Olimpiadi. I rimpianti di Roma dopo la pax coreana

L'accordo tra le due Coree ci ricorda come le Olimpiadi abbiano portata simbolica e culturale di grande rilievo, non siano solo problema di "mattone". Una lezione amara per la capitale italiana che ha rinunciato ai giochi del 24.
GIOVANNI INNAMORATI
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Il 2018 si è aperto con due notizie, assai lontane l’una dall’altra, ma che entrambe generano il rimpianto per l’occasione persa da Roma con la rinuncia ad ospitare le Olimpiadi del 2024, per la cui assegnazione era la grande favorita, e che saranno invece disputate a Parigi.

Il primo gennaio il dittatore nordcoreano Kim Jong-Un, nel discorso di augurio trasmesso dalla tv di stato, ha inaspettatamente espresso l’auspicio di un miglioramento dei rapporti con la Corea del sud:

Le Olimpiadi invernali che si terranno presto nel Sud – ha detto Kim – saranno una buona opportunità per mostrare lo stato della nazione coreana e desideriamo sinceramente che l’evento si svolga con risultati positivi.

L’invito alla Corea del nord di inviare propri atleti alle Olimpiadi invernali che si svolgeranno dal 9 al 25 febbraio a Pyongyang era stato rivolto esplicitamente dal viceministro degli esteri di Seul, Cho Hyun il 15 dicembre scorso all’Assemblea generale dell’Onu, e l’auspicio che ciò potesse accadere era stato espresso in quella occasione dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres:

La mia più sincera speranza è che atleti nordcoreani partecipino alle Olimpiadi invernali di Pyongyang. I Giochi possono alimentare una atmosfera di pace, sviluppo, tolleranza e comprensione reciproca nella penisola coreana e altrove. Dobbiamo diffondere questo spirito di speranza e di possibilità.

Da quel 15 dicembre, tuttavia, da Pyongyang era giunto solo silenzio come risposta, sicché il discorso di Kim il primo gennaio è stato ancor più inaspettato. Non a caso Mario Pescante, ex vicepresidente del Comitato internazionale olimpico (Cio) e attualmente osservatore del Cio presso l’Onu, ha definito “un miracolo” la possibilità di una “pax olimpica” nella penisola coreana. Miracolo che sembra si stia realizzando: il 2 gennaio il ministro di Seul per l’unificazione, Cho Myoung-gyon, ha proposto a Pyongyang dei colloqui bilaterali “ad alto livello” per affrontare la questione della partecipazione di atleti nord coreani ai giochi invernali, e il 5 gennaio il governo ha comunicato il rinvio a dopo lo svolgimento delle Olimpiadi e dei giochi paralimpici (8-18 marzo) delle annuali esercitazioni militari congiunte con gli Usa. Ed ecco che lo stesso giorno dalla Nord Corea è giunta l’accettazione di un bilaterale con la Corea del Sud, che si è tenuta il 9 gennaio nel villaggio di confine di Panmunjom, tra Cho e il presidente del Comitato nordcoreano per la riunificazione pacifica della Corea, Ri Son-gwon. Un incontro ad alto livello non si teneva da ben due anni e la stretta di mano tra i due capi delegazione ha fatto il giro del mondo.

Faremo ogni sforzo per fare dei Giochi di Pyongyang e delle paralimpiadi un ‘”festival di pace”,

ha detto Cho.

Come noto l’esito del bilaterale è andato benissimo, andando oltre il dossier Olimpiadi. Comunque non solo atleti di Pyongyang gareggeranno alle Olimpiadi invernali, ma il 13 gennaio è emersa l’ipotesi che possa partecipare una squadra congiunta delle due Coree nell’hockey femminile, e una squadra di bob a quattro composta da due atleti del Nord e due del Sud.

Anche in passato le Olimpiadi, estive o invernali, solo state latrici di un messaggio di pace. Si pensi per esempio e alle Olimpiadi di Roma 1960 e Tokyo 1964, ospitate quindici e diciannove anni dopo la fine della seconda guerra mondiale da due Paesi che l’avevano provocata: fecero comprendere a tutta l’opinione pubblica mondiale quello che la diplomazia e la politica aveva realizzato, cioè la piena integrazione dei paesi sconfitti nella comunità internazionale. Oppure si pensi alle prime vittorie di atleti africani (keniani ed etiopi) alle Olimpiadi di Città del Messico 1968, che fecero recepire plasticamente all’opinione pubblica europea la realtà della decolonizzazione. Per non parlare della finale di basket Usa-Urss a Monaco 1970, un anticipo del Processo di Helsinki del 1975, sfociato con la nascita della Csce.

Sono queste considerazioni che rendono ancora maggiore il rammarico per la rinuncia alle Olimpiadi del 2024 espresse dall’amministrazione di Virginia Raggi, ma direi dall’intera città, che ha seguito con annoiato disinteresse la vicenda, con soli pochi settori interessati agli aspetti economico-imprenditoriali, e con il solo mondo sportivo schierato in modo militante in favore dei Giochi.

