La Tunisia è tornata a protestare nelle strade, come riferisce su questa rivista Umberto De Giovannangeli. Per molti tunisini la situazione economica negli ultimi anni è peggiorata rispetto al regime del presidente Zine El Abidine Ben Ali. In particolare il settore turistico è in crisi dal 2015, l’anno degli attentati al Museo del Bardo e alla spiaggia di Sousse.
La legge finanziaria del 2018, nel tentativo di soddisfare le richieste di riforme strutturali presentate dal Fondo Monetario Internazionale in cambio di aiuti finanziari, ha alzato le tasse e i prezzi dei beni di base. A questa decisione è seguito poi il congelamento delle assunzioni nel settore pubblico, un moloch che assorbe circa i due terzi delle entrate statali ma che è stato per lungo tempo fonte di occupazione diversa dal settore turistico.
Della situazione abbiamo parlato con Kenneth Brown, arabista, esperto di Maghreb, fondatore e direttore della rivista Méditerranéennes/Mediterraneans e ricercatore presso la Maison des Sciences de l’Homme.

Il professor Kenneth Brown in un convegno a Fez
Ancora una volta la Tunisia al centro dell’attenzione internazionale, sette anni dopo la “rivoluzione dei gelsomini” che ha fatto cadere il regime di Ben Ali. Come siamo arrivati fino a qua?
Diciamo innanzitutto che la rivoluzione dei gelsomini che ha fatto cadere il regime di Ben Ali è stata guidata essenzialmente dalle classi medie e dalla borghesia secolarizzata tunisina. Che vedevano a ragione nel regime di Ben Ali uno stato di polizia, fondato sulla corruzione e sulla mancanza delle libertà essenziali. Con la vittoria della rivoluzione dei gelsomini c’è stata quindi un’apertura verso la vita democratica, culminata con le elezioni e il successivo processo di scrittura della nuova costituzione tunisina. Ma non tutti i problemi sono stati risolti, nonostante le promesse.
Quali?
I vari partiti di sinistra, che rappresentavano le istanze secolari tunisine, erano alcuni degli attori politici della nuova Tunisia. Tuttavia, gli strati popolari, quelli più poveri, hanno sempre visto in Ennahdha (il partito islamista moderato guidato da Rachid Ghannouchi, ndr) la possibile alternativa delle persone oneste contro la corruzione del regime di Ben Ali. Ennahdha, che non ha mai avuto la maggioranza per governare da solo il paese, è stato costretto a vari compromessi, con i partiti di sinistra e con i sindacati.
Se inizialmente c’è stato un momento di grande speranza dove i religiosi e i laici governavano insieme per migliorare le condizioni di vita economiche, sociali e politiche della popolazione, più di recente le cose sono cambiate.
Che cosa è accaduto?
Le recenti difficoltà all’interno della coalizione di governo, formato da Ennahdha e Nidaa Tounes del presidente Beji Caid Essebsi (il partito che riunisce tutte le forze laiche, di sinistra e social-liberali, ndr) hanno rafforzato questo sentimento di scontento. Che è un malessere anche per il mancato rinnovo della classe dirigente. E poi c’è la situazione economica degli ultimi anni.
In che situazione economica si trova la Tunisia?
Non bisogna dimenticare che gli estremisti religiosi hanno messo radici nel paese e che la loro azione (gli attentati al Museo del Bardo a Tunisi e alla spiaggia di Sousse, entrambi nel 2015, ndr) ha avuto effetti terribili sulla principale attività economica tunisina, il turismo.
L’aiuto finanziario straniero ha voluto poi fare della Tunisia un modello, nel tentativo di ridurne la corruzione e modernizzare il paese. Ma a condizione di avviare delle precise riforme economiche e sociali. Un’operazione affatto facile per la maggioranza di governo. E le speranze di crescita nel tempo sono state deluse: la mancanza di turismo, di investimenti e di aiuti stranieri hanno contribuito a portare alla situazione di oggi.
Qualcuno parla di nostalgia per Ben Ali.
Sicuramente c’è in parte questo sentimento. Il paese soffre della difficile situazione economica fino al punto di provare nostalgia per il regime di Ben Ali, quando il turismo era l’attività principale ed il paese godeva di un’economia florida.
I protagonisti della rivolta di questi giorni sono gli stessi del 2010?
C’è sicuramente la classe media tunisina ma anche una parte della popolazione più povera. Come già detto, quest’ultimi soprattutto si attendevano da Ennahdha delle politiche redistributive diverse. Che non sono arrivate. Che queste manifestazioni di scontento siano poi organizzate o spontanee, resta comunque molto difficile dirlo.
C’è il rischio che dalla rivolta si passi al caos politico e si assista ad una deriva autoritaria?
No, non ritengo sia un paese che rischia il caos politico. Il paese gode di molte libertà e vi sono molte divisioni politiche e socio-economiche che rendono difficile un esito autoritario degli eventi.
Rimangono però delle difficoltà economiche da risolvere che sono potenzialmente problematiche.
In questa situazione sembra che gli Stati Uniti e l’Unione Europea non siano molto presenti. È una sensazione che ha fondamento?
Credo che gli Stati Uniti e l’Unione Europea seguano attentamente le vicende. E credo che siano pronti ad aiutare la Tunisia, che rappresenta un modello per gli altri paesi della regione. La Tunisia è il solo paese dell’area con un governo eletto democraticamente, che gode delle libertà fondamentali e dove le forze religiose hanno accettato le regole del gioco democratico. Il solo tra i paesi della cosiddetta “Primavera araba” che ha avuto un esito positivo. Al momento Stati Uniti e Unione Europea non intervengono perché attendono che sia il governo tunisino a risolvere la situazione.
Il governo tunisino ha reagito con troppa violenza contro chi protestava?
La Tunisia potrebbe controllare la situazione senza la violenza che è stata utilizzata in questi giorni. Non dobbiamo però dimenticare il contesto. La Tunisia è in prima fila rispetto alle minacce dell’estremismo islamico. Molti tunisini inoltre sono andati a combattere in Siria e in Iraq, sotto le insegne dell’Isis. E il paese confina con la Libia, che è in una situazione di instabilità profonda.
Da parte del governo tunisino, quindi, l’esistenza di queste minacce potenziali ha giustificato l’uso della forza.
Nonostante la reazione del governo, ritengo comunque che la libertà di espressione resti molto forte nel paese.
La Tunisia rimane un paese politicamente molto “vivace”. In particolare rispetto ai paesi vicini, come l’Algeria, dove la situazione è molto difficile a causa della malattia del presidente Abdelaziz Bouteflika. Ci potrebbe essere un’evoluzione “tunisina” del regime algerino?
Penso di no. Vede, gli algerini sono stanchi. Stanchi della guerra civile che ha causato migliaia di morti e di una situazione politica da cui non vedono via d’uscita. Gli algerini sono in uno stato di attesa passiva. Non ci sono i movimenti sociali e politici che sono emersi in Tunisia. E che sono emersi nello stesso Marocco. In Algeria la fatica e la paura sono troppo forti al momento. Le forze dell’ordine algerine controllano il potere. E la fine della guerra civile non ha eliminato totalmente le forze ostili, che nel sud del paese sono minacciose.

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