El Salvador. Chi lo salverà da Trump? Parla José Aníbal Meza

La Casa bianca ha deciso di farla finita con il trattato che permette a centinaia di migliaia di salvadoregni di risiedere negli Stati Uniti. È a rischio l'equilibrio di una società che non ha ancora superato il dramma della guerra civile ed è minata dalla delinquenza organizzata delle "pandillas"
CLAUDIO MADRICARDO
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[SAN SALVADOR]

Donald Trump ha deciso di mettere fine al TPS (Temporary Protected Status) a partire dal prossimo anno, buttando a mare un trattato che permette a duecentomila salvadoregni di risiedere negli Stati Uniti. Entrato in vigore dopo il terremoto del 2001, il trattato ha finora contribuito – grazie alle rimesse degli emigrati – a tenere in piedi El Salvador, il cui lento sviluppo economico è inoltre aggravato dalla forte presenza di delinquenza organizzata, le pandillas, che rappresentano una sorta di contropotere allo stato.

È facile prevedere che la fine dei benefici apportati nel Salvador dal TPS acuirà la crisi economica del paese, aggravandola sul piano demografico, dato che il piccolo stato centroamericano è sovrappopolato e l’emigrazione verso altri paesi è una costante della sua storia recente, ivi compreso il flusso verso l’Italia, dove, secondo dati diffusi dal consolato di Milano, i salvadoregni residenti sono più di quarantacinquemila.

Alla base del grande esodo c’è anche il lungo conflitto armato tra la dittatura e le formazioni di sinistra che hanno dato vita alla guerriglia durata dal 1980 al 1992, quando gli accordi di pace misero finalmente fine al sanguinoso conflitto.

Dei duecentomila salvadoregni oggetto delle attenzioni di The Donald, una minoranza rispetto al milione e mezzo che vive negli Stati Uniti, molti sceglieranno di rimanere come clandestini, pur di non fare ritorno in un paese che non saprebbe accoglierli, e considerando anche che un rientro di tutti in tempi rapidi, come vorrebbe il presidente americano, è del tutto impensabile. In nave o in aereo il rientro sembra difficile, e si è calcolato che con cinque voli alla settimana ci vorrebbe un anno.

Chi rientrerà andrà a ingrossare le pandillas, le bande criminali che fanno del Salvador uno dei paesi più violenti e insicuri al mondo, e la malavita aumenterà il suo controllo sociale in un paese impoverito dalla mancanza di rimesse dall’estero. Allo stato attuale il ministro degli esteri salvadoregno, espressione del Frente Farabundo Marti al governo, tratta con il dipartimento di stato e spera di far cambiare opinione agli Stati Uniti. Quanto a questi, se l’amministrazione Trump continuerà sulla strada intrapresa, aumenteranno i casi di clandestinità e verrà meno una quota di forza lavoro attualmente regolare. Un risultato poco consolante per Trump, al di là della propaganda fatta di fake news a beneficio del suo elettorato.

Il 16 novembre 1989 sei gesuiti furono assassinati nel campus della Universidad Centroamericana del Salvador. Fu uno spartiacque, che portò a una nuova fase di negoziati per porre fine alla guerra.

José Aníbal Meza è nato e cresciuto ad Aguilares, un paesino alla periferia di San Salvador che raggiungeva ogni giorno in bus per andare a scuola. Il suo amore per la lettura – riusciva a leggere fino a duecento libri all’anno – suscitò l’interesse dei suoi professori gesuiti che gli prestavano i libri, spesso non credendo possibile che li leggesse tanto velocemente. Una volta diplomato intraprese una carriera come insegnante popolare finché i gesuiti gli proposero di iniziare un percorso verso il sacerdozio, facendogli fare gli studi necessari a entrare nella Compagnia di Gesù.

Gesuita, ha vissuto in Honduras, Panama, Cile, Messico, Nicaragua fino a far ritorno nel suo paese dove ora è rettore dell’Externado San José, un istituto dove studiano milleottocento alunni delle scuole primarie e secondarie, e dove insegnano più di cento professori. Una specie di istituzione dell’insegnamento salvadoregno prossima a compiere i suoi primi cento anni di vita.

Aníbal ricorda come fosse ieri l’assassinio di monsignor Romero, di cui ama citare una frase emblematica: la víbora pica quién va descalzo (la vipera morde chi va scalzo), a denunciare la sostanziale ingiustizia del sistema giudiziario salvadoregno. Ricorda anche l’assassinio dei sei padri gesuiti della Univesidad Centroamericana (UCA), avvenuto nel novembre del 1989 per mano di soldati addestrati negli Stati Uniti: “I loro corpi sono stati trovati qui; di uno, sul selciato, c’era l’intero cervello” mi dice, e indica il prato su cui ora crescono le rose, davanti a quelle che furono le loro semplici abitazioni.

