Se Grillo conta più della Costituzione

Introdurre il mandato imperativo per gli eletti del M5S non vorrebbe dire cambiare la politica ma cambiare la democrazia
ADRIANA VIGNERI
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‏Tra poco si vota. C’è un partito che è cresciuto a dismisura con il motto “onestà, onestà, onestà”. L’onestà è un prerequisito, non una linea politica. Ora una linea politica si sta delineando (altro discorso è se sia attuabile). Ma a noi qui interessa un altro aspetto, un prerequisito ancora più importante: la condivisione dei principi fondamentali della Costituzione italiana.

Il M5S è il primo partito in Italia secondo i sondaggi. Dobbiamo mettere in conto che dopo le prossime elezioni politiche riceva l’incarico, nella persona del suo leader, di formare un governo capace di riscuotere la fiducia di entrambe le camere (finirà infatti con l’allearsi con qualcuno, Lega anzitutto, LeU forse). Va preso sul serio, molto sul serio. Va preso sul serio anche quando esprime l’intenzione di sopprimere una norma costituzionale che è la base del sistema democratico nel quale viviamo: il divieto di imporre ai parlamentari – che rappresentano la nazione intera (articolo 67 della Costituzione) e non singoli gruppi o partiti – un determinato comportamento politico, si chiama divieto di vincolo di mandato.

La ragione ufficiale? Combattere il trasformismo parlamentare, i molti cambi di casacca che avvengono in parlamento nei periodi di crisi dei partiti. Per usare le parole di Grillo reperibili in rete,

l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare senza rispondere a nessuno. [Nonostante il voto sia] un contratto tra elettore ed eletto ed è più importante di un contratto commerciale [è ritenuto] del tutto legittimo il cambio in corsa di idee, opinioni, partiti. Si può passare dalla destra alla sinistra, dal centro al gruppo misto, si può votare una legge contraria al programma…

Tutto questo è consentito dall’articolo 67 della nostra Costituzione, che andrebbe dunque corretto.
La ragione vera? L’idea che il mandato elettorale – come qualsiasi altro mandato – sia un contratto, che se violato dà diritto a imporre sanzioni. In nome di una linea politica decisa da chi? Ma procediamo con ordine.

Se hai cambiato idea torni a casa e ti fai rieleggere. Giusto? Sembra giusto. Ma come vedremo non lo è: per correggere quello che viene ritenuto un malcostume si produrrebbero danni molto peggiori, gravissimi, devastanti, al punto da portarci fuori dal nostro sistema democratico, da quella carta costituzionale tanto esaltata anche dai grillini. Ci sono rimedi meno invadenti che possono frenare questo fenomeno. L’articolo 67 della Costituzione italiana infatti non è una delle norme costituzionali che possono essere modificate nella loro essenza con i procedimenti di revisione costituzionale.

I cambi di casacca sono dovuti certo a interessi individuali, ma anche e forse soprattutto alla debolezza dei partiti (sono in grado di selezionare il loro personale politico, e prima ancora di formarlo?), alle differenze spesso poco percepibili tra gli uni e gli altri, a una fase di rimescolamento. L’opportunismo riguarda assai più la creazione di nuovi gruppi nelle camere post elezioni che non il passaggio di singoli deputati o senatori a un gruppo parlamentare contiguo. È assai più impegnativo – e quindi disincentivante – passare dal partito con il quale hai avuto accesso al parlamento a un altro partito con cui non ti sei candidato che costituire, con un gruppetto di transfughi, un gruppo nuovo motivato da dissensi o insoddisfazioni varie, in attesa di decidere secondo convenienza la scelta finale. Ma ci sono anche i dissensi politici seri.

Se le cose stanno così, è un ottimo rimedio il nuovo regolamento del senato che vieta la costituzione di gruppi parlamentari non corrispondenti a partiti che si sono presentati alle elezioni. Il senatore che lascia il proprio gruppo ha la scelta se farsi accettare da un gruppo diverso – scelta politicamente impegnativa – o passare al gruppo misto (che non consente per sua natura di fare politica di gruppo e non dà neppure accesso a proprie risorse finanziarie). Ci sono dunque rimedi – attraverso i regolamenti parlamentari – che consentono di limitare di molto il fenomeno (meno facile intervenire sulle cause strutturali) senza stravolgere la Costituzione.

Veniamo ora al senso profondo dell’articolo 67, il quale dice due cose: che l’eletto rappresenta la nazione e che agisce senza vincolo di mandato. E si collega all’articolo 49, che dà ai cittadini il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Il triangolo eletti, partiti, elettori richiede che gli eletti, per esprimere secondo coscienza la loro parte di sovranità, siano liberi da vincoli giuridici, possano operare secondo coscienza, pur essendo contemporaneamente responsabili verso il partito che li ha candidati e ha concorso ad eleggerli, e verso gli elettori.

