Pietà quanta se ne vuole, ma non lodate le cattive azioni: date loro il nome di male.
Fëdor Dostoevskij
La maschera dell’infanzia violata e infelice non cambia mai. Valeva per il piccolo Antoine Doinel, protagonista dell’opera “I quattrocento colpi” del 1959 di François Truffaut, e vale anche oggi per il dodicenne Alyosha di “Loveless”, ultimo film del regista russo Andrey Zvyagintsev, vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes, candidato agli Oscar quale miglior film straniero e uscito nelle sale italiane il 6 dicembre scorso. Cambiano, certamente, le condizioni sociali e storiche, lo spirito del tempo e il destino dei singoli, ma lo sguardo, quello no, non cambia.
È smarrito e determinato quello di Antoine, che decide di scappare da genitori inetti e indifferenti, correndo a perdifiato verso un mare che sa di sogno, ma che, nel contempo, rappresenta una soglia. Probabilmente verso l’età adulta, la felicità, o, come un giocatore stanco, verso l’ignoto.
Ed è impietrito, ma forte, anche lo sguardo di Alyosha di “Loveless”, che vuole sfuggire all’odio dei genitori – ormai persi in vite “affettive” parallele – decisi a divorziare e ad abbandonarlo in orfanotrofio.
Entrambi i volti, di Antoine e Alyosha, immortalati dalla cinepresa mostrano una consapevolezza del dolore che i genitori di Alyosha non possiedono. Le inquadrature non sono altro che riflessi di persone incapaci di vedere se stesse e, dunque, anche gli altri.
La ribellione di Alyosha è silenziosa, in aperto contrasto con le voci assordanti dei genitori – Zhenya e Boris – che, tra dolore e ira, manifestano un aperto disprezzo verso il figlio. Ma il dolore del ragazzo è muto, come la neve e il gelo che circondano la casa, invadono le strade vicino a Mosca, divorano la terra e l’anima. Una natura benigna e, nel contempo, matrigna che porta tutti, adulti e bambini, a confrontarsi con i vasti spazi della Santa Madre Russia in cui l’individuo deve trovare una collocazione, un rifugio, pena lo smarrimento. Una disperazione che lo porterà a fuggire senza lasciare tracce. O a lasciarne, come usava fare Hitchcock in alcuni suoi film, attraverso “metonimie”, in questo caso quasi impercettibili (un nastro, l’incavo di un albero), che non vengono colte dai personaggi del film, ormai anestetizzati dall’insensibilità.
In realtà, la ricerca del piccolo Alyosha è uno spunto narrativo che Zvyagintsev utilizza per raccontarci la crisi valoriale della classe media della Russia contemporanea. Perché le sue opere non raccontano mai solo semplici storie, non sono solo “trama”, da sempre considerata “volgare” da Virginia Woolf. Il regista usa lo schema narrativo per dare voce alla rappresentazione concettuale di alcuni temi centrali della vita quotidiana russa. Basti pensare al ruolo dello Stato e della Chiesa, uniti da un patto più politico che religioso, come ha dimostrato con grande maestria in un’altra sua opera di denuncia, “Leviathan”, e alla disgregazione familiare, tema che ricorre non solo in “Loveless”, ma anche nel film “Il ritorno”, vincitore del Leone d’Oro alla 60ma mostra del Cinema di Venezia.
Uno dei primi segni di degrado sociale è dato dalla fragilità e dalla violenza dei rapporti familiari, soprattutto quelli in cui i legami di sangue sono molto forti, partendo dai genitori fino ad arrivare ai nonni, chiusi in un egoismo e in un’anaffettività che non lasciano spazio ad alcuna salvezza. Non si salva neanche la nonna materna di Alyosha, denominata dal padre “Stalin in gonnella”, in contrasto con una classe politica che, proprio su decisione di Putin, nel corso degli anni ha rivalutato in chiave positiva la figura del dittatore.
“Senza amore non si può vivere”, ricordano nel film. Ed è vero. I personaggi delineati dal regista assomigliano, in parte, alle figure delle opere di Dostoevskij. Secondo Stefan Zweig,
non hanno una direzione precisa, non hanno una meta visibile: come ciechi o come ubriachi barcollano e brancolano per il mondo questi uomini adulti […] Sono tutti senza radici e senza meta; hanno nei pugni la forza della loro gioventù, la forza dei barbari, ma l’istinto è confuso dalla moltitudine dei problemi: con le mani piene di energia non sanno dove incominciare, così vogliono afferrare tutto e nulla basta loro.
