[SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS, CHIAPAS, MESSICO]
Il primo gennaio 1994 il mondo venne a sapere che un esercito di indigeni aveva preso pacificamente, senza sparare un colpo, San Cristóbal de las Casas, Altamirano, Las Margaritas, Ocosingo e altre località dello stato messicano del Chiapas.
Successivamente a quegli eventi e alle vittime causate nei giorni a seguire dall’intervento dell’esercito regolare, presero il via i cosiddetti dialoghi della Cattedrale con in veste di mediatore il vescovo Samuel Ruiz García, morto nel 2011, e sepolto in quello che è stato il teatro degli incontri, che il terremoto di qualche mese fa ha reso inagibile.

Don Samuel Ruiz García con i militanti d’Atenco, 2010
Da una parte il governo messicano rappresentato da Manuel Camacho Solís, dall’altra la delegazione dell’ Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN), capeggiata dal subcomandante Marcos e integrata da membri del Comité Clandestino Revolucionario Indígena (CCRI).
Molto prima che papa Francesco parlasse di una chiesa delle periferie, Samuel Ruiz aveva fatto della sua diocesi la prima “chiesa autoctona” predicando l’evangelizzazione dei poveri e spingendo i suoi sacerdoti a studiare le lingue locali, accogliendo le tradizioni indigene e trattando le popolazioni locali come uguali. Giungendo perfino a tradurre la Bibbia in tzeltal, uno dei numerosi dialetti del Chiapas, e diventando in breve uno dei principali difensori dei diritti sociali e dell’uguaglianza. Per questo, dopo dodici giorni di scontri, il governo messicano alla fine accettò la proposta dell’EZLN che lo aveva indicato come mediatore.

Gonzalo Ituarte Verduzco ritratto da Giovanni Vianello
Domenicano di Città del Messico, Gonzalo Ituarte Verduzco è stato uno stretto collaboratore di Samuel Ruiz. Nel 1977 visitò il Chiapas da cui fu affascinato decidendo di trasferirvisi l’anno dopo diventando parroco di Ocosingo nella Selva Lacandona. Passato a San Cristóbal de las Casas come vicario generale dei domenicani, fu parte attiva, come segretario esecutivo della CONAI, nella mediazione tra l’esercito zapatista e quello federale, facendo direttamente la spola tra le due parti.
Di Camacho, morto lo scorso giugno, ricorda la grande intelligenza della complessa realtà e definisce la sua morte una grande perdita per il paese. Del subcomandante Marcos richiama la personalità magnetica e ridendo dice di non aver mai passato, pur avendolo incontrato molte volte, di farsi scattare una foto assieme.
Cofondatore con Ruiz del Centro de los Derechos Humanos Fray Bartolomé de las Casas, attualmente è parroco della parrocchia indigena di Zinacantan e membro di Serapaz (Servicios y Asesorías para La Paz).
Padre Gonzalo, tu sei stato testimone diretto dell’arrivo degli zapatisti il primo gennaio del 1994.
Io ero a Ocosingo dove ci fu molta resistenza. Venimmo a sapere poco a poco quello che stava accadendo e io fui uno dei primi a venire a conoscenza che c’era un gruppo che proponeva la difesa contro la tanta violenza e contro le ingiustizie nei confronti degli indigeni. Il movimento zapatista andò crescendo finché nel 1994 si fece conoscere ed è diventato popolare. Noi immaginavamo che si trattasse di una guerriglia di stile sud americano, e invece apparve un esercito eccezionale, strano, ma ammirevole per il suo valore e per la sua precarietà. Che la grande povertà indigena riuscisse ad organizzarsi, fu una cosa assolutamente notevole.

