[PARIGI]
I problemi della società di oggi non sono più quelli di cinquant’anni fa. Gli operai nel senso antico del termine non esistono più, la produzione non avviene più in luoghi specifici e la finanza globale tiene le redini del sistema.
La società postindustriale in cui viviamo richiede soluzioni nuove, in grado di rispondere alle esigenze di una forza lavoro che è radicalmente cambiata.
Come evitare di arrendersi a una realtà socialmente confusa, precarizzata, dove il lavoro è diventato aleatorio e i salari estremamente più miseri? Da dove passano oggi le battaglie per la libertà e l’uguaglianza? Ne abbiamo discusso con Toni Negri, attivista e filosofo di fama internazionale, autore di diverse opere, come Impero, Moltitudine o il più recente Assembly, in cui ha teorizzato un sistema alternativo a quello attuale, imperniato sul superamento della proprietà privata e la costruzione del “comune”.

Toni Negri
Toni Negri, Com’è cambiata la società rispetto a cinquant’anni fa?
La società è cambiata dalla metà degli anni Settanta, quando si conclusero i trent’anni gloriosi e con loro terminò la struttura fordista, taylorista e keynesiana della società industriale di allora. In quel momento, si entrò in una fase nuova, che chiamiamo ormai postindustriale.
Perché “postindustriale”?
Perché il comando non viene più direttamente dagli industriali, ma viene da strati della finanza globale. La società è ormai dominata da élite politiche forgiate intorno alla finanza globale. Il taylorismo è finito, nel senso che, se ancora c’è, si applica a ben altro tipo di lavoro – un lavoro ormai intellettualizzato, fatto in ambito informatico, che è fondamentalmente immateriale.
Una trasformazione radicale del lavoro…
Gli operai nel senso antico della parola non ci sono più. La forza lavoro è normalmente scolarizzata almeno fino ai diciott’anni, con punte fino ai ventidue e ventitré anni in alcuni paesi, come Francia e Germania.
Questa forza lavoro può ancora unirsi e resistere?
La forza lavoro si trova di fronte a dei problemi che non sono più determinati dal suo “essere al lavoro” ma, piuttosto, dalla precarietà diffusa del lavoro e dalla mancanza di mediazione forte tra i lavoratori e quelli che potremmo definire come “estrattori di plusvalore”, gli accumulatori. I sindacati sono saltati e la forma del lavoro è assolutamente irrecuperabile a una dimensione media, nel senso che il lavoro è socialmente diffuso, la produzione non avviene più in luoghi specifici.
E la politica, come ha reagito?
Il superamento dell’industria fordista, di un salariato taylorizzato e di una macroeconomia keynesiana ha segnato anche la fine della classe politica.
Le due grandi forme di governo che si erano imposte dalla fine della seconda guerra mondiale, il centrodestra fondamentalmente cristiano e il centrosinistra socialdemocratico sono due forze in sfacelo, che possono vivere soltanto identificandosi nelle grandi coalizioni, dimostrando così di non avere diversità. Non riescono a determinare una dinamica di governo e di consenso. In tal senso, manca una mediazione non solo sociale ma anche politica.
All’interno di questa nuova dimensione del lavoro, quali spazi offre l’innovazione tecnologica all’azione politica?
Le tecnologie si modificano sulla base di quelle che sono le disponibilità della forza lavoro. Ad esempio, è chiaro che una forza lavoro che era portata dalle campagne e inserita nelle fabbriche aveva bisogno di una divisione del lavoro molto netta, con una catena che rendeva razionale il lavoro, trasformando tutto questo in una produzione massiccia di merci. Oggi la situazione è completamente diversa: la forza lavoro è normalmente qualificata e viene immessa dentro dei circuiti sociali di valorizzazione. E tutto questo passa per la costruzione di nuove tecnologie.
Le nuove tecnologie possono aiutare la forza lavoro a liberarsi?
La forza lavoro si libera solamente tanto quando decide di liberarsi. In questo senso, è al contempo subiectum e subiectus. Subiectum in quanto implicata in un meccanismo produttivo di cui la tecnologia è l’asse portante. Subiectus perché il capitale non esiste senza il lavoro.
