Ci sono molti sentieri rurali e si può entrare in barca, in elicottero o con un ultraleggero, ma lavoriamo perché questo non avvenga, perché non possa entrare neanche nel bagagliaio di una macchina
In queste parole, realmente pronunciate dal ministro degli Interni spagnolo, Juan Ignacio Zoido, in un’intervista a Antena 3, sta tutto il ridicolo, e il dramma, in cui la politica spagnola si è avvitata.
A farla da padrone, adesso, è il timore del governo Rajoy che Carles Puigdemont possa presentarsi al Parlament per essere eletto, essendo l’unico che può avere i voti per l’investitura. Su Puigdemont – ex presidente catalano fuggito in Belgio e vincitore morale del voto che ha premiato la lista Junts pel Cat, solo seconda ma prima tra i nazionalisti catalani – pende un mandato di cattura che porterebbe a un suo arresto nel caso di rientro nei confini nazionali. Ma che venga arrestato da presidente eletto dopo aver beffato l’apparato di sicurezza spagnolo, dando nuovo fiato alle trombe degli indipendentisti, è un’eventualità che Madrid sta provando a evitare in ogni modo.
Dopo il voto del 21 dicembre – che ha sancito il successo elettorale della nuova destra antiautonomista di Ciudadanos (C’s), la vittoria politica degli indipendentisti che hanno confermato la loro maggioranza politica e la sconfitta delle sinistre, oltre alla quasi scomparsa del Partido popular catalano – il 17 gennaio la Camera catalana è riuscita a eleggere il suo presidente, il rappresentante di Esquerra repubblicana de Catalunya (Erc) Roger Torrent, che coi suoi 38 anni è il più giovane presidente del Parlament. Nelle sue mani è la difficile gestione di questa giornata. Due giorni fa il Tribunale Costituzionale ha sancito che un presidente può essere investito solo se fisicamente presente in aula, per sgomberare il campo da ogni tentativo di investitura “a distanza”, e ha negato la possibilità del voto telematico.
Secondo il tribunale, Puigdemont dovrà consegnarsi alla giustizia spagnola prima di essere eletto. Ma verrebbe certamente arrestato e, senza il suo voto, quello di Junqueras e dell’ex presidente dell’Assemblea nazionale catalana – entrambi deputati ma ora in carcere e ai quali è stata nuovamente respinta la richiesta di poter andare a votare l’investitura – oltre a quelli dei quattro ex ministri catalani attualmente in Belgio, i voti non sarebbero più sicuri. Vanno calcolate anche le divisioni nel fronte nazionalista catalano, con l’onnipresente scontro tra Erc e il Partito democratico europeo catalano (Pdecat) per l’egemonia della politica nazionalista e i tentativi di parte degli ex “catalanisti moderati” del Pdecat di trovare una via d’uscita dal cul de sac in cui si trovano – e sia questi che Erc potrebbero vedere bene di superare definitivamente lo “scoglio” Puigdemont.
Ma anche nel fronte “unionista” è in atto una battaglia tra il Partido popular e Ciudadanos. I sondaggi, per la prima volta, danno gli arancioni in vantaggio sui popolari in diverse zone del paese, e il nervosismo dalle parti di Rajoy è alle stelle. Nervosismo che si è espresso in occasione del viaggio che Carles Puigdemont ha deciso di fare in Danimarca la scorsa settimana. Il procuratore generale dello Stato, Julián Sánchez Melgar, ha pensato che fosse l’occasione per riattivare il mandato di cattura internazionale emesso in occasione della fuga in Belgio – poi ritirato perché il codice penale belga non riconosce alcuni dei reati spagnoli e quindi si rischiava un’estradizione per sole imputazioni minori. Un viaggio che metteva in imbarazzo il governo del Pp, sotto il tiro di C’s che lo accusa di eccessiva mollezza verso gli indipendentisti.

Il procuratore generale, Julián Sánchez Melgar
Sánchez Melgar è stato sensibile alle necessità del governo ma si è scontrato col giudice istruttore del Tribunale supremo, Pablo Llarena, titolare del caso Puigdemont, che ha respinto la richiesta. La motivazione di Llarena, però, di giuridico ha molto poco. Puigdemont «cercava la provocazione di un arresto all’estero», secondo il giudice del Supremo. Quella tra Llarena e Puigdemont è ormai una lotta personale che il giudice non vuole farsi scippare da altri. Altro schiaffo al governo di Madrid è stata la bocciatura da parte del Consiglio di Stato della richiesta del governo di annullamento preventivo della sessione di oggi del Parlament.
Giovedì scorso la vicepresidente Soraya Sáenz de Santamaría si presentava energica e assertiva ai giornalisti annunciando la richiesta, che però il consiglio di Stato bocciava senza appello – carenza di fondamenti giuridici – poche ore dopo. Un tentativo che nella sua grossolanità – la sospensione di un’assemblea elettiva perché potrebbero essere commessi dei reati non si era mai vista – denuncia lo sgomento del governo di Madrid davanti ai sondaggi e disvela ulteriormente la strumentalità politica dell’escalation dello scontro nazionalista.
