Altro che abbandonare il campo mediorientale. Donald Trump non si fa da parte e forte del patto di ferro stretto con Arabia Saudita e Israele, spiazza l’Europa e mette all’angolo i palestinesi.
Da Davos, The Donald ha sentenziato che i palestinesi hanno “mancato di rispetto” agli Stati Uniti e annunciato la sospensione di centinaia di milioni di dollari di aiuti, a meno che Abu Mazen e compagnia non accettino di partecipare a colloqui di pace sotto l’egida di Washington. Altro che cedere il passo a Macron o alla Mogherini. Trump gioca all’attacco è sentenzia:
Loro (i palestinesi) hanno mancato di rispetto, la settimana scorsa, rifiutandosi di ricevere il nostro eccellente vice-presidente (Mike Pence, ndr).
Noi – aggiunge Trump – abbiamo donato loro centinaia di milioni” e “questi soldi non saranno più versati a meno che non accettino di partecipare a negoziati di pace” con Israele e sotto l’egida statunitense.
Prendere o lasciare.
L’inquilino della Casa Bianca dice di avere un piano di pace che, secondo indiscrezioni provenienti da Washington, e rilanciate dal quotidiano israeliano Haaretz, prevederebbe un mini-stato palestinese, ma non nei confini del 1967 e non con Gerusalemme Est come capitale.
Su Gerusalemme non si discute. Trump lo ribadisce chiaramente dopo il suo incontro in terra svizzera con il premier israeliano Benjamin Netanyahu: Gerusalemme è fuori, definitivamente, dal tavolo del negoziato. Israele “pagherà” facendo a sua volta concessioni per aver ottenuto in anticipo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale, avrebbe sostenuto Trump, senza ulteriori dettagli, nel colloquio con Netanyahu, stando a quanto riferisce il pool dei giornalisti che coprono la Casa Bianca.
Secondo fonti diplomatiche Washington sta per presentare il suo piano di pace, elaborato dal genero del presidente, Jared Kushner. II testo potrebbe diventare pubblico nel corso delle prossime settimane. Si basa soprattutto sul coinvolgimento delle potenze regionali, a partire dall’Arabia Saudita, che dovrebbe premere sui palestinesi per far accettare la proposta, fornendo anche le compensazioni economiche necessarie a convincerli dell’utilità dell’intesa.
Quanto alla capitale di questo (ipotetico) stato, il “peace team” statunitense (oltre a Kushner, ne fanno parte l’inviato speciale Jason Greenblatt, la vice consigliera per la sicurezza nazionale Dina Powell, l’ambasciatore statunitense in Israele David Friedman e il console generale di Gerusalemme Don Blome) avrebbe rispolverato una vecchia idea di passati negoziatori Usa: quella di Abu Dis, sobborgo in prossimità di Gerusalemme Est, come capitale dello stato di Palestina, con l’aggiunta di un ponte che garantirebbe un accesso diretto dalla “capitale” alla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme Est (terzo luogo sacro, con le sue due moschee, dell’Islam).
Netanyahu incassa il sostegno dell’“amico Donald” ma, da politico pragmatico, sa bene che oggi in Medio Oriente a dare le carte è un signore che risiede al Cremlino. Ecco allora la notizia che il primo ministro israeliano si recherà a Mosca il 29 gennaio per incontrare il presidente russo, Vladimir Putin. Lo riferisce un comunicato dell’ufficio di Netanyahu.
Al centro dei colloqui il conflitto in Siria ed il coinvolgimento dell’Iran che non risulta gradito al governo di Gerusalemme, preoccupato per la creazione del cosiddetto asse sciita. L’ultimo incontro fra i due leader risale ad agosto 2017, avvenuto a Sochi.
Secondo quanto riporta l’ufficio di Netanyahu, il premier israeliano ha dichiarato nel corso del Forum economico in corso a Davos che non consentirà all’Iran di stabilirsi in Siria dopo che sarà terminata la guerra.
Secondo Brandon Friedman, ricercatore e studioso presso il Dayan Center dell’Università di Tel Aviv, il coordinamento tra Stati Uniti e Arabia Saudita è totale.
Se le voci sulla stretta collaborazione tra Washington e Riyadh e l’esistenza di un canale diretto tra il principe ereditario Mohammed Bin Salman e il consigliere di Trump Jared Kushner sono vere, allora ci si può aspettare che i sauditi tentino di gestire Abbas
osserva Friedman.
Inizialmente potrebbe emergere una retorica aggressiva dei sauditi se gli Stati Uniti andranno avanti con il loro piano. Ma se c’è questa unità d’intenti, potrebbe essere compito degli stessi sauditi interloquire con i palestinesi. Non sarà facile
afferma lo studioso.