Disgregati e bipolari, alle prese con una vita vorticosa, anche i personaggi di “Loveless”, incapaci di cambiare e decisi a sbarazzarsi di fardelli e responsabilità, sono costretti a ripetere gli stessi errori anche nelle nuove relazioni affettive, mantenendo un’aridità che potrà portare solo ad infliggere altro dolore agli altri, in un loop infinito di apatia e disamore.
Un altro punto cardine della poetica di Zvyagintsev è la visione del ruolo della Chiesa ortodossa. Secondo il regista, come aveva già ampiamente denunciato in “Leviathan”, anche la Chiesa non può salvarsi perché i valori di cui è foriera sono spesso di facciata. La presenza di una chiesa vicino alla casa in vendita dei genitori, definita da uno dei potenziali compratori “una cosa sempre giusta”, non può essere di alcun conforto. Nei dialoghi quotidiani la si percepisce come una patina, definita dalla madre del ragazzo la “sharia cristiana”, una finzione valoriale in cui non vi è alcun interesse per il singolo individuo, ma solo la necessità di mantenere le “apparenze cristiane” (“il divorzio avviene solo per cause naturali”, ricorda uno dei personaggi del film) per poi disattenderle tra le mura di casa o nelle segrete stanze. Il supporto della Chiesa nella ricerca del bambino sarà nullo, esattamente come quello dello Stato, che suggerisce di attendere il ritorno del bambino e, intanto, in un automatismo di burocrazia e indifferenza, delega le complesse operazioni di ricerca ai volontari. Dunque, alla comunità.
L’unica “entità” che viene risparmiata dal giudizio severo del regista sarà proprio la comunità, quel senso di un “noi collettivo” ormai smarrito e rimpianto da alcuni della generazione cresciuta nell’ex Unione Sovietica. Con un senso di umanità sorprendente, sarà lei a svolgere il ruolo genitoriale cui hanno rinunciato tutti gli altri. Quindi, non tutto è perduto. Sullo sfondo, intanto, aleggiano gli scandali politici ed elettorali, la corruzione dilagante, le figure dell’opposizione, come Boris Nemtsov, citato durante un programma radiofonico. Un “rumore” che non deve essere messo a tacere.
Ed è questo uno dei compiti più importanti che la settima arte nella Russia di oggi può e deve svolgere. Dopo i gloriosi anni sovietici della cinematografia – e il pensiero corre subito ad Ėjzenštejn – e la generazione dei grandi registi, tra cui Tarkovskij, Sokurov, Mikhalkov e molti altri, si fa strada una nuova forma espressiva: tra i pionieri di questa svolta rientra proprio Andrej Zvyagintsev. Con “Il ritorno” segna una nuova pagina nella cinematografia russa che presto si diffonde a livello internazionale. Secondo Alena Shumakova (“Cinema russo contemporaneo”, Marsilio Editori, 2010),
il tratto principale del cinema d’autore russo all’epoca di Putin è indubbiamente caratterizzato dalla freddezza […] simile all’anestesia, al vetro coperto di brina. La lente magica attraverso la quale i giovani film-maker guardano il mondo è indubbiamente un pezzo di ghiaccio.
Questo è lo stimolo giusto per adempiere ad una “missione”: raccontare la realtà contemporanea sociale, culturale e morale, non filtrata dal mezzo televisivo intriso di propaganda e dai talk show, per “farci i conti” e perché questi tempi così “gravi” lo richiedono. Secondo Shumakova, “la realtà sociale russa negli anni zero si è congelata, sotto l’espressione imperturbabile degli occhi glaciali di Putin.” E così ha reagito il cinema. “La gelida atmosfera della nuova storia del Paese diventa soggetto del giovane cinema d’autore.”
Dunque, al cinema d’autore resta solo il compito di “raccontare”? Al contrario. Il cinema deve divenire coscienza collettiva di elaborazione e denuncia del dolore e dell’ingiustizia sociale. Malgrado la svolta “elettorale” di Putin, sempre più focalizzato sui giovani, e i continui richiami ai valori della solidarietà reciproca e dell’amore per il prossimo, se si osserva il mondo messo in scena da Zvyagintsev, nell’individuo non si ritrova alcuna traccia di tutto ciò. E chi, per cinismo e indifferenza, sembra salvarsi, in realtà, paradossalmente, scompare.
Forse, un giorno, un popolo in grado di ritrovare dal basso la propria unità di fronte alla routine ordinaria del dolore saprà scegliere la propria strada, riconquistando il senso di una coscienza collettiva e affrontando la paura della dittatura e dell’ignoto. Ma oggi, anche in vista delle elezioni presidenziali del mese di marzo, non è, purtroppo, ancora possibile.

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