“Hanno voluto cancellare l’intelligenza”, commenta mostrandomi le foto strazianti della carneficina, della strage che segna uno spartiacque nella pur lunga teoria di assassini e violenza politica che ha segnato la tragica storia del piccolo paese centroamericano. Per questo Anibal Meza ha voluto che il nostro incontro avvenisse nella sede della UCA, visitando assieme il Museo de los Mártires, che l’università ospita, e le tombe dei sei gesuiti sepolti nella cappella.

José Aníbal Meza nel Museo de los Mártires ospitato nella UCA

In questi giorni nel Salvador si sta parlando molto dei duecentomila tuoi compatrioti a cu Trump vuole togliere i benefici del TPS. Che succederà secondo te?
Aumenteranno le difficoltà. Non solo di ordine demografico, ma anche di ordine economico, politico e sociale. Aumenteranno i problemi legati all’integrazione sociale, perché se quei duecentomila se ne sono andati è perché è impossibile integrarsi in questa società. O perché non hanno lavoro o perché sono stati minacciati dalla violenza delle pandillas. Questa gente ha sviluppato la propria vita attiva e lavorativa negli Stati Uniti e quindi ha costumi differenti. Dico questo perché conosco come vivono i salvadoregni fuori del paese. Hanno un modo diverso di fare. Per questo non sarà facile per loro integrarsi. Perché il migrante non può tornare a vivere con la sua famiglia di origine, per la quale costituisce un aiuto e non può essere un peso. Non ci sono nemmeno programmi tesi all’integrazione. Se non riusciamo a integrare quelli che vivono qui, ancor meno riusciremo a farlo con chi ritorna.

Sembra essere un problema di risorse. Si calcola che le rimesse ammontino a circa sei milioni di dollari all’anno. Se questo flusso di denaro cessa, la crisi economica del paese si aggrava.
Questo riguarda l’aspetto economico, che è destinato a generare il problema sociale. La verità è che non si ha idea di cosa possa produrre il ritorno di queste persone. Ci sono casi di gente che ha fatto ritorno nel Salvador con i propri risparmi e ha potuto investirli nel paese. Ma quelli che hanno usufruito del TPS è probabile che non abbiano avuto capacità di risparmio. Non hanno risorse per tornare e investire in una propria impresa.

Pare che il rientro di questa gente possa favorire il rafforzamento delle pandillas. Potresti spiegare di che fenomeno si tratta?
In primo luogo è un prodotto della guerra, dovuto alla grande presenza di gente armata. All’inizio è stato letto come un fenomeno di insofferenza giovanile, erano persone che si integravano in piccoli gruppi. Ma erano gruppi isolati. Non era un fenomeno organizzato o nazionale. Successivamente, con le persone che hanno fatto ritorno dagli Stati Uniti con esperienza organizzativa della delinquenza, le pandillas assumono una forma molto organizzata. Ora ci sono zone nel paese in cui non è possibile vivere senza la loro presenza.

A cosa si dedicano, al narcotraffico o al “pizzo”?
Si dedicano all’estorsione. La famiglia protegge chi si dedica all’estorsione. È curioso il fatto che dove esiste il narcotraffico non esiste la pandilla. Perché la pandilla rallenta il narcotraffico, lo danneggia, perché richiama la presenza più capillare della polizia. Senza dubbio esistono pandillas che si dedicano al narcotraffico, ma come spaccio di strada. Il pandillero possiede una cultura mafiosa, e se uno entra nella pandilla non ne può uscire. Se uno lascia la propria pandilla viene assassinato.

Come definiresti l’attuale situazione politico-economica del paese?
Non è molto favorevole, visto che il governo non riesce a garantire un buon livello di azione. Il governo attuale è di sinistra, e nell’opposizione rappresentata dal movimento ARENA c’è chi ha commesso violenze e omicidi. Ma l’opposizione è molto combattiva, ed è riuscita a far sì che il governo non intaccasse gli equilibri economici. In seguito agli accordi di pace, tuttavia, nel paese lo stato di diritto ha fatto passi avanti e ora ci sono più possibilità che la giustizia funzioni realmente e sia efficace.

Ci sono casi di violenza contro la stampa, come succede in Honduras?
El Salvador ha progredito abbastanza per quanto riguarda la libertà di espressione e i diritti individuali. Per quanto riguarda la libertà di stampa, non si verificano casi come in Honduras. Nel Salvador gli assassini per ragioni politiche sono finiti. La violenza contro la persona è causata dalla delinquenza economica.

Rimangono ferite aperte del periodo della guerra?
Sì, ne rimangono molte. Manca la parte del perdono. Le vittime o i loro parenti non hanno ricevuto scuse.

E gli assassini?
Hanno agito prepotentemente. Nessuno, per esempio, ha pagato per l’assassinio di Romero. Due o tre hanno pagato per l’assassinio dei gesuiti, i pesci piccoli. Ma quelli che contavano sono tuttora impuniti.

servizio fotografico di Giovanni Vianello

El Salvador. Chi lo salverà da Trump? Parla José Aníbal Meza ultima modifica: 2018-01-18T15:50:52+01:00 da CLAUDIO MADRICARDO
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