La rivoluzione di Francesco? È nel Vangelo

Bergoglio ci parla di una Chiesa non più costantiniana, come quella che vive dentro di noi, non più legata alla tiara del triregno, ma lo fa rivendicando un ordine compiutamente evangelico e rivoluzionario, cioè contro i poteri mondani.
RICCARDO CRISTIANO
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Il fuoco di fila contro l’omelia di Natale in cui papa Francesco ha visto Gesù nei profughi è fatto da politici che parlano di ingerenza e da commentatori che si definiscono ratzingeriani o giovannipaolini che parlano di omelia comunista di un papa comunista. Eppure nell’omelia di Natale del 2012, cioè nella sua ultima omelia natalizia prima di dimettersi, papa Benedetto XVI disse:

Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto (Gv 1,11). Così la grande questione morale su come stiano le cose da noi riguardo ai profughi, ai rifugiati, ai migranti ottiene un senso ancora più fondamentale: abbiamo veramente posto per Dio, quando Egli cerca di entrare da noi? Abbiamo tempo e spazio per Lui? Non è forse proprio Dio stesso ad essere respinto da noi?

Ecco allora che la questione se davvero ci siano dei cattolici che non condividono papa Francesco va posta meglio: davvero ci sono dei cattolici che hanno un problema con il cattolicesimo? Al fine di capire correttamente la portata rivoluzionaria del pontificato di Jorge Mario Bergoglio e soprattutto la sua epocalità è infatti un errore blu quello di compararlo con i pontificati dei suoi predecessori. Non funziona così. Per capire la vera, gigantesca rivoluzione che sta compiendo Jorge Mario Bergoglio bisogna guardare altrove, cioè dentro di noi, dentro le nostre case, nel cuore della nostra cultura. Cominciando, ovviamente, da Dio.

Com’è e chi è Dio per noi? La risposta la conosciamo tutti, individualmente: è un barbuto, anziano ma vigoroso signore, possente e irascibile. La caratteristica più propriamente sua che gli riconosciamo è l’ira. “È un’ira di Dio”: quest’espressione si usa in tantissimi contesti. Lo si dice di un atleta, di un calciatore, di un bambino, come di un conflitto, di una guerra. Dio ci è noto e famoso per la sua ira. E questo non riguarda solo noi, “popolino”. Anche per i grandi, gli eccelsi, i numi tutelari della nostra cultura è così. Chi non hai mai ascoltato le note di un grande Dies Irae? Che sia quello di Verdi, o quello di Mozart, chi non ha sentito almeno una volta le note di uno di questi Dies Irae?

Tutto questo non c’entra con Giovanni Paolo II, o Benedetto XVI, che mai hanno parlato di un Dio feroce, cattivo. Tutto questo è il prodotto della nostra cultura, di un sedimentato ormai millenario e che riguarda noi, ciascuno di noi. E che papa Francesco ha preso di petto, parlando della “rivoluzione della tenerezza di Dio”. È proprio una rivoluzione! Una rivoluzione che entra nelle nostre case, nei nostri costumi, nei nostri modi di dire. E scuote la nostra cultura. La rivoluzione della tenerezza di Dio è la logica prosecuzione dell’altra rivoluzione, quella della misericordia.

Certamente la misericordia di Dio non è una scoperta, un’invenzione di Bergoglio, basti ricordare che Giovanni Paolo II istituì la festa della Divina Misericordia. Ma, appunto, per noi è una parentesi che si apriva e si chiudeva con la festa di un giorno l’anno. Negli altri 364 giorni dell’anno Dio tornava irascibile, violento. Bergoglio invece ha legato alla misericordia l’identità della fede, della cultura e della rivoluzione cristiana.

Andate dunque a imparare il significato di questa parola: Misericordia io voglio, e non sacrificio (Mt 9,13)

Queste parole del Vangelo chi le ricordava? Chi le ripeteva invece della più nota espressione “ira di Dio”? La misericordia, la Divina Misericordia, è anche politica. È il Vangelo che ci chiede di amare il nostro nemico, o no? Non è il Vangelo quel testo dove è scritto che Dio “fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”? Dunque se non è violento, come fu il dio Baal o altri, Dio è indifferente, equipara giusto e ingiusto? No, ci dice che il circuito della violenza si rompe solo con la riconciliazione. Altrimenti la faida seguiterà uguale a se stessa, senza motivo, per sempre.