Il capitale è sempre stato un rapporto di forza ma, per essere un rapporto, necessita una mediazione tra due realtà, che oggi sono estremamente distaccate. Da un lato, la capacità di comando si è spostata estremamente in alto, a livello finanziario e globale. Dall’altro, la forza lavoro vive su un terreno socialmente confuso, diffuso e precarizzato, dove il lavoro è diventato aleatorio e i salari estremamente più miseri.
Sempre a proposito del potenziale delle nuove tecnologie, cosa pensa del movimento di protesta #metoo, che ha potuto contare sulla potente accelerazione datagli dai social media?
È un movimento estremamente interessante, anche se molto legato alla moda e per certi versi mistificante di altri aspetti del movimento femminile.
Ci spieghi meglio…
Nelle lotte sociali, le donne hanno oggi un ruolo preminente rispetto a quello degli uomini e anche rispetto a quello dei lavoratori. Penso a lotte come “Non una di meno”, che è una lotta non semplicemente contro la violenza sessuale, ma contro la violenza che viene più in generale esercitata contro le donne, che è salariale e che tende a escluderle dai vertici dell’organizzazione sociale, oltre che da infinite funzioni. Il tutto mentre elementi che una volta si definivano “femminili” – come intellettualità e affettività – sono caratteristiche fondamentali del lavoro intellettuale e immateriale. C’è un nuovo modo di lavorare che vale per tutti, in cui gli elementi di affettività e passionalità devono essere integrati alla razionalità e alla forza tipiche del lavoro maschile.
Da questo punto di vista, ho l’impressione che il #metoo sia stata una cosa molto limitata rispetto a quello che è il movimento contro la violenza.
Per quanto riguarda il rapporto tra movimenti sociali e politica, cosa pensa di partiti come Syriza e Podemos, nati da forti movimenti di protesta?
Syriza è stata schiacciata dalla condizione in cui si è trovata non appena ha conquistato il governo. Ha fatto un miracolo nel mantenere a galla la Grecia e questo le è costato la dispersione delle forze che la sostenevano. Oggi, poi, ho l’impressione che si stia comportando in maniera assai banalmente simile ai vecchi partiti, con questo tentativo di delegittimazione di sindacati e movimenti o questa politica di sequestro delle case delle persone che la crisi ha reso incapaci di pagare.
E Podemos?
Podemos ha avuto una fase di grande apertura ai movimenti, che è stata quella fisarmonica che a me piace immaginare, con una capacità strategica affidata ai movimenti e una capacità tattica conferita invece alla leadership. Questo è stato anche vero soprattutto perché la pressione di alcune esperienze di fondo dei movimenti, come quello di Ada Colau a Barcellona, è stata predominante nella dinamica dei movimenti e quindi è stata in qualche maniera assorbita dal partito. Adesso la situazione è diversa: la situazione spagnola è travolta da questa terribile, folle vicenda catalana, dove entrambe le parti in campo sono espressione di fenomeni ottocenteschi, completamente dominati e controllati dalla classe dirigente. Con la crisi catalana non va in crisi Podemos ma la forza che è stata emblematica e fondamentale del Movimento del 15 maggio (noto anche come Indignados, ndr), la forza della rivolta spagnola.

Indignados riuniti nella Plaza del Sol, Madrid
Il colpo di coda del nazionalismo è una dinamica che si osserva un po’ in tutta Europa…
In Europa qualsiasi possibilità è castrata da quella che ormai è diventata una struttura materiale della costituzione europea, ovvero il neoliberalismo. È quasi impossibile uscirne.
Che ne sarà in questo contesto della sinistra europea?
Per quanto riguarda la sinistra socialdemocratica, si tratta di forze ormai in sfacelo. Ci sono poi tutte quelle altre nuove forze di sinistra, caratterizzate da un populismo antieuropeo, come nel caso di Mélenchon in Francia, che ha adottato un populismo completamente nazionalista. È difficile immaginare che nasca un movimento di sinistra effettivo in Europa. Io sono comunque, personalmente, completamente convinto che questa sia la cosa da fare.
Una prospettiva senza speranze quindi?
Il problema è che, finché non ci sarà un nuovo Sessantotto, una cosa del genere in Europa non ci sarà mai. Le passioni iniziali europee – cioè la fine delle guerre nel continente e la capacità di sopravvivere al periodo postcoloniale e di creare un nuovo polo di referenza – sono state schiacciate dagli Stati Uniti, che l’Europa non l’hanno mai voluta e che dopo la fine della guerra fredda serve loro ben poco. Ma l’Europa resta ingabbiata nel patto atlantico, incapace di qualsiasi autonomia.