Puigdemont, come ultima mossa, ha chiesto al Tribunale supremo un “salvacondotto”, che difficilmente sarà concesso, si è appellato al presidente del Parlament per chiederne la protezione e ha pubblicato su Twitter una foto della strada che conduce al Parlament, come a suggerire di essere già in Catalogna. Nel frattempo Erc si è rivolta al Costituzionale per chiedere l’annullamento delle misure cautelari emesse riguardo all’investitura di Puigdemont.
L’ex president ha cavalcato con astuzia la miopia madrilena che, invece di andare a vedere il bluff della mai dichiarata indipendenza ha finto di crederci, coprendo il ruolo di difensore dell’unità della patria minacciata dai secessionisti. Puigdemont ha vinto contro ogni pronostico elezioni che lo davano per spacciato, tenendo dietro Erc che contava di diventare il primo partito, ma alla quale invece il vittimismo del leader Oriol Junqueras in carcere non ha giovato. Gli indipendentisti hanno di nuovo vinto le elezioni, malgrado la scure dell’articolo 155 che ha commissariato la Generalitat catalana, e adesso siamo di nuovo con Puigdemont che vuole essere votato come presidente dell’Autonomia.

Oriol Junqueras
Cosa accadrà oggi? Ieri Torrent ha ricevuto posta. L’avvertimento del Costituzionale affinché impedisca l’investitura a distanza, una notifica formale che comporta l’imputazione per disobbedienza nel caso consenta il voto a distanza, per delega o ammetta la lettura da parte di un altro deputato di un discorso di Puigdemont. E la lettera in cui Puigdemont gli chiede che «adotti le misure necessarie per salvaguardare i diritti e le prerogative del Parlamento e dei suoi membri». Torrent potrebbe dunque iniziare la seduta e poi sospenderla, una volta constatata l’assenza di Puigdemont o la sua presenza; oppure procedere assumendo tutti i rischi che questo comporta o rimandare i lavori in attesa che il Tribunale Costituzionale si esprima sul ricorso di Erc.
C’è quindi grande incertezza. Il Parlament si riunisce per eleggere come presidente autonomico colui che Zoido cerca nei bagagliai delle auto che passano la frontiera spagnola. Un’incertezza che ha, però, solo sbocchi complicati, e pericolosi.
Se Torrent consentisse l’elezione di Puigdemont in sua presenza tutto verrebbe annullato e deputati, presidente eletto e presidenza del Parlament verrebbero certamente denunciati e rischierebbero di finire in galera, Puigdemont certamente subito. Si aprirebbe così un altro capitolo di uno scontro che sprofonderebbe ancor di più la Spagna in uno stato d’eccezione.
D’altra parte Puigdemont potrebbe consegnarsi alle autorità e chiedere di potersi presentare al Parlament. In caso di risposta positiva verrebbe incarcerato subito dopo l’elezione e inizierebbe certamente anche un procedimento per la sua inabilitazione. In ogni caso il conflitto tra legittimità rappresentativa e legalità non sarebbe sanato.
Torrent però potrebbe anche rispettare la decisione del Costituzionale e cercare un accordo tra i partiti per un altro candidato, che sarebbe probabilmente indicato dallo stesso Puigdemont. Il quale resterebbe all’estero recitando la parte del presidente legittimo in esilio. Almeno, la legislatura potrebbe cominciare.
Lo scontro interno al nazionalismo catalano potrebbe però non trovare un punto d’accordo e la sessione d’investitura risolversi in un nulla di fatto. Il che porterebbe a uno scenario complesso, col prosieguo dell’applicazione del 155 e il ricorso a nuove elezioni, probabilmente prima dell’estate, nelle quali Puigdemont tenterebbe di dare un ulteriore colpo a Erc consolidando la sua egemonia. Meno probabile è che Erc, assieme a una parte del Pdecat e altre forze, come i socialisti catalani, riesca a trovare i voti per superare la “questione Puigdemont”, aprendo una legislatura dalla durata non prevedibile. O che tenti lei, assieme ai nazionalisti anticapitalisti della Cup, di andare a una resa dei conti elettorale, dalla quale avrebbe più da perdere che da guadagnare.
La messa in scena di una secessione mai preparata né realmente compiuta, da parte catalana, e l’accettazione di quella finzione, con l’appalto ai tribunali e alla polizia, da parte di Madrid, hanno fatto di quella che era una questione squisitamente politica – come il rapporto economico tra lo stato centrale e l’Autonomia catalana – un discorso pubblico falso e apparentemente indistricabile, toccando profondamente la già malconcia democrazia spagnola.
