese, o non sarà. Terra di simboli, è la Terrasanta. Terra dove le parole hanno un peso particolare. Tanto che si fa spesso fatica a pronunciarle. Così è per i palestinesi che ancora oggi, specie i loro leader più radicali, preferiscono parlare di “entità sionista” o di “creatura artificiale”.
Così come, sul versante opposto, i palestinesi vengono definiti tali come individui ma, salvo per una élite intellettuale a Tel Aviv o Haifa, la somma di quegli individui non fa un “popolo”, men che meno una “nazione”.
Uno dei grandi d’Israele, Golda Meir, ebbe a dire che “la Palestina era una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Golda fu una grande primo ministro. Una socialista, che credeva nei valori della libertà e della giustizia sociale. Ma in quell’affermazione c’era una forzatura culturale e identitaria che, nell’intenzione, serviva a rafforzare un ragionamento politico rivolto al popolo ebraico e al mondo: noi non siamo degli usurpatori, perché non c’è niente e nessuno da usurpare.
Così non è.
Non si tratta di riconoscere ciò che è “fisico”: in quella terra vivono milioni di persone, i palestinesi, che sono cresciuti nella convinzione di essere stati espropriati delle loro case, delle loro città, della loro identità nazionale. E ancor oggi, i bambini palestinesi studiano sui libri di testo nei quali Israele semplicemente non esiste, così come nelle cartine geografiche che acquisti in Israele non esiste la West Bank ma la Giudea e la Samaria, i nomi biblici della Cisgiordania.
La tragedia infinita nasce dal permanere della feroce distinzione tra un “loro” e un “noi”. Una considerazione, quest’ultima, che Sari Nusseibeh, già rettore dell’Al-Quds University a Gerusalemme Est, l’intellettuale più aperto tra i palestinesi, esplicita a conclusione del suo libro: “C’era una volta un paese. Una vita in Palestina” (Il Saggiatore):
I dualismi di buono e malvagio, bianco e neo, giusto e sbagliato, all’insegna di ‘noi’ e ‘loro’, dei nostri ‘diritti’ e delle loro ‘usurpazioni’, hanno ridotto a brandelli la Terrasanta. La sola speranza ci viene quando diamo ascolto alla saggezza della tradizione, e dalla consapevolezza che Gerusalemme non può essere conquistata o conservata con la violenza. È una città di tre fedi diverse ed è aperta al mondo….Negli antichi, intricati vicoli di Gerusalemme, stupore e prodigi sono sempre dietro l’angolo, pronti a ricordarti che questo non è un posto comune che un rilevatore può misurare con la sua asta graduata. È una terra troppo sacra per questo.
Nel discorso di Nusseibeh, esponente di una delle tre grandi famiglie storiche palestinesi di Gerusalemme, assieme a quella degli Husseini e dei Nashashibi, il concetto di “sacro” ha un’accezione progressiva, inclusiva. Un antidoto contro la bramosia del possesso assoluto.
Un percorso di pace dovrebbe ricominciare da qui. E attorno al tavolo non dovrebbero sedersi solo diplomatici e politici, ma la prima fila dovrebbe essere assegnata a scrittori come Oz o a storici come Nusseibeh.
Questo sì che sarebbe un fecondo “Nuovo Inizio”.

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