Se non fosse così non potrebbero rappresentare la nazione, rappresentare pro quota la sovranità del popolo. Rappresenterebbero il partito, il loro capo politico, sarebbero cioè dei funzionari, non dei politici.
In altre parole, perché sia attuata la prima parte dell’articolo 67 (Ogni membro del parlamento rappresenta la nazione) occorre che sia realizzata la seconda (esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato).

Auguste Couder: Versailles, 5 maggio 1789, apertura degli Stati Generali

Fin dall’origine si è colta la connessione tra l’affermazione che la sovranità risiede nella nazione e poi nel popolo (Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino), e il divieto di mandato imperativo (“les représentants nommés dans les départements ne seront pas représentants d’un département particulier, mais de la nation entière, et il ne pourra leur etre donné aucun mandat”, art. 7, sez. III, cap I, titolo III della Constitution del 1791).

Tutto ciò non impedisce che gli eletti in parlamento siano legittimamente condizionati e condizionabili dal partito e quindi dal gruppo di appartenenza nel corso del mandato, senza che questo sia in contrasto con il divieto di mandato imperativo. Condizionamento tanto più efficace quanto maggiore è il consenso e quindi la legittimazione di cui il partito gode. Ma il condizionamento, in forza dell’articolo 67, non può giungere fino alla firma di dimissioni in bianco, all’impegno preventivo a seguire qualunque indicazione, ovvero all’introduzione di istituti quali la decadenza dal mandato, per espulsione o dimissioni dal partito di origine, e la revoca del singolo parlamentare.

Su quest’ultima eventualità, c’è chi la considera compatibile con l’articolo 67 a condizione che la revoca avvenga mediante una nuova votazione dello stesso corpo elettorale. Ipotesi più teorica che pratica: la revoca verrebbe probabilmente inquinata dagli interessi dei nuovi concorrenti che aspirano a quello stesso seggio. Macchinosa operazione.

Quando si è occupata dell’articolo 67, la Corte costituzionale ha detto:

il divieto di mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di discostarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito (sentenza n. 14 del 1964).

La responsabilità dell’eletto, sia nei confronti del proprio partito sia nei confronti del corpo elettorale, è dunque essenzialmente politica. A parte casi limite in cui può darsi l’espulsione dal partito (ma non la decadenza dalla carica), chi non si è adeguato (legittimamente non si è adeguato) alla linea maggioritaria del partito non sarà ricandidato.

Se le cose si svolgessero come vorrebbe Grillo attraverso lo schema del contratto, sovrani sarebbero i partiti (mentre sovrano è il popolo, che esercita la sovranità avvalendosi dei partiti secondo le norme costituzionali), e la conclusione sarebbe che i partiti potrebbero mandare di volta in volta loro “delegati” ad assumere le decisioni. Non servirebbe neppure un parlamento. E infatti chi ha finito con il teorizzare il mandato vincolante (Kelsen) ha ridotto il parlamento a organo tecnico di composizione della volontà dei partiti politici.

Non può neppure dirsi, dunque, che in luogo della posizione di libertà e responsabilità del rappresentante vi sia ora, o sia subentrato in tempi recenti, il “mandato imperativo di partito”. Non vi è stato neppure quando i partiti erano ben più forti di adesso.

In conclusione, quale che sia l’utilità che si veda ora nel libero mandato, in una fase di progressivo declino della capacità progettuale e rappresentativa dei partiti (tenere aperto un canale di comunicazione fra organo istituzionale e pluralismo sociale), interessa sottolineare la sua imprescindibilità per le fondamenta stesse della nostra democrazia costituzionale. Introdurre il mandato imperativo “non vorrebbe dire cambiare la politica ma cambiare la democrazia, che è cosa ben diversa”.

Tutto quanto precede, a cominciare dai parlamentari “contrattualizzati” nel nuovo codice etico del M5S, con relative multe per dissenso dalla linea della Casaleggio e Associati, che vanno a costituire un “centralismo antidemocratico”, dimostra – al di là della modifica all’articolo 67 della Costituzione, mai finora concretamente perseguita – che l’obiettivo principale è quello di realizzare un controllo ferreo del comportamento degli eletti, non soltanto minacciati di sanzioni, ma obbligati a utilizzare la cosiddetta Piattaforma Rousseau per la loro attività politica, in modo da essere continuamente monitorati e sorvegliati. Funzionari o impiegati, non politici.

D’altronde, l’uso del nome di Rousseau per qualificare la piattaforma ci rimanda a un pensiero che risolve l’esigenza di legare l’operato dei rappresentanti alla reale (individuata da chi?) volontà popolare mediante la negazione in capo ai rappresentanti di ogni autonoma manifestazione di volontà.

Una strada maestra verso il totalitarismo.

Se Grillo conta più della Costituzione ultima modifica: 2018-01-05T15:56:43+01:00 da ADRIANA VIGNERI
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