Cinquant’anni dopo il Sessantotto, l’umanità sta per essere investita dalla nuova rivoluzione robotica. La posta in gioco è il radicale cambiamento della struttura del lavoro e, più in generale, la ridefinizione del rapporto tra macchine ed esseri umani.
Di fronte a queste sfide enormi, la politica ha ancora bisogno di un pensiero forte, di una visione? Lo abbiamo chiesto a Giacomo Marramao, allievo di Theodor Adorno, filosofo e professore di filosofia politica e filosofia teoretica presso l’Università degli Studi Roma Tre.

Giacomo Marramao al Festival della Politica, Mestre, 8 settembre 2007. A destra Massimo Donà
Professor Marramao, chi tra i pensatori del Sessantotto ha ancora qualcosa da dire oggi?
Sicuramente colui che considero il maestro della seconda fase della mia formazione: Theodor Adorno.
Perché?
Nonostante i limiti di un pensiero che è stato anche stroncato, Adorno ha sviluppato elementi straordinari di analisi della società contemporanea e di critica del potere.
Ce ne parli…
Per quanto riguarda l’analisi della società contemporanea, si pensi allo straordinario incipit di quello che ritengo uno dei grandi testi della filosofia e della letteratura del Novecento: Minima Moralia. L’incipit dice: quella che un tempo i filosofi chiamavano vita si è ormai ridotta alla sfera del puro consumo.
Cosa significa?
Significa che il consumo ha inghiottito tutto. L’idea adorniana del consumo fa riferimento a una società che non è più quella liberale, ma che è, invece, una società di massa modellata dall’industria culturale, concetto quest’ultimo ideato da Max Horkheimer e, per l’appunto, Theodor Adorno.
Quali sono le peculiarità di questo tipo di società?
Tutte le nostre vite sono assorbite non soltanto dai temi di consumo ma dall’idea della consunzione della vita, non soltanto dalla reificazione del nostro modo di comportarci e agire, ma dalla reificazione di tutti i rapporti umani.
Trasformiamo le persone in oggetti…
Tutti i rapporti umani sono dei rapporti che si consumano. A tal proposito, Adorno sostiene che bisogna rivitalizzare la famosa frase di Max Weber, che diceva che “un tempo si arrivava sazi alla fine della vita, ora si giunge alla fine della vita come se questa si fosse bruciata in tempi rapidissimi”.
E per quanto riguarda la critica del potere, perché Adorno è ancora attuale?
Riguardo al tema del potere, Adorno ha capito che questo non sta solo nei luoghi deputati, cioè stato e istituzioni, ma è qualcosa che pervade l’intera articolazione della società.
Ma la sua visione è in parte diversa da quella del suo maestro…
Io, come altri allievi di Adorno, ho respinto l’idea del potere che non ha più confini ed è in grado di funzionalizzare anche le rivolte. Anche se in parte è vero che il potere fagocita tutto e anche le ribellioni contro il potere vengono fagocitate dal potere stesso nella società della comunicazione e della mercificazione generalizzata, ritengo in ogni caso che Adorno ritenesse il potere “troppo onnipotente”. Il potere, infatti, determina anche effetti di contropotere altrettanto radicati.
Cinquant’anni dopo il Sessantotto, la presenza di un pensiero forte è ancora una precondizione per fare politica? O la politica ormai assomiglia sempre più all’amministrazione di un grande condominio?
Io credo che oggi il limite della politica sia di produrre continui litigi sul pianerottolo di un vecchio condominio mentre la casa si è trasformata in un grattacielo, che assomiglia per certi versi a una torre di Babele.
Il pensiero deve essere sempre forte, mentre la politica deve essere pragmatica, cioè deve avere la capacità della duttilità, ma nel senso di Machiavelli, non nel senso dei piccoli compromessi che danno spettacolo di sé nelle democrazie occidentali.
È vero che oggi non abbiamo più l’intellettuale organico, ma non per questo l’intellettuale deve trasformarsi in una semplice coscienza critica, la cui funzione politica deve essere necessariamente indiretta.