Ma è la direttrice su cui The Donald intende muoversi. Usando tutte le armi a sua disposizione. A cominciare dai dollari.
Oggi più della metà della popolazione palestinese, in particolare quella di Gaza, vive grazie agli aiuti internazionali. Non solo. La ricostruzione della Striscia dopo l’ultima guerra con Israele dell’estate 2014, è ancora tutta o quasi da realizzare, e senza i finanziamenti di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, la situazione rischia di precipitare in un’immane tragedia umanitaria che né l’Anp né Hamas sarebbero in grado di gestire.
Resterebbe la Turchia dell’ambizioso presidente Recep Tayyip Erdoğan, se non fosse che in questo momento la priorità di Ankara è fare la guerra ai curdi siriani dell’Ypg e realizzare una zona cuscinetto ai confini turco-siriani da far controllare, embrione di un futuro protettorato, dai fedeli miliziani dell’Esercito libero siriano (Els).
Se la questione di Gerusalemme è fuori dal tavolo, gli Usa resteranno fuori da quel tavolo.
Così Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente palestinese Abu Mazen, ha replicato – citato dalla Wafa – al discorso di Trump a Davos definendolo “inaccettabile”.
I palestinesi sono “pronti a impegnarsi in negoziati” con un processo di pace “basato su uno stato palestinese con Gerusalemme est capitale”.
Per Rudeinah, Trump “dovrebbe ritirare” la mossa su Gerusalemme:
La minaccia della politica di fame e sottomissione non funzionerà con il popolo palestinese.
Il punto è: su chi può davvero contare nel mondo arabo, Abu Mazen, per tenere botta alla pressione americana? Al di là delle dichiarazioni di principio, nessuno è pronto a “morire per al-Quds” [“la città sacra”, in arabo, Gerusalemme].
Non di certo le petromonarchie del Golfo, in primis l’Arabia Saudita, che hanno altre priorità nella loro agenda regionale: e la prima in assoluto è spezzare la mezzaluna sciita che si estende sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut.
Per Riyadh vale il vecchio principio secondo cui “il nemico del mio nemico, è mio amico”, e visto che per la dinastia Saud, e in primis per il principe ereditario Mohammad bin-Salman, il grande nemico è l’Iran, ecco allora spiegarsi l’alleanza, neanche più tanto nascosta, con Israele e il rafforzamento delle relazioni con gli Usa: un’alleanza suggellata, nel maggio scorso, dalla visita di Trump a Riyadh con la firma di accordi per la vendita di armi americane all’Arabia Saudita per oltre trecento miliardi di dollari.
Sulla base della stessa logica, Abu Mazen dovrebbe bussare alle porte di Teheran, se non fosse che l’ala conservatrice del regime teocratico-militare iraniano, quella che ha nella Guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, il suo punto di riferimento, e nei Guardiani della rivoluzione (Pasdaran) il potente braccio militare, abbia sul libro paga altri movimenti e fazioni armate in Medio Oriente, da Hezbollah in Libano agli Houthi in Yemen e, per venire alla Palestina, Hamas.
Certo, ci sarebbe l’Europa alla quale, nella sua visita del 22 gennaio scorso a Bruxelles, il presidente dell’Anp ha chiesto di riconoscere “rapidamente” e in modo unilaterale lo stato di Palestina, riequilibrando lo strappo compiuto da Trump su Gerusalemme.
Dai ministri degli esteri Ue, Abu Mazen ha ricevuto incoraggiamenti, promesse, ma nessun segnale nella direzione da lui sperata: al momento, nessun governo dei paesi dell’Unione europea seguirà l’esempio svedese nel riconoscere lo stato di Palestina. Al massimo, Bruxelles può prendere in considerazione la possibilità di avviare un processo di partnership codificata con l’Autorità palestinese.
Quanto a nuovi finanziamenti, qualcosa arriverà ma non tanto da recuperare il vuoto lasciato dai centinaia di milioni di dollari che Trump ha annunciato di non voler più dare ai palestinesi se non torneranno al tavolo del negoziato.
Un negoziato sotto l’egida di Washington.
Trump ha scelto da che parte stare, individuato gli alleati e gli strumenti per farsi largo nel caos mediorientale. In questo è andato a lezione da Vladimir Putin.
Ad Abu Mazen non resta che prenderne atto e far tesoro della lezione del fondatore dello stato d’Israele: David Ben Gurion. La lezione del meglio poco che niente. Accettare un mini-stato e poi vedere, magari facendo leva sulla “bomba demografica”.

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