La misericordia politica è il dialogo, altra parola insopportabile per i cattolici che criticano papa Francesco. Queste parole, forse, sono il programma del pontificato di Jorge Mario Bergoglio e ci aiutano a capire quanto importante sia la ritrovata centralità del testo evangelico nel suo ministero. Perché noi, i consumatori quotidiani di una cultura che si ritiene intrisa di cristianesimo e cattolicesimo, non parlavamo di Vangelo quasi mai prima che arrivasse Bergoglio. E questo è un altro tratto del carattere rivoluzionario di questo pontificato. Ecco allora un primo elemento per capire perché questo pontificato sconvolge: capovolge! Capovolge un universo di cultura sedimentata da secoli per opera di una teologia che non ha nulla a che vedere non solo con Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma con la sostanza del cattolicesimo conciliare. Per esempio: perché è morto Gesù?

È ben noto che fino al Concilio una teologia folle attribuiva il deicidio agli ebrei. Una colpa che sarebbe ricaduta su tutti gli ebrei, sino ad oggi, anzi per sempre. L’impegno ecclesiale a cancellare questa visione che oggi è persino difficile ripetere ha avuto un discreto successo. Ma nel segreto delle carte cattoliche è rimasta un’altra teologia medievale, che vede in Gesù la vittima sacrificale di un Dio irascibile, iracondo, così cattivo da avere bisogno del sangue di suo figlio per placarsi. E tutto sommato, se Dio è feroce, implacabile, iracondo, perché no? Alcuni sono giunti a parlare dell’ira di Dio che si riversava sul Figlio punito come peccatore al posto di tutti gli uomini (sostituzione penale).

Il noto vescovo Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) giunse a scrivere del Padre:

colpì il suo Figlio innocente mentre questi lottava con la collera di Dio… quando un Dio vendicatore mosse guerra a suo Figlio, il mistero della nostra pace si compì.

Questo Dio così assurdo ha creato l’anticristianesimo moderno che ha rifiutato un’idea così insostenibile. Ma solo un papa che annuncia la “rivoluzione della tenerezza di Dio” poteva scuoterci così profondamente da farci capire che stavamo ancora sbagliando tutto, intrisi ancora di una defunta teologia medievale. Quello che Dio ama non è la morte di Gesù: “Il Padre mi ama perché io offro la mia vita” (Gv 10,17). È un po’ diverso, no?

Per capire la portata epocale di papa Bergoglio non basta dire che dal Dio dell’ira passiamo al Dio della tenerezza, e quindi della misericordia, il Dio che tutto perdona (badare bene al tutto!). Non basta perché c’è anche il rapporto con il potere. Era alleato dei potenti Gesù? Il punto è chiarissimo in Giovanni Paolo II, in Benedetto XVI e in Francesco. Ma quando l’ha detto Francesco alcuni miseri critici lo hanno addirittura insultato. Perché? Perché Bergoglio questa identificazione che lo accomuna ai suoi predecessori l’ha esplicitata proclamando che vuole la Chiesa dei poveri, non la Chiesa di Costantino. E se un’omelia di Natale può passare inosservata, i viaggi a Lampedusa e Lesbo non possono passare inosservati.

Tutto questo, a differenza di quanto scritto da alcuni, è coerente non solo con quanto detto dai suoi predecessori, ma con il senso delle Beatitudini. Non con la Chiesa imperiale, o che fabbrica il falso storico della donazione costantiniana. Lì è nata un’altra creatura che non ha nulla a che fare con il Vangelo. Cominciava così la lunga storia del costantinismo, nel quale la Chiesa cattolica si riteneva intestataria di ben tre poteri. Il papa diventava padre dei re, rettore del mondo, Vicario di Cristo e il triregno era la tiara con cui veniva incoronato nella Basilica Vaticana il 29 giugno, festa di Pietro.

Si è dovuto attendere il Concilio Vaticano II perché, durante una sessione di quei lavori, il pontefice regnante, Paolo VI, dopo aver ascoltato l’intervento del patriarca melchita, si alzasse e deponesse sull’altare quella tiara, per mai più riprenderla. La rinuncia di Paolo VI ha segnato una svolta religiosa, culturale, spirituale e politica, ma non tutti l’hanno capita, o condivisa. La Chiesa doveva, per loro, rimanere con il potere e per il potere. Non con i pastori cui venne annunciata la nascita di Gesù fuori dal caravanserraglio di Betlemme, ma con i potenti.