Modena, festival della filosofia 2017
Come evitarlo?
Basta andare a vedere quello che succede oggi: abbiamo un rapporto sempre più diretto tra filosofi e popolo, o meglio, quella parte della popolazione che si è volontariamente chiamata fuori dalla politica, perché non motivata dalla logica della politica politicante. Sono anni che organizziamo in giro per l’Italia, in città grandi e piccole, festival della filosofia e varie altre occasioni di incontro, che vedono sempre una grande partecipazione.
Quali sono le fonti primarie del pensiero forte?
Pensiero forte significa dare prospettiva, essere in grado di produrre quello che il grande pensiero europeo era riuscito a produrre nel corso della modernità e non riesce più a produrre per la semplice ragione che l’Europa oggi è periferica rispetto al mondo. Pensiero forte è quindi uno sguardo di insieme sul presente.
E poi?
Per un altro verso la filosofia è pensiero forte perché è un sapere molto vicino all’esperienza quotidiana, mentre la politica è una specie di terra di nessuno, perché non è in grado né di dare una prospettiva, cioè una rappresentazione del nostro presente storico nel contesto globale nel quale ci muoviamo oggi – in altre parole, le grandi dinamiche di trasformazione del mondo, né di capire cosa sta succedendo nel quotidiano delle persone.
La filosofia invece?
La filosofia parla a entrambi i termini. Per me questo è il pensiero forte, riuscire a parlare sia a livello delle grandi sfide del presente, sia a livello dei cambiamenti molecolari. Come nel Sessantotto, quando noi ci eravamo abituati al cambiamento di ritmo dei Beatles e la politica era in ritardo, la politica oggi continua a essere in ritardo rispetto ai miti giovanili e alla musica, cioè forme di comunicazione tra esperienze, biografie, etnie e culture, che si ritrovano in quella che Judith Butler chiama giustamente “l’alleanza dei corpi”, che stanno insieme nei concerti, che comunicano tra di loro, che condividono emozioni.
Quindi?
Non dico che la politica debba guidare le emozioni, perché sarebbe l’estetica politica totalitaria, ma deve comunque cercare di capire cosa è cambiato nel tessuto dell’esperienza.
Potremmo fare a meno di una politica che continua a dimostrarsi incapace di svolgere questo compito?
No, sono convinto che siamo di fronte a una radicale metamorfosi della politica, un punto di passaggio cruciale della forma democratica. Ma non possiamo fare a meno della politica. In questo, come Hannah Arendt, credo che la politica, cioè la vita della polis, è la forma eterna del nostro essere in comune.

Proteste femministe negli anni Settanta
Però?
Però la politica va radicalmente ridefinita, attraverso una nuova rivoluzione culturale. Da un lato, servono un pensiero forte e una politica pragmatica, dall’altro, bisogna concentrarsi sul cervello sociale, che significa il complesso delle varie forme di sapere tecnologico, che devono essere tutte funzionali, in modo tale che diventino, come diceva Walter Benjamin, una chiave della felicità.
La tecnica come chiave della felicità?
La tecnica non possiede una volontà autonoma di potenza. La tecnica è sempre una variabile dipendente della volontà politica. A volte la volontà politica si nasconde dietro i vincoli tecnici per riprodurre il proprio potere, ma aveva comunque ragione Benjamin, in contrapposizione con Adorno, a dire che la tecnica poteva diventare una chiave della felicità.
Oggi più che mai…
Siamo in una fase in cui la nostra generazione sta per essere investita da un’onda d’urto dall’impatto forte almeno come quello della globalizzazione: si tratta della nuova rivoluzione robotica, che nasce dall’intreccio tra robotica, genetica e intelligenza artificiale.
La posta in gioco sarà il radicale cambiamento della struttura del lavoro…
La questione sarà: riusciremo a fare valere questa rivoluzione a favore della riduzione del tempo del lavoro e quindi di un’occupazione più ampia e meno lavoro?
In questo senso, la posta in gioco sarà il modo in cui si articolerà la relazione tra universo degli esseri umani e quello delle macchine. Questo è il futuro che ci aspetta. La politica non può che guidarlo e solo una grande politica può fronteggiare la sfida.
In Italia siamo equipaggiati per fronteggiare questa sfida?
L’Italia ha zone di eccellenza straordinarie, deturpate da sacche di ignoranza e degrado, non dovute solo alla politica ma anche alla deresponsabilizzazione di gran parte della popolazione italiana, non dico soltanto i poveri, ma soprattutto i ricchi, che hanno deturpato e degradato il territorio in maniera spregevole.
Cosa dovrebbe fare un politico serio?
La prima cosa che dovrebbe fare un politico serio, che dirige un paese che è il primo al mondo dal punto di vista delle qualità estetiche e ambientali e, malgrado tutto, anche della qualità di vita, è costruire una mappa dei saperi che ci sono in questo paese.
Pensiero matematico, filosofico, logico, storico, antropologico, e poi saperi ingegneristici, architettonici, biologia, fisica, per fare alcuni esempi. E poi c’è l’economia politica, scienza che necessita di una radicale ridefinizione, perché oggi ha variabili troppo ristrette. È da un po’ di tempo, infatti, che le variabili della scienza economica non riescono a prevedere una crisi, vanno introdotte variabili di altro genere.
In tal senso, quindi, un politico che non è in grado di costruire una mappa dei saperi e delle competenze è meglio che se ne vada a casa.

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