L’aspetto più incredibile del modesto dibattito svoltosi attorno al tema “olimpiadi” è che nessuno ha osservato che esse sarebbero state ospitate esattamente un anno prima del Giubileo del 2025. Una coincidenza che può ripetersi ogni cent’anni. La sinergia tra questi due eventi, entrambi latori di un messaggio di pace universale, avrebbe potuto amplificare il messaggio stesso, declinandolo in modo originale. Questa circostanza, inoltre, avrebbe potuto contribuire a far ritrovare a Roma una propria identità che si è ampiamente smarrita. E qui veniamo alla crisi della città e non solo della sua classe politica.

Infatti, se è vero che l’attuale amministrazione capitolina sta mostrando tutta la sua pochezza che supera ogni immaginazione, la vera posta in gioco è la crisi profonda della città, del suo tessuto civile, culturale oltre che economico, che si manifesta nei comportamento incivile dei cittadini (es. lavatrici rotte lasciate in mezzo alla strada, auto parcheggiate in seconda/terza fila, ecc).

Va detto che Roma, da Porta Pia in poi, è sempre stata in bilico tra l’essere un città e una non-città. Se si guarda la crescita demografica, si vedrà che Roma è passata dai duecentomila abitanti del 1870, al milione del 1940, ai tre milioni raggiunti nei primi anni Ottanta del secolo scorso.

Nessuna città europea è aumentata di quindici volte in poco più di cent’anni, o è triplicata in tre decenni dopo la seconda guerra mondiale. Una esplosione avvenuta in particolare nel secondo dopo guerra, con frotte di immigrati venuti specie dal Sud, che non hanno mai sentito Roma come la loro città, anche per la sua ostilità a livello di qualità della vita (per esempio, l’assenza di metropolitane e di una rete di autobus efficiente). Il tutto anche per l’odio che a sua volta il potere politico ha sempre nutrito per Roma. I Savoia immaginavano come capitale del nuovo Regno la Roma di Cesare, e si ritrovarono quella dei Papi e delle centinaia di chiese, cosa da loro mai accettata; lo stesso dicasi per Mussolini che non a caso, come i Savoia, si è accanito contro gli sventramenti nel centro storico, per creare una nuova e illusoria Roma.

Il potere democristiano ha usato Roma per creare consenso: le masse di immigrati meridionali, messi a dormire in abitazioni ad edilizia intensiva costruiti dai “palazzinari” romani senza una logica urbanistica ma solo speculativa, denunciata da Antonio Cederna (il “Sacco di Roma”) sin dagli anni Cinquanta. Una città senza identità che ha perso anche il proprio dialetto, il romanesco, sostituito dal “borgataro” oggi ostentato da Giorgia Meloni: una creolizzazione dei dialetti meridionali parlati nelle borgate (anche esse suddivise in base alla provenienza regionale dei nuovi abitanti) con il vecchio romanesco.

Il tentativo di rilanciare la città attraverso la formazione di una sua identità forte fu fatto durante le sindacature di Francesco Rutelli e Walter Veltroni. Il primo ha puntato alla cultura (costruzione del Parco della musica, incremento delle mostre e degli eventi culturali promossi dal Comune, ecc.) oltre che alla dimensione europea della capitale, dotandola cioè di infrastrutture analoghe a quella delle grandi capitali europee (linee ferroviarie urbane, nuove linee di metropolitana e nuovo sistema di trasporto pubblico con le linee espresse dei bus, Nuova Fiera, ecc); il secondo, ha puntato sull’integrazione sociale, ancora sulla cultura (lancio della Festa del cinema) e sulla vocazione mondiale di Roma (data dalla presenza del Papa), con la Convocazione dei vertici dei premi Nobel della Pace, oltre che continuando su una “europeizzazione” a livello di infrastrutture.

Anche il primo atto della sfortunata sindacatura di Ignazio Marino, cioè la chiusura al traffico privato di via dei Fori imperiali, si inseriva nel tentativo di fare della cultura il perno su cui costruire l’identità di Roma che, con le sue tre università statali, due accademie statali ed una privata, l’università cattolica, due atenei privati e 24 atenei pontifici, è la città del mondo con il maggior numero di università e quindi di studenti. Proprio la presenza degli atenei pontifici contribuisce a dare alla città e al suo mondo accademico e studentesco una dimensione globale del tutto particolare.

Evidentemente il tentativo non ha attecchito perché dal 2008 si è assistito al continuo degrado civile e culturale di Roma, oltre che economico. Certo, rispetto a Milano, Roma non ha una classe imprenditoriale forte in grado di esercitare una leadership sulla città, a livello di proposta e di progettualità: un confronto tra l’assemblea di Assolombarda e quella di Confindustria Roma sarebbe impietoso. Roma vive di turismo (anche qui grazie al Papa), di pubblico impiego, imprenditoria pubblica e poca imprenditoria privata, nella quale predomina il settore delle costruzioni (che ha anche la proprietà del quotidiano Il Messaggero e, fino al 2016, de Il Tempo), che continua a divorare terreno vergine nelle periferie anziché puntare alla riqualificazione e recupero del vecchio, come avvenuto a Milano e nelle altre metropoli europee. Ma se il mondo imprenditoriale non ha dato grande prova di leadership sulla città, altrettanto si può dire di quello accademico, eppure abbiamo visto che di atenei a Roma ce ne sono.