La teologia di sostegno a questa visione è stata riposta nel cassetto della storia della Chiesa dal Concilio Vaticano II, ma non è uscita dai cuori di molti. Ecco spiegato il valore enorme di quanto detto a Natale da papa Francesco.

Colui che non aveva un posto per nascere viene annunciato a quelli che non avevano posto alle tavole e nelle vie della città

ha spiegato Bergoglio.

I pastori sono i primi destinatari di questa Buona Notizia. Per il loro lavoro, erano uomini e donne che dovevano vivere ai margini della società. Le loro condizioni di vita, i luoghi in cui erano obbligati a stare, impedivano loro di osservare tutte le prescrizioni rituali di purificazione religiosa e, perciò, erano considerati impuri. La loro pelle, i loro vestiti, l’odore, il modo di parlare, l’origine li tradiva. Tutto in loro generava diffidenza. Uomini e donne da cui bisognava stare lontani, avere timore; li si considerava pagani tra i credenti, peccatori tra i giusti, stranieri tra i cittadini. A loro – pagani, peccatori e stranieri – l’angelo dice: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”.

Dunque, in piena coerenza con il Vangelo, con chi lo ha preceduto ma non quello che sentiamo dentro di noi da sempre, Bergoglio ci parla di una Chiesa non più costantiniana, come quella che vive dentro di noi, non più legata alla tiara del triregno, ma lo fa rivendicando un ordine compiutamente evangelico e rivoluzionario, cioè contro i poteri mondani.

Tutto questo produce una rivoluzione coerente che capovolge un ordine altrettanto coerente sebbene antievangelico. La novità non sta nel fatto che Bergoglio contraddice i suoi predecessori, ma che ha deciso di affrontare di petto, frontalmente e radicalmente, questa messe di capovolgimenti totali e profondi del dettato evangelico.

Cominciando dalla tenerezza di Dio, e non più dall’ira di Dio, possiamo arrivare fino al rifiuto di tutte le pazzie fondamentaliste e apocalittiche, non solo le altrui, follie che affliggono ogni monoteismo. Neanche in una riga l’Apocalisse può essere letta così, ma cancellare prepotentemente, quotidianamente, questo Dio feroce, guerriero, sanguinario, è la base del suo principio di autorità morale che riguarda tutti e riconosce l’altro, l’altro credente e non credente, sulla base del comandamento del Dio misericordioso: ama il prossimo tuo come te stesso.

Vediamo. La visione costantiniana della Chiesa ha prodotto invece l’intransigentismo cattolico, per il quale la modernità ha un elemento costitutivo: respingere il desiderio dell’uomo moderno di autodeterminare le forme organizzative della vita collettiva.

Per realizzare la sua aspirazione di fondo l’uomo moderno sottrarrebbe il consorzio civile a quella direzione ecclesiastica che in modo davvero mitologico avrebbe assicurato alla collettività pace, ordine e prosperità. Ecco perché questo pensiero presenta la Chiesa come una cittadella assediata da una società moderna alla quale attribuisce il disegno di disgregare la sua autorità nello stabilire le regole destinate non solo a conseguire la vita eterna, ma anche a raggiungere il miglior assetto politico e sociale della collettività.

Diventa così inevitabile che la condanna del mondo rappresenti la chiave di volta per definire il rapporto della chiesa nei confronti dello svolgersi di una storia moderna da essa interpretata come una concatenazione di errori sempre più gravi. Non è il potere gestito contro la solidarietà umana e i diritti dell’uomo, del povero, dell’emarginato il suo nemico, ma il potere moderno liberatosi da essa e dal suo controllo.

