L’ attacco all’accademia militare rivendicato dall’Isis. Quello contro il “Palazzo della pace” (103 morti, 235 feriti) portato a termine, con un’ambulanza-bomba, dai talebani. E prima ancora l’attentato a Jalalabad City contro la struttura ospedaliera di Save the Children, rivendicato dall’Isis, e sette giorni prima l’assalto (43 morti) all’hotel Intercontinental, nel cuore di Kabul.
Una guerra nella guerra per la supremazia nel fronte jihadista. Una guerra combattuta con gli strumenti del terrore: kamikaze, assalti coordinati, e ora anche ambulanze-bomba.
L’Afghanistan sostituisce Raqqa e Mosul diviene la trincea avanzata della Jihad globale.
Kabul come Tripoli, con un presidente, Ashraf Ghani, che non sembra controllare più, come il libico Fajez Al Serray, neanche il blindato cuore della capitale afghana.
Non si tratta solo di una disputa per il controllo del territorio. Perché dire Afghanistan significa parlare di traffico di droga, che frutta ai signori della guerra un giro di affari miliardario. Quella dei talebani è una holding plurimilionaria che supporta a pieno regime l’azione militare. Annota in proposito Marco Leofrigio, in un articolato saggio su AD (AnalisiDifesa):
Nei report del SIGAR del 2015 e del 2016 si legge che la “fabbrica” talebana di oppiacei mantiene salda la prima posizione mondiale, infatti l’eroina afgana raggiunge quasi tutto il globo, citiamo due dati: copre il “fabbisogno” del 90% del Canada e dell’85% circa delle richieste mondiali. La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. Un traffico enorme, fortemente consolidato nella sua catena di produzione-vendita-incasso di milioni di dollari di profitti. Il prodotto viaggia sfruttando tutti i mezzi di trasporto: le rotte aeree e marittime permettono all’eroina afgana di giungere ovunque (eccetto il Sud America, qui vi sono i cartelli narcos che hanno il “loro” prodotto). Le vie terrestri coinvolgono pesantemente Iran e Pakistan, costretti ad impiegare sempre più risorse per contrastare questi flussi…
Il responsabile dell’agenzia Onu anti-droga a Kabul, Andrey Avetisyan, realisticamente ammette: “il papavero fornisce sostentamento da tre a quattro milioni di afgani”, ovvero oltre il dieci percento della popolazione del Paese.
Purtroppo l’uso delle droghe si è via via diffuso anche tra la popolazione afgana, con una incidenza media del sei percento circa. UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) evidenzia che nel 2016 la produzione di oppio è aumentata del quarantatré percento, difatti nel 2015 la produzione totale era di 3300 tonnellate di oppio, mentre nel 2016 si è arrivati a oltre 4800 tonnellate. Ecco quindi un dato nuovo che emerge: questo incremento della produzione di oppio è collegata a una maggiore resa per ettaro.