L’unica leadership sulla città (a parte quella del Papa) rimane quella del calcio, in particolare della principale squadra, l’AS Roma: il suo tifo ha unito persone provenienti da molte regioni diverse senza nulla in comune tra loro. La supplenza identitaria della squadra di calcio spiega anche il modo ossessivo e isterico con cui la città vive questo sport.

In questo quadro non meraviglia che da parte della città l’unico approccio con cui è stato affrontato il tema delle Olimpiadi del 2024 sia stato quello economico: le Olimpiadi daranno lavoro a tanta gente, è stato detto. Il che sarebbe stato sicuramente vero, anche perché avrebbe portato capitali (dal Cio e dal bilancio dello stato) che non arriveranno in altro modo. Tuttavia questo approccio era chiaramente sfruttabile da chi per ragioni ideologiche era contrario alle Olimpiadi, come M5s e l’amministrazione Raggi, perché i Giochi alludono a valori come l’internazionalismo, lo scambio, ecc. che confliggono con quelli di chiusura e ripiegamento che il Movimento esprime. In fin dei conti la differenza tra Roma e Zagarolo è solo una questione di dimensioni, non di cultura, identità e ruolo. E così la sindaca Raggi ha detto “no alle Olimpiadi del mattone”.

Ma ogni olimpiade si declina nel modo in cui la città che la ospita decide di farlo: ospitarle all’insegna di un messaggio di pace e solidarietà (anche l’Expo di Milano, su suggerimento dell’ex sindaco Moratti, scelse come tema quello del cibo e dell’alimentazione che si apriva a questo messaggio), collegandosi idealmente al successivo Giubileo del 2025, avrebbe potuto dare un orizzonte culturale identitario alla città, e nel concreto avrebbe potuto tradursi in un approccio solidaristico anche nell’organizzazione, per esempio attraverso una progettazione urbana che puntasse al recupero delle aree dismesse o degradate per costruire i nuovi impianti e il villaggio olimpico, o alla realizzazione diffusa sul territorio di impianti pubblici (piste di atletica, play ground di basket, piscine, ecc) di cui Roma è sguarnita, come per altro aveva suggerito Roberto Giachetti.

Va ricordato che ad Hannover, per l’Expo 2000, alla fine le cubature della città diminuirono e aumentarono le aree verdi grazie ad un progetto incentrato sulla riqualificazione e il riuso della zona della Fiera.

Negli ultimi mesi si sta assistendo a una fuga delle imprese da Roma, con il trasferimento a Milano delle proprie sedi (Esso, Sky, ecc), la chiusura delle redazioni (Mediaset, Mondadori, Libero), o la chiusura tout court (il call center di Alma Viva, ecc). La mancanza di appeal imprenditoriale di una città, tuttavia, non dipende solo dal suo diradato tessuto economico o dalla sua scarsa infrastrutturazione, ma anche dalla sua identità sbiadita. Milano, ma anche Berlino dopo la riunificazione del 1989, o Barcellona dopo le Olimpiadi, sono diventate più attrattive grazie a una rinnovata identità.

E per rimanere in tema di deindustrializzazione di Roma, la seconda notizia di inizio anno che fa rimpiangere il No alle Olimpiadi è quella riguardante la vendita di Alitalia, che rimane forse l’azienda con più dipendenti a Roma. Gli acquirenti, a partire da Lufthansa, sono disponibili ad acquisire il vettore tricolore solo a patto di drastici tagli, la maggior parte dei quali colpirà persone che abitano a Roma.

Anche qui la domanda è semplice: se le Olimpiadi 2024 si fossero tenute a Roma, non è forse vero che Alitalia avrebbe avuto maggiori prospettive e quindi un maggior appeal per i possibili acquirenti? E questo è vero non solo per la parte viaggiante della compagnia, bensì anche per la parte a terra, legata all’handling nell’aeroporto di Fiumicino. Non occorre essere uno scienziato per capire, ma anche su questo punto dalla città non si sono sentite voci che lo facessero notare quando la sindaca Raggi e Beppe Grillo annunciarono il “No alle Olimpiadi del mattone”. Eppure Alitalia già allora era in grande affanno.

Quando negli anni Sessanta andavo alle elementari, circolavano delle barzellette i cui protagonisti erano un milanese, un po’ tonto, un napoletano, un po’ ignorante, e un romano, furbo e intelligente, che pronunciava la battuta finale. Il “no alle Olimpiadi” è stato deciso da un genovese, un milanese e un napoletano, con la romana a far questa volta lei la parte della tonta.

Olimpiadi. I rimpianti di Roma dopo la pax coreana ultima modifica: 2018-01-15T19:18:01+01:00 da GIOVANNI INNAMORATI
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