Come ebbe a dire nel 2003 il cardinale Bergoglio:

La Città di Dio (di Sant’Agostino, nda) è, in primo luogo, una critica alla concezione che sacralizzava il potere politico e lo status quo. Ogni impero dell’antichità poggiava su questo tipo di credenza. La religione era parte essenziale di tutta la costruzione simbolica e immaginaria che sosteneva la società tramite un potere sacralizzato. E questo non riguarda solo i “pagani”: una volta che il cristianesimo venne adottato come religione dell’Impero romano, andò formandosi una “teologia ufficiale” che sosteneva quella realtà politica come se fosse già il Regno di Dio avverato in terra. Agostino, con la sua opera, si opponeva appunto a quel tipo di lettura teologica di una realtà storica. Nel mostrare i semi di corruzione nella Roma imperiale, stava troncando qualsiasi identificazione tra Regno di Dio e regno di questo mondo. […] Se nella “teologia ufficiale” la storia era il luogo esclusivo ed escludente del potere autoreferenziale, nella Città di Dio si costituisce lo spazio per una libertà che accoglie il dono della salvezza e il progetto divino di un’umanità e di un mondo trasfigurati. Un progetto che verrà completato nell’escatologia, è vero, ma che già nella storia può generare nuove realtà, sbaragliando falsi determinismi, aprendo di continuo l’orizzonte della speranza e della creatività a partire da un plus di senso, di una promessa che invita sempre ad andare avanti.

Dunque il cristianesimo al quale tanti di noi sono legati è stato una religione civile, cioè una risposta alla necessità di un’adesione di tipo religioso alla politica, cioè una sacralizzazione delle forme e delle istituzioni della politica tipica dei totalitarismi. Tutto questo non ha nulla a che fare con Giovanni XXIII, con Paolo VI, con Giovanni Paolo I, con Giovanni Paolo II, con Benedetto XVI. Ha a che fare con un passato remoto a cui la Chiesa ha voltato le spalle.

Per questo ha deciso di trarre le logiche conseguenze e parlare di Chiesa dei poveri. Perché non è la Chiesa del potere, cioè dei potenti, ma la Chiesa di Betlemme. Una Chiesa che sacralizza il potere non può stare con i poveri, con chi contesta il potere. La Chiesa di Betlemme è l’opposto, e interpreta come il cattolico Pasolini lo stesso dovere evangelico di “dare a Cesare quel che è di Cesare e dare a Dio quel che è di Dio”. Ha scritto al riguardo Pasolini:

Cristo non poteva in alcun modo voler dire: accontenta questo e quello, concilia la praticità della vita sociale e l’assolutezza di quella religiosa, dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Al contrario – in assoluta coerenza con tutta la sua predicazione – non poteva che voler dire: distingui nettamente tra Cesare e Dio, non confonderli, non farli coesistere qualunquisticamente con la scusa di poter servire meglio Dio: non conciliarli: ricorda bene che il mio “e” è disgiuntivo, crea due universi non comunicanti, o, se mai, contrastanti: insomma, lo ripeto, inconciliabili.

Ecco, dunque, la Chiesa dei poveri, che non si schiera se non nella solidarietà. È forse il “comunista” Pasolini che parla così? No, il cattolico Pasolini, che ricorda da vicino, forse stemperandolo, San Giovanni Cristomo:

Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, confermando il fatto con la parola, ha detto anche: Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare (Mt 25, 42), e: Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l’avete fatto neppure a me (Mt 25, 45). Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura.

Siamo all’ultimo punto: la guerra. Il Dio antico, guerriero, ci conduceva in guerra, trionfava con noi contro i miscredenti, i nemici, sacralizzava l’imperatore che combatteva in suo nome, in tempi lontani come ancora di recente! Quando Putin è intervenuto in Siria un metropolita russo non venne forse fotografato dalla Reuters mentre benediva i mig pronti a partire per colpire l’Isis e colpendo in realtà le case, i giacigli, gli ospedali, le scuole siriane? Ecco, il Dio di Bergoglio sta non “con” ma “in” coloro che sono dovuti fuggire da quei bombardamenti, da quelle distruzioni. Proprio come accadeva ai tempi di Giovanni Paolo II e dell’assedio di Sarajevo, o della visita di Benedetto XVI a Beirut, quando disse affacciandosi al balcone del patriarcato maronita:

Ho saputo inoltre che ci sono tra noi dei giovani venuti dalla Siria. Voglio dirvi quanto ammiro il vostro coraggio. Dite a casa vostra, ai familiari e agli amici, che il Papa non vi dimentica. Dite attorno a voi che il Papa è triste a causa delle vostre sofferenze e dei vostri lutti. Egli non dimentica la Siria nelle sue preghiere e nelle sue preoccupazioni. Non dimentica i mediorientali che soffrono. È tempo che musulmani e cristiani si uniscano per mettere fine alla violenza e alle guerre.

