Bel fascista, il caro estinto!

Pagine dimenticate di storia inglese nel romanzo di Patrick McGrath "La guardarobiera", ambientato nella Londra del gelido inverno del 1947, fra eventi teatrali e rigurgiti fascisti
ROBERTO ELLERO
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L‘Inghilterra agli inglesi. La solita solfa, il mondo è piccolo anche nel tempo. E chi pensa che il Novecento sia andato davvero in archivio, una volta per tutte, ha materia per riflettere. Negli anni Trenta Oswald Mosley e le camicie nere della sua British Union od Fascists, figliocci albionici del nostro Benito, minacciavano di marciare su Westminster, non senza protezioni tra le forze dell’ordine e anche a Palazzo (basti pensare alle simpatie di Edoardo IV e della bella Wallis Simpson).

Imbarazzanti e ingestibili ad un certo punto, specie dopo Dunquerke. E dunque imbrigliati durante la guerra. Subito dopo, profittando di fame e macerie, cercano di rimettere fuori la testa, prendendosela – tanto per cambiare – con gli ebrei. Gentucola ostinata, magari patetica ma pur sempre capace di fare danni nella Londra del gelido inverno 1947, dove Patrick McGrath – l’autore del celebratissimo “Follia” – ambienta il suo ultimo romanzo: “La guardarobiera” (“The Wardrobe Mistress”, 2017), in edizione italiana per La Nave di Teseo, con traduzione di Carlo Prosperi.

Freddo da cani, dicevamo, nella Londra di quel gennaio, ancora con le rovine a vista dei bombardamenti e i razionamenti alimentari. Eppure la vita riprende e si va a teatro. Stella delle scene l’elegante e affascinante Charlie Grice, Gricey per gli amici, che però ci lascia le penne in circostanze mai chiarite, ruzzolando sui gradini di casa del genero Julius, tipo strano, che vive con la figlia di Gricey, Vera, anch’essa una promessa del teatro, e con una presunta sorellastra, Gustl, tratta in salvo a Parigi appena in tempo, prima di finire in qualche campo di sterminio. Ebrei, sia pure poco osservanti, come Joan, la moglie ora vedova di Gricey, che non sa darsi pace. È lei la guardarobiera del titolo, capo sarta teatrale al Beaumont, che alla prima replica de “La dodicesima notte” senza il compianto, indimenticabile Malvolio, immagina di ritrovarne le fattezze nel sostituto, il giovane attore Daniel Francis, nome di comodo, talmente bravo da assumere esattamente gli sguardi, le posture, la cadenza del defunto. Gli assomiglia proprio, forse è lui, o il suo fantasma. Ne diventa in breve amica e confidente, poi amante, in un crescendo mimetico, anche per via degli abiti del caro estinto donati a piene mani al nuovo venuto.

Patrick McGrath

Ma c’è, a proposito del bel Gricey, qualcosa che Joan ancora non sa. Solo lei, a dire il vero. Il terribile segreto è nel risvolto del bavero di un cappotto, una spilletta con quel fulmine stilizzato che i fascisti ostentavano all’occhiello. Com’è possibile? Di giorno a concionare contro gli ebrei nei comizi, ingaggiando battaglie nell’East End, e la notte nel suo letto? Non s’era mai occupato di politica, tutt’al più votava laburista. Si tratterà di un equivoco. E invece no, il sospetto trova conferma, lo sapevano tutti, e sgomenta la vedova, che ora deve vedersela con un passato da riscrivere per intero.

Stava bevendo. Stava cercando di riordinare i pensieri. Dare dei parassiti alle persone, persone perbene come lei. (…) Ingannarla così. Vivere una doppia vita, senza mai aprirle la mente con sincerità, nascondendo tutto il tempo quel segreto e quei pensieri d’odio che gli brulicavano nel cranio come vermi in una bara e fingere giorno dopo giorno di essere un uomo affidabile, un marito e padre amorevole, amico di tutti – il vecchio Gricey, il buon vecchio Gricey – e mai una volta, non una, dire quello che pensava davvero. Si riempì il bicchiere. Grazie, Zio Alcol.

Ossessioni, stordimenti, allucinazioni sono di casa nella narrativa di McGrath, nel suo intimo immaginario, sin dalla più tenera età, quando – bambino – girava per i reparti del manicomio di Broadmor, dove il padre lavorava come psichiatra. Il tormento di Joan è nel tradimento di un uomo che, a sua completa insaputa, ha sposato la causa della barbarie con la noncuranza di chi coltiva un suo “innocente” vizio privato. E lei, che ne è ancora visibilmente attratta, innamorata, tanto da confondere volentieri il giovane Francis (ovvero Frank, in realtà anch’egli profugo ebreo) con quello dell’ingombrante dybbuk, tenta disperatamente di ribellarsi a questo innaturale trasporto, sino ad infiltrarsi nel gruppo fascista per boicottarne le attività. O, più verosimilmente, per vedere da vicino le facce, gli ambienti, le malsane ritualità che costituivano il quotidiano “doppio” dell’ineffabile coniuge. Ma non c’è strategia che consenta di elaborare il lutto. Non c’è vendetta che consenta di lenire quel persistente e amaro senso di colpa. Così, mentre Vera primeggia da protagonista sulle scene con la sua Duchessa di Amalfi, trovando rinnovato conforto nella comprensione di Julius e qualche motivo di soddisfazione nel corteggiamento di Francis, ben capace di dimenticare in fretta le attenzioni di Joan, alla vedova non resterà che andare incontro al suo destino.

Riesumando pagine dimenticate della storia inglese in fondo ancora recente, McGrath affida la narrazione della sua tragedia ad un coro immaginario che tutto sa e prevede ma che nulla può fare per modificare il corso degli eventi, se non mettere in guardia. Siamo alle battute finali:

Il ragazzo si sofferma ancora un momento e poi, con una certa ponderatezza si china… e sputa nella tomba aperta. Che piccolo bastardo che è. Guardando quello che ha appena fatto, si pulisce la bocca con il dorso della mano come se fosse una specie di eroe. Brutto stronzetto. Poi per qualche momento resta immobile. È fermo lì. Si volta, infine, con nostro non esiguo sollievo, e si allontana attraversando il cimitero deserto. Il contegno è austero, funebre. Tiene il braccio destro lungo il fianco, in modo strano, la mano infilata adesso in un guanto di pelle nera, con le dita che puntano dritte all’ingiù, in un rigido saluto verticale.

Povera Joan, davvero con questi non è mai finita.

una recente intervista di Patrick McGrath a la Repubblica

Bel fascista, il caro estinto! ultima modifica: 2018-01-09T17:19:59+01:00 da ROBERTO ELLERO
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