Gonzalo Ituarte Verduzco ritratto da Giovanni Vianello
Si narra che quando l’EZLN arrivò quel primo gennaio, molti erano armati solo di fucili di legno.
La gran parte degli zapatisti che occuparono San Cristóbal o Ocosingo, Altamirano o Margaritas non giunsero armati con equipaggiamento militare. Portavano dei simboli, armi di legno, alcuni erano armati di machete. Tutti coperti. Realmente sembro’ una cosa molto strana, ma era chiarissimo che tutto era molto serio. Quello che fu sorprendente fu l’ambiente festivo di una parte della popolazione di San Cristóbal. All’inizio ci fu terrore, perché fu una sorpresa davvero impressionante. Poi la gente di San Cristóbal cominciò a portare caffè caldo e pane. San Cristóbal è stato storicamente un centro di dominazione nei confronti degli indigeni. Nonostante questo ci fu una parte della popolazione locale che li ricevette con grande piacere, riconoscendo il loro valore e il contributo che stavano dando.
E da allora che cosa è successo per la condizione degli indigeni in Chiapas?
C’è stata una profonda trasformazione in Chiapas. È pure certo che l’insurrezione zapatista ha cambiato il posto dell’indio in Messico, che prima riconosceva solo l’indio morto, l’indio simbolo, Montezuma. L’indio vivo non contava. Avevano valore le rovine indigene, e non gli indigeni rovinati. La presenza zapatista, la sua chiarezza, la sua proposta e la convergenza di molte organizzazioni indigene e non indigene attorno allo zapatismo hanno generato una nuova concezione. Ha trasformato persino la costituzione messicana, dando luogo a un profondo cambiamento in molti aspetti.
Io considero tutto ciò come una “rivoluzione a bassa intensità”. Il Chiapas si è da allora parecchio integrato col Messico. Questo implica anche che il capitalismo nazionale ha raggiunto il Chiapas in modo più radicale ed è penetrato persino nelle comunità indigene dove si viveva in modo più comunitario e solidale, meno materialista e individualista. Si è raggiunta una migliore ubicazione nell’immaginario nazionale della dignità e dei valori delle comunità indigene. C’è stata una trasformazione economica notevole e continua ad esserci un’enorme povertà, mentre nelle comunità indigene già esistono classi sociali e c’è gente molto ricca e potente. In cittadine come San Juan de Chamula o Zinacantan ci sono già imprese grandi di origine indigena che prima non esistevano.