Davanti agli assediati di Sarajevo o di Aleppo quel Dio, che è il Dio di tutti, non può stare con Erode. Perché non distingue, la misericordia gli libera le mani da alleanze terrene, da quando quel Dio nasce – secondo il racconto nei termini citati prima da Bergoglio – per tutti e non solo per i “suoi”. Lui, quel Dio, parlava con tutti. Dunque quanto dice oggi Bergoglio è l’annuncio radicalmente evangelico della cultura del vivere insieme, una cultura che non solo riconosce l’altro, ma ne ha bisogno.

Ma c’è un altro protagonista, importantissimo. Tutti dovrebbero sapere che il Dio dei cristiani è il Dio trinitario: Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma a tutti noi sembra ben chiaro chi sia il Padre, chi sia il Figlio, mentre quasi nessuno sa o vuole chiedersi chi mai sia questo Spirito Santo. Rivolgendosi ai gesuiti de La Civiltà Cattolica proprio al riguardo di questo Spirito Santo che per noi è un oggetto misterioso papa Francesco ha detto:

Sì, la vita è fluida e si agita senza sosta come si agita l’aria in cielo e il mare nel mare. Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento. E questa genialità aiuta a capire che la vita non è un quadro in bianco e nero. È un quadro a colori. Alcuni chiari e altri scuri, alcuni tenui e altri vivaci. Ma comunque prevalgono le sfumature. Ed è questo lo spazio del discernimento, lo spazio in cui lo Spirito agita il cielo come l’aria e il mare come l’acqua. Il vostro compito – come chiese il beato Paolo VI – è quello di vivere il confronto “tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo” (Discorso in occasione della XXXII Congr. Gen. della Compagnia di Gesù, 3 dicembre 1974). E quelle esigenze brucianti le portate già dentro voi stessi, e nella vostra vita spirituale. Date a questo confronto le forme più adeguate, anche nuove, come richiede oggi il modo di comunicare, che cambia col passare del tempo. E incontrando il pastore pentecostale Traettino ha sottolineato: Lo Spirito Santo fa la “diversità” nella Chiesa. La prima Lettera ai Corinzi, capitolo 12. Lui fa la diversità! E davvero questa diversità è tanto ricca, tanto bella. Ma poi, lo stesso Spirito Santo fa l’unità, e così la Chiesa è una nella diversità. E, per usare una parola bella di un evangelico che io amo tanto, una “diversità riconciliata” dallo Spirito Santo. Lui fa entrambe le cose: fa la diversità dei carismi e poi fa l’armonia dei carismi. Per questo i primi teologi della Chiesa, i primi padri – parlo del secolo III o IV – dicevano: “Lo Spirito Santo, Lui è l’armonia”, perché Lui fa questa unità armonica nella diversità. Noi siamo nell’epoca della globalizzazione, e pensiamo a cos’è la globalizzazione e a cosa sarebbe l’unità nella Chiesa: forse una sfera, dove tutti i punti sono equidistanti dal centro, tutti uguali? No! Questa è uniformità. E lo Spirito Santo non fa uniformità! Che figura possiamo trovare? Pensiamo al poliedro: il poliedro è un’unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità. È in questa strada che noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo col nome teologico di ecumenismo: cerchiamo di far sì che questa diversità sia più armonizzata dallo Spirito Santo e diventi unità; cerchiamo di camminare alla presenza di Dio per essere irreprensibili; cerchiamo di andare a trovare il nutrimento di cui abbiamo bisogno per trovare il fratello. Questo è il nostro cammino, questa è la nostra bellezza cristiana!

L’insistenza di papa Francesco sullo Spirito Santo così non può essere taciuta perché solo lo così riusciamo a capire che il testo è vivo, non pietrificato, come pensiamo noi custodi di una religione abbandonata dal secolo scorso. Il messaggio si aggiorna, e una corretta ermeneutica non è mai definita perché il “soffio” dello Spirito continua e le cose più belle deve ancora dirle. Forse è più chiaro ora chi siano i cattolici che non lo capiscono.

La rivoluzione di Francesco? È nel Vangelo ultima modifica: 2017-12-29T08:45:39+01:00 da RICCARDO CRISTIANO
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1 commento

Anne Leahy 30 Dicembre 2017 a 18:30

grazie per questo articolo. Si pone la domanda: quale la definizione attuale del cattolicesimo?

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