Meglio uscire da questa Europa?
Assolutamente no. Non sto pensando a un fuori, a un’Italia o a una Francia in cui ci sia una reale capacità di governo, a un partito che spacca l’Europa e in qualche modo la ricostruisce. L’unica possibilità è un movimento europeista di sinistra che cominci a parlare di comunismo. Non c’è alternativa. O si comincia a parlare di comune, di beni comuni, costruendo uno spazio di azione su questo terreno, o per l’Europa è finita.
Cosa significa oggi parlare di comune e di beni comuni?
Il problema grosso è che c’è una povertà che va organizzata. Con programmi che vanno dal reddito di cittadinanza incondizionato a quella che è una forte tassazione dei redditi che vengono estratti dalla comunità sociale. Il tutto unito all’incremento di certe tecnologie che si colleghino al comune. Comune vuol dire stare insieme assieme, costruire insieme in maniera eguale e rispettosa l’uno dell’altro, determinare incontri, rispettare la natura e costruire un mondo che sia fisicamente decente.
Il reddito di cittadinanza è la proposta del Movimento Cinque Stelle…
Magari il Movimento Cinque Stelle parlasse di reddito di cittadinanza! Parla di una specie di reddito che sarà per strati. Io parlo di reddito incondizionato, per tutti. Questa è l’unica base sulla quale si ricostruisce un’unità di chi ha bisogno e la possibilità di contrattare, la possibilità di muoversi socialmente.
Le faccio l’esempio del Brasile. Qui la concessione della cosiddetta “bolsa familia” ha determinato la riattivazione politica dei percettori di questo tipo di aiuto. Si tratta di riattivare politicamente questi strati di popolazione.
Quindi cosa pensa dei Cinque Stelle?
I fondatori dei Cinque Stelle, in particolare Casaleggio, sono stati particolarmente intelligenti nel comprendere la possibilità di sviluppare una democrazia informatica più o meno partecipativa, ma sono totalmente privi di obiettivi che vadano al di là della permanenza nel sistema.
Cosa rappresenta oggi la proprietà privata e come può essere superata?
Ci sono due disgrazie che abbiamo ereditato dal Ventesimo secolo. La proprietà privata e i confini, che sono due cose legate assieme. La proprietà privata, infatti, risponde alla logica del “questo è mio”, mentre i confini a quella del “questo è nostro”.
Viviamo bene, certo, soprattutto se la gente è stata troppo povera, o ha vissuto sofferenze e dolori. Ma non siamo liberi. Libertà e uguaglianza sono dei termini assolutamente fondamentali e difficilmente estraibili dalla coscienza comune del presente.
Il grande problema oggi è riagitare dei modelli di libertà.
Se non in Europa, dove possiamo trovarli questi modelli di libertà?
Fuori dall’Europa non vedo un granché. Ci sono i grandi movimenti americani, estremamente interessanti, come Black Lives Matter, o ancora più interessanti, i movimenti indigeni, sia nel Nord America che in America Latina. Sono movimenti che rivendicano spazi comuni, per tutti, dove il concetto di proprietà privata e il modo di dividersi le cose non esistono quasi più.
E poi?
E poi ci sono i grandi movimenti contro l’estrazione del comune naturale, cioè di tutti i beni della terra, che esistono dappertutto. Come in Italia i No Tav.
Sono movimenti molto interessanti perché si pongono veramente il problema della costruzione del comune e del superamento della proprietà privata. Questo è già nello spirito della gente e soprattutto dei capitalisti. Il capitale sa perfettamente che ormai non sfrutta più individui ma sfrutta solamente comune, perché sfrutta delle persone che condividono linguaggi e codici che sono, per l’appunto, comuni. In tal senso, in termini di organizzazione del lavoro, oggi è più importante quello che dico al mio collega che quello che mi dice il padrone.
Quindi?
Il problema non è cercare movimenti ma costruirli. La base dell’esistenza del comune c’è, si tratta di farla venire fuori. Ci vorranno anni, ma intanto spuntano questi fenomeni che sono estremamente interessanti.

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