Gonzalo Ituarte Verduzco ritratto da Giovanni Vianello
Sembrerebbe un progresso.
Di fatto tutto ciò è un progresso, ma anche un retrocedere. Perché c’è una contaminazione di questa cultura comunitaria che prima decideva attraverso assemblee, che è causata dalla ricerca del consenso da parte dei partiti politici, che hanno generato violenza e scontri, e dei gruppi religiosi. Le trasformazioni della cultura indigena non sempre sono positive. Ci sono situazioni interessanti di persone che hanno raggiunto livelli professionali prima impensabili. Ora ci sono molti professionisti indigeni che si mantengono al servizio della propria comunità. Ma altri se ne allontanano.
Possiamo dire che a queste popolazioni è arrivata la modernità con tutto quanto c’è in essa di negativo e di positivo, con una conseguente trasformazione della cultura indigena. Ci sono settori che sono in grado di mantenere la propria identità in dialogo con la cultura dominante, trasformandosi dal di dentro. Molto prima del 1994 gli indigeni vivevano isolati e non gli era permesso di affrancarsi dalla loro cultura senza potersi arricchire della cultura esterna perché vivevano oppressi, in assenza di interazioni e scambi. Non avremo mai più una condizione di servitù come quella che ci fu. Ma la parte negativa viene dal consumismo e dalla concorrenza e dalla stratificazione in classi sociali all’interno delle comunità.
Cosa fa ora l’EZLN?
Esiste ancora un settore armato zapatista e un piano prudenziale difensivo, perché il processo di mediazione non si concluse e si parla di conflitto armato interno non risolto. Ma di fatto il loro fine è attualmente la costruzione dal basso, dalle comunità e dall’autonomia di un modello di società che si allontana dal modello capitalista. Nello sforzo di consolidare l’organizzazione prescindendo in questa tappa dalla stessa formazione zapatista in un dialogo e rispettosa collaborazione con il Congreso Nacional Indigena, che è sorto per loro iniziativa, e che rappresenta indigeni non direttamente espressione del movimento, ma che esprimono le stesse inquietudini. Si è andata consolidando un’esperienza di autogoverno che è un’alternativa affermativa e non solo un rifiuto molto profondo del capitalismo in tutte le sue forme.
Nelle zone in cui sono egemoni stanno cercando di creare isole di socialismo?
Non usano la parola socialismo ma quella di autonomia cercando la maggior giustizia e collaborazione. Favorendo la cooperazione e il lavoro collettivo, cercano di creare un modo di produzione, di commercializzazione e di scambio differenti. Non vogliono nemmeno scollegarsi dal paese e non tendono a creare un isola totalmente separata dalla realtà. Voglio dire che mai hanno teorizzato la nascita di una repubblica india. Però in un contesto capitalista trasformato ancor più dalle riforme fatte dall’attuale governo che ha generato una situazione molto negativa per il Messico fanno questo sforzo di resistere mantenendo la propria forma di organizzazione anche economica, e applicando il principio della rotazione frequente degli incarichi di governo per evitare la concentrazione del potere. Stanno facendo questo tentativo che i sognatori dell’800 o degli anni settanta avrebbero considerato socialismo però non sempre raggiungendo una partecipazione egualitaria. Dato che ciò è difficile da attuare.
Per esempio la condizione della donna indigena è difficile perché culturalmente è molto profonda la collocazione della donna in quel mondo, e lo sforzo di liberazione tanto dello zapatismo quanto della stessa Chiesa trova una resistenza incosciente. Però c’è da dire che sempre più si riscontra un protagonismo delle donne.
La posizione che stai descrivendo è condivisa da tutta la Chiesa messicana?
Non c’è una omogeneità di pensiero riguardo a questo processo. Esistono posizioni anche a livello diocesano che sono molto distanti dallo zapatismo che da questi settori è visto come radicale e fondamentalista, criticando il loro rifiuto generalizzato del sistema come assolutamente esagerato. Ora comunque l’operato del Consejo Nacional Indigena sta permettendo una posizione molto più diversificata e rispettosa, perché è evidente che la trasformazione del Chiapas e del paese non potrà venire solo da parte di una organizzazione.
Quando papa Francesco venne a San Cristóbal de las Casas parlò della condizione indigena?
Pare che il papa abbia posto come condizione della sua visita in Messico una sua tappa in Chiapas. Della condizione indigena ne parlò, ma ci fu gente, e in questa mi includo, che sperò che egli parlasse con più chiarezza. Fu molto prudente, anche se tocco’ i temi e riconobbe il lavoro fatto. Senza dubbio la sua sola presenza qui è stata un riconoscimento dei processi messi in atto in questa diocesi sopratutto per impulso durante quaranta anni da Samuel Ruiz, il quale ha messo al centro l’attenzione per i poveri, che in maggioranza sono indigeni. Il Papa ha pregato presso la tomba di Don Samuel dietro l’altare principale nella cattedrale.
Quale è il ruolo del governo federale in questa situazione?
All’inizio ovviamente è stato molto presente. Anche in tutto il processo di mediazione che mise in luce un patrimonio di ricchezza e di diversità che culminò negli accordi di San André. Un processo frustrato perché alla fine il governo federale si allontanò dal tavolo. Sta di fatto che da parte del governo federale il problema indigeno viene letto semplicemente come un problema di povertà e come se fosse un’emergenza.
Hai subito minacce durante la tua attività?
Nel 1994 durante la mediazione c’erano gruppi paramilitari molto attivi e ci fu qualche tensione, ma minacce esplicite non ricordo di averne subite. Don Samuel ha corso il pericolo maggiore. Io ero uno dei tanti, anche se molto visibile.
Marcos è tornato a vivere nella Selva Lacandona?
Sta in Chiapas, compare qui e là con il nome di Galeano e presiede l’Universidad de la Tierra, che è una cosa molto interessante. E non concede interviste.

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