La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. L’eroina afgana copre circa l’85% delle richieste mondiali.
I costi della sporca guerra sono enormi e sempre meno giustificabili senza una vittoria definitiva in vista. Dal 2001 solo gli Stati Uniti hanno speso 783 miliardi di dollari. Per Washington il dispiegamento di un solo soldato per un anno incide per circa un milione di dollari sul bilancio. Questa situazione continua a costare al tesoro statunitense tre miliardi di dollari al mese.
A ciò si aggiunge il prezzo, altissimo, in vite umane. I soldati della coalizione caduti dall’inizio della guerra – sedici anni fa – sono 3.529, di questi 2.393 americani e 54 italiani, e oltre 170.000 militari e civili locali. Il calcolo delle vittime afghane è più controverso. Almeno 35.000 militari, dai 20 ai 30.000 civili, secondo le stime dell’Onu e del Watson Institute della Brown University.
Ma i talebani hanno ora un concorrente agguerrito, ferocemente determinato a conquistare la guida della Jihad e degli affari a essa collegati: è lo Stato islamico. La regione, in cui Isis continua a crescere gettando la propria sfida ai talebani e dalla quale partono “missioni” terroristiche che nell’ultimo anno e mezzo hanno creato grossi problemi nelle due città di Kabul e Jalalabad, è quella del Khorasan, tra Afghanistan e Pakistan.
Prende, infatti, proprio il nome di Wilayat Khorasan, il movimento terroristico affiliato all’Isis in Afghanistan che è riuscito, pur di fronte all’azione di contrasto da parte di Usa ed esercito afghano, a guadagnare posizioni. Anche gli Usa, infatti, non riescono più a negare che l’Isis abbia ormai il controllo di vaste e popolate aree nella provincia di Nangarhar e che la sicurezza, nella zona, sia particolarmente deteriorata.
La strategia dell’Isis in Afghanistan è stata quella di attingere le nuove forze fresche proprio dal movimento talebano. Una recente inchiesta della BBC metteva in evidenza come l’adesione allo Stato islamico fosse divenuta economicamente più appetibile per gli afghani, considerato lo stipendio di 500 dollari mensili, con cui il movimento talebano (in guerra dal 2001) non può sicuramente entrare in concorrenza. Dunque, più si indeboliscono i talebani più si rafforza l’Isis.
E per contrastarne la penetrazione i talebani schierano le loro forze speciali contro l’Isis. Il loro nome ufficiale è saraqitah “Red Group”, “Danger Group” o “Red Cell”. L’Emirato islamico ha annunciato di aver schierato nell’est del paese, in particolare tra le province di Laghman e Nangarhar, le sue unità “top” per dare la caccia ai piccoli gruppi dell’Isis presenti in zona e consolidare la leadership. Ciò dopo che i miliziani dello Stato Islamico avevano inflitto perdite alla formazione concorrente, conquistando porzioni di territorio.
Finora, invece, i commando jihadisti avevano operato soprattutto nel sud della nazione asiatica, nella guerra contro le forze di sicurezza (ANSF) di Kabul. Perciò, l’Isis – che in passato era definita spregiativamente poco più di una banda di criminali – è stato promosso a nemico numero uno. Forse anche prima delle forze internazionali e delle istituzioni afghane.
Il pericolo di un progressivo sbilanciamento di forze a favore delle bandiere nere era stato denunciato dallo stesso leader Mullah Omar, ora defunto, in una lettera proprio rivolta al Califfo Al-Baghdadi. Nella stessa il Mullah intimava il Califfo di “non cercare di penetrare in Afghanistan” e che la sua azione stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano”.
Spiega un comandante talebano intervistato dal Guardian:
Nessuno sa chi sia la figura di riferimento di queste persone in Afghanistan e Pakistan. Semplicemente sono gruppi di una decina di persone che vanno su e giù per le montagne.
Le giovani reclute, sottolinea l’intervistato, e i talebani sono mondi separati. Entrambi i gruppi puntano all’imposizione della Sharia, la legge islamica, ma il Califfato non riconosce stati né confini nazionali, mentre i talebani sono nazionalisti che vogliono trasformare il proprio paese. Sempre secondo il comandante talebano intervistato dal Guardian, ci sarebbe anche una differenza dottrinale.
Quando le persone chiedono ai militanti del Califfato che missione stiano compiendo, loro rispondono “la vostra fede è debole e noi vogliamo renderla più forte.
Gli ideologi dell’Isis sarebbero quindi troppo settari e intolleranti per i talebani. Ed eserciterebbero una violenza cieca e insensata che i ribelli afgani avrebbero da anni respinto. Questi ultimi avrebbero quindi rinnegato la furia distruttrice verso opere d’arte e intere comunità esercitata in passato. Una guerra nella guerra.
Venticinque ottobre 2017: intensi scontri si susseguono nella provincia settentrionale afghana di Jawzjan fra militanti dei talebani e uomini dell’Isis, con almeno ventitré morti. Le vittime sono tredici seguaci del “Califfo” e dieci dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Lo scrive l’agenzia di stampa Pajhwok. La battaglia, simile a quelle che in passato hanno contrapposto i due gruppi nelle province di Nangarhar e Nuristan, si svolge nel distretto di QushTepa, come ha confermato all’agenzia il suo capo amministrativo, Aminullah.
La stessa fonte ha precisato che “le fazioni si stanno scontrando attualmente nei villaggi di Baiksar e Khanqa, facendo uso di armi sia pesanti che leggere”. Secondo Aminullah i Talebani avrebbero fatto convergere nella zona “almeno mille combattenti provenienti dalle province di Helmand, Ghor, Badghis e Faryab. Mille combattenti armai dai russi. Perché questa è l’altra, significativa novità, sul fronte afghano.
In funzione di contenimento della penetrazione dei foreign fighters di ritorno da Siria e Iraq nelle repubbliche caucasiche ex sovietiche, Mosca ha stretto un’alleanza “sotterranea” con i talebani. Nel luglio 2017 il giornale inglese Daily Mail e la Cnn pubblicavano una serie di foto, in cui alcuni talebani venivano ritratti in possesso di armi russe.
E ancora lo scorso 22 ottobre 2017 il Guardian riportava l’accusa esplicita fatta dal governo di Kabul contro Mosca, colpevole di continuare a rifornire di armi il movimento talebano. Si parla nello specifico, come era già stato dimostrato dalle foto, di armamenti leggeri e non eccessivamente sofisticati. Insomma mitragliatrici, lanciagranate e al massimo visori notturni per cecchini.

Zamir Kabulov, inviato del presidente Putin in Afghanistan. (Foto: Patrick Tsui/FCO)
Zamir Kabulov, inviato del presidente Putin in Afghanistan, sintetizza così la nuova politica: i talebani diventano i nostri alleati contro l’espansione di Abu Bakr al-Baghdadi in Asia centrale e Caucaso. In cambio, gli concediamo una patente di legittimità politica (e anche soldi e armi, ma questo Kabulov non può esplicitarlo). E anche in Afghanistan vale il patto d’azione Mosca-Teheran. Rispetto agli interessi militari e geopolitici, la religione viene accantonata e così l’Iran sciita si allea con i talebani sunniti.
L’obiettivo iraniano è quello di mantenere il governo afghano debole in due modi: aumentando la sua influenza nelle province occidentali afghane, vicine al suo confine, come Farah e Herat; e sostenendo i talebani, che si oppongono anche alla presenza in Afghanistan degli americani e dello Stato islamico, entrambi nemici dell’Iran. E a rendere ancora più ingovernabile il paese è la frammentazione etnico-tribale, che ha assunto tratti sempre più profondi: alla maggioranza etnica Pashtunsi aggiungono Tajiki, Hazara, Uzbechi, Aimak, Turkmeni e Baluchi.
Questo è il quadro afghano a sedici anni dall’inizio di una guerra che avrebbe dovuto distruggere al Qaeda, liquidare i talebani, sradicare i gruppi jihadisti, rafforzare la sicurezza internazionale. Gli attentati a raffica che insanguinano Kabul raccontano un’altra storia. La storia di una guerra perduta (stavolta dall’Occidente, come prima era avvenuto per l’Armata rossa) nel “cimitero degli imperi”.

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