La dissennata irresponsabilità della politica catalana e spagnola nel giocare col fuoco dello scontro tra nazionalismi; la rinuncia della stampa a esercitare la critica verso la politica e la scelta di schierarsi su uno dei due fronti senza voler vedere bugie, errori e pericoli delle loro condotte, ma anzi sposandone le posizioni, hanno determinato uno scenario nel quale sembra impossibile ricondurre i protagonisti alla ragione e imporre lo strumento della mediazione politica come risoluzione dei conflitti.
I danni di quanto avvenuto sono già evidenti. Le destre sono forti come mai in Spagna. Mai era accaduto in Catalogna che un partito anti autonomista vincesse le elezioni, mentre ogni opzione diversa è stata schiacciata. I socialisti catalani non hanno raccolto quanto credevano di raccogliere e la lista della sindaca di Barcellona, Ada Colau, ha perso voti e seggi. Le sinistre hanno pagato la loro subalternità allo scontro tra nazionalismi. I socialisti accogliendo acriticamente la deriva giudiziaria del governo di Madrid, i Comuns catalani e Podemos non essendo in grado di portare avanti un discorso autonomo che contrastasse la vulgata che racconta la possibilità di un nazionalismo di sinistra.
Il riflesso pavloviano davanti alla repressione di Madrid in occasione del primo ottobre, che ha portato a dire che il problema non era più il referendum ma la democrazia, non ha fatto che rafforzare la tenaglia nazionalista che ha schiacciato ogni differenza, mettendo anche a rischio la tenuta del governo d Barcellona. Una tenaglia, politica e mediatica, tanto forte che è bastato che il segretario dei socialisti catalani Miquel Iceta suggerisse la possibilità di un indulto per i carcerati indipendentisti per far crollare il partito nei sondaggi e poi nel voto reale, con i catalani della migrazione spagnola che hanno abbandonato il Psc e il Pp per C’s.

Ada Colau
Danni che non sono solo nei risultati elettorali ma nella polarizzazione e nella superficializzazione del discorso pubblico. La Catalogna è lacerata come mai, la sua forza economica e politica ridimensionata. La Spagna è costretta ad abbassare le sue stime del Pil e spreca tempo e democrazia nella risoluzione poliziesca e giuridica di questioni politiche, mentre la sua immagine pubblica all’estero resta segnata dalla repressione del primo ottobre, quando tentò di impedire con la forza quel referendum indipendentista che già non aveva più nessun valore legale.
La torsione democratica è stata portata avanti dai due fronti. Gli indipendentisti hanno ignorato le norme catalane quando hanno indetto il referendum e la legge che avrebbe dovuto governare il passaggio all’indipendenza, mai dichiarata, e alla repubblica, mai proclamata, impedendo con la forza della maggioranza alle opposizioni di agire tutte le garanzie che lo Statuto catalano e le norme congressuali prevedevano. Madrid ha messo in campo tutto l’apparato repressivo di un codice penale ancora legato alla dittatura franchista, che prevede reati la cui vaghezza consente al potere un esercizio arbitrario del diritto, come quello di “ribellione”, e scatenato l’azione di un sistema giudiziario, dipendente dalla politica che ne nomina gli organismi di garanzia, e che definisce “sedizione” azioni portate avanti senza nessuna forma di violenza né reali atti di valore legale. Perché, occorre ripeterlo, in nessun atto con valore legale il parlamento catalano ha mai dichiarato l’indipendenza e proclamato la repubblica.
L’Europa fa finta di non vedere, ma prima o poi si dovrà occupare di uno stato membro che consente l’arresto di rappresentanti popolari sulla base di accuse non circostanziate e che, una volta eletti, li tiene in carcere non consentendo l’attuazione del mandato popolare. Dovrà prima o poi esprimersi su tribunali che decidono di emettere o meno mandati di cattura sulla base di considerazioni politiche e non di diritto. Dovrà, nuovamente, richiamare la Spagna per la poca indipendenza del potere giudiziario e per leggi che contrastano coi principi comunitari del diritto.
Ma è la Spagna che dovrà riuscire a vedere il baratro in cui una classe politica, per mantenere o perdere quote di potere in una battaglia irresponsabile, la sta trascinando. In questo l’Europa, alla presa con tanti problemi e con la crisi del progetto continentale, non la aiuterà. Per ora, invece, è miope, assordata dal coro dei media contrapposti e abbagliata da una politica con straordinarie capacità di mentire.
Le speranze di riforma della democrazia spagnola, che gli ultimi dieci anni avevano suscitato, sembrano spente. Il sistema dei partiti e le classi dirigenti messe in crisi dall’esplodere della corruzione e dalla richiesta di partecipazione sembrano aver trovato una risposta in una lotta intestina feroce, che consente lo schiacciamento delle istanze di rinnovamento. Sull’onda dei nazionalismi contrapposti, che qualcuno ha definito «la maledizione spagnola».

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