Catalogna, i dilemmi del dopo voto

ALDO GARZIA
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In Catalogna – sette milioni di abitanti, cinque milioni di elettori – prevalgono i partiti separatisti. Junts per Catalunya ed Esquerra republicana hanno conseguito la maggioranza dei seggi nelle elezioni del 21 dicembre. Sommando i due partiti si raggiunge il 43,1 per cento e 66 scranni, con punte massime nelle province di Tarragona, Girona, Lleida e punte minime a Barcellona e nel suo hinterland, a conferma che – come nel voto britannico sulla Brexit – le zone rurali non metropolitane sono quelle più estreme e radicali. Questa volta, a differenza della scorsa legislatura, i due partiti possono fare a meno della Cup, il gruppo della sinistra anticapitalista che in precedenza era addirittura decisivo per gli equilibri del governo regionale: con i suoi 4 seggi si raggiungerebbe però la maggioranza assoluta di settanta.

Il risultato politico è chiaro. Il fronte pro-indipendenza ottiene una netta maggioranza di seggi: settanta su 135. In percentuale non supera tuttavia il 47,8 per cento dei voti, non ottenendo quindi più del cinquanta dei voti percentuale che sarebbe equivalsa alla piena legittimità politica dell’opzione favorevole alla secessione. Gli unionisti (Socialisti, Popolari, Podemos e Ciudadanos) si sono fermati al 52,1 per cento che, causa un particolare meccanismo di ripartizione dei seggi, non si è tradotto in maggioranza possibile. Il fronte indipendentista puntava invece alla doppia maggioranza: in seggi e in voti. In modo da poter sostenere che la maggioranza dei catalani vuole dire addio alla Spagna unita. Secondo Artur Mas, ex presidente della Catalogna e cervello politico dei separatisti:

Nelle prossime settimane metteremo le basi per l’indipendenza dalla Spagna. Non cederemo: abbiamo vinto con quasi tutto contro. Questo ci dà una forza enorme.

Grazie agli errori di Mariano Rajoy e del suo Partito popolare, che ha scelto la linea dura del non dialogo e della non soluzione politica, le elezioni catalane si sono svolte in un clima inedito e molto teso: articolo 155 della Costituzione in vigore (quello cha ha privato Barcellona dei poteri regionali di autonomia legislativa), diciotto dirigenti politici indagati dalla magistratura per “sedizione antistatale” e tre dirigenti dell’uscente governo catalano in carcere (tra cui Oriol Junqueras, il vicepresidente e leader di Esquerra Republicana), con il presidente Carles Puigdemont in esilio volontario a Bruxelles.

Inoltre, tutti i media spagnoli – salvo poche eccezioni – erano tutti schierati contro l’indipendentismo. A differenza di quello che pensava Rajoy, la “persecuzione” contro i separatisti fin dal tentato referendum dello scorso ottobre ha finito per premiare il loro presunto martirio portando alle urne l’81,94 per cento degli elettori e dando un risultato finale pro indipendenza. In questa occasione – a differenza del referendum farlocco di ottobre – le urne legali e il risultato non possono essere politicamente ignorati, anche se l’Unione europea ha subito fatto sapere che “Bruxelles non cambia posizione”: resta contraria alle velleità secessioniste.

I maggiori sconfitti della tornata elettorale sono i Popolari, ridotti a tre seggi nel parlamento di Barcellona (un in meno addirittura della Cup). I voti centristi e di destra sono andati infatti a Ciudadanos, partito capeggiato a Barcellona dall’aggressiva trentaseienne Inés Arrimadas, avvocato, braccio destro del leader Albert Rivera, che è diventato il partito più votato: 37 seggi. Il Partito socialista (Psc-Psoe) è in flessione sotto il 14 per cento (17 seggi), e perde due punti rispetto alle elezioni di tre anni prima. In declino pure la sinistra di Podemos e di Ada Colau, sindaco di Barcellona, che con la sua posizione “né con il governo, né con gli indipendentisti” è rimasta penalizzata dalla polarizzazione elettorale e politica.

Puigdemont, da Bruxelles, ha subito sferzato i suoi avversari: “Rajoy ha perso il plebiscito che cercava”. E ha proposto un incontro con il premier di Madrid “in territorio neutro” per “avviare un dialogo senza condizioni”. Ipotesi subito rigettata con troppa fretta da Rajoy. Intanto Puigdemont e Junteras sono alle prese con problemi “tecnici” (eletti nel Parlamento catalano potranno assistere alle sue sedute o resteranno imputati in attesa di giudizio?) e dilemmi politici (chi tra loro si candida alla presidenza? ci saranno dichiarazioni unilaterali di indipendenza della Catalogna o si cambierà tattica?). Risolte queste questioni, i numeri per un governo a vocazione separatista ci sono.

Quanto a Rajoy, dovrà decidere il da farsi: continuare nel muro contro muro, come chiede Ciudadanos, o – come gli consigliano i socialisti e Podemos – cercare una soluzione politica al conflitto con la Catalogna che passa inizialmente dalla messa in libertà degli arrestati e dal ritiro dell’articolo 155 della Costituzione.

Grazie all’oltranzismo separatista, si è creato un paradosso: Rajoy è debolissimo a Barcellona ma è fortissimo nel resto della Spagna, dove è considerato il baluardo dell’unità nazionale. Per questo, potrebbe essere tentato da elezioni anticipate per consolidare una maggioranza Popolari-Ciudadanos senza l’appoggio esterno dei socialisti come avviene attualmente. La crisi catalana potrebbe aver già spostato ulteriormente a destra gli equilibri politici spagnoli.

Catalogna, i dilemmi del dopo voto ultima modifica: 2017-12-23T13:56:21+01:00 da ALDO GARZIA
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