Finora nelle trattative per la formazione del nuovo governo tedesco la questione dell’export delle armi ha svolto un ruolo tutto sommato marginale. All’argomento la bozza che fissava i punti dei colloqui preliminari dedicava poco spazio. Solo sette righe, anche se il concetto lì riassunto era netto: le esportazioni di materiale bellico vanno ristrette. Altrettanta chiarezza si troverà invece nel documento programmatico finale, che in Germania fissa le cornici degli esecutivi?
Nel quadriennio scorso infatti la coalizione che ha animato la precedente legislatura, identica alla futura riguardo i partiti che la componevano, non si è comportata secondo quei dettami.
Al contrario tra 2013 e 2017, Cdu, Csu e Spd hanno permesso livelli di export militare superiori a quanto fatto dall’alleanza politica – Cdu, Csu e i liberali di Fdp – che aveva governato prima di loro. Con l’ultimo governo il totale delle esportazioni belliche tedesche ha raggiunto il valore di 25 miliardi di euro. Il venti per cento in più rispetto alla legislatura precedente.
Altrettanta importanza riveste l’aspetto dell’aumento delle forniture di armi verso paesi esterni allo spazio Ue e Nato: il quarantacinque per cento in più, pari a 14,5 miliardi di euro.
Come dimostra un documento del ministero tedesco dell’economia, la crescita dell’export di armi destinate al solo mondo arabo ha apportato nelle casse della Bundesrepublik aumenti per 3,8 miliardi di euro. Tra i maggiori acquirenti di armi la Germania conta l’Algeria con 1,41 miliardi di euro e l’Egitto con 708 milioni.
Cifre diventate pubbliche a seguito di un’interrogazione parlamentare dei deputati della Linkspartei, forza politica dell’estrema sinistra tedesca.
Secondo il ministero si tratta di numeri provvisori che non devono oscurare l’altro dato qualitativo della faccenda. In tutti i paesi che teoricamente sono alleati della Bundesrepublik la vendita di armi tedesche è diminuita passando dai 6,8 miliardi di euro del periodo 2009-2012, agli attuali 6,2. Fatto che secondo un portavoce del governo dimostrerebbe
la linea attenta e restrittiva seguita dall’esecutivo in materia di esportazioni di armi.
Occorre però dire che rispetto a quanto accadeva in un passato nemmeno tanto lontano, 6,2 miliardi di euro di export di materiale bellico rappresentano una cifra relativamente alta. Nel 2013 la Spd e l’allora ministro degli affari economici, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, avevano promesso che in materia di export militare le limitazioni sarebbero state severe.
Secondo il responsabile del gruppo parlamentare della Linke, Dietmar Bartsch, il governo uscente ha al contrario portato questo tipo di commercio a “livelli di un impensabile degrado morale”.
Sulla stessa lunghezza d’onda si trovano i Verdi secondo cui quei numeri sono equivalenti a una “bancarotta” etica. Naturalmente le immagini dove si vede l’esercito turco invadere le frontiere siriane per attaccare la città curda di Afrin con l’appoggio dei blindati tedeschi, a Berlino hanno reso ancora più complesse le trattative per la formazione dell’esecutivo.
Nonostante tanto clamore nessuno tra i produttori di armi crede che in futuro gli affari del settore possano subire una stretta. Se così fosse, affermano, a pagarne le conseguenze sarebbero soprattutto forme di cooperazione, per esempio quelle tra imprese tedesche e francesi, molto apprezzate. Inoltre, così facendo, si metterebbero in pericolo progetti comuni miranti a standardizzare la produzione europea di armi.
Senza contare le pressioni provenienti dagli Usa affinché i paesi europei della Nato aumentino il proprio contributo alle spese dell’alleanza militare.
Ostacoli che il produttore tedesco di armi, Krauss-Maffei-Wegmann, tenta di superare associandosi alla francese Nexter. Le due aziende, che insieme dispongono di seimila e novecento collaboratori e un fatturato di 2,7 miliardi di euro, collaborano allo sviluppo del successore del panzer Leopard 2.
Il grande pubblico ha potuto conoscere la Krauss-Maffei-Wegmann grazie a un contratto stipulato col Qatar.
Nel 2013, col beneplacito del governo tedesco, l’azienda di Monaco ha consegnato al paese del Golfo ventiquattro Panzerhaubitzen (nella foto in alto), PzH, e sessantadue carri armati Leopard. Il Panzerhaubitz, il mezzo più moderno della sua categoria, è un obice semovente da 155/52 mm con un sistema del controllo del tiro molto sofisticato, e dispone inoltre di gps e navigatore inerziale.
Il contratto col Qatar stipulato cinque anni fa e completato nel 2017 prevedeva forniture per un valore di 1,9 miliardi di euro. Non sono solo le aziende militari ad opporsi a eventuali restrizioni del proprio business. Resistenze verso le limitazioni nei confronti di questo tipo di commercio arrivano anche dai Länder tedeschi.
Per esempio il governo della Meclemburgo-Pomerania occidentale vuole continuare a costruire navi per l’Arabia Saudita. Per il primo ministro e per quello dell’economia del Land ex Ddr, l’eventuale giro di vite dell’export militare significherebbe non solo la perdita di posti di lavoro locali ma anche la fine del cantiere navale di Peenewerft.
Quest’officina, fondata dai sovietici nel 1948, entro il 2018 dovrà consegnare all’Arabia Saudita otto pattugliatori veloci. Si tratta di vascelli che sotto le bandiere di Riyadh potrebbero solcare le coste dello Yemen e persino intervenire in un conflitto civile che da circa diciotto mesi sta logorando uno dei paesi più poveri al mondo.
La Große Koalition al governo a Berlino impedirà l’affare che la Große Koalition alla guida della Meclemburgo-Pomerania occidentale vuole a tutti i costi portare avanti?
Nella questione dell’export militare di solito s’intrecciano tre aspetti: quello economico della salvaguardia dei posti di lavoro, quello etico del mantenimento della pace e quello strategico degli interessi dei soggetti politici e dei paesi coinvolti. Spesso, e la Germania non fa eccezione, si privilegiano le prime due questioni.
In una fase come l’attuale in cui i rapporti di forza globali si trasformano rapidamente non andrebbe però trascurato l’aspetto della quotidianità internazionale. Nel caso delle armi tedesche usate dalla Turchia in Siria la situazione è tutt’altro che chiara.
I curdi siriani contro cui è indirizzata l’operazione turca “ramo d’olivo” sono stati un importante alleato occidentale nella battaglia per sconfiggere l’Isis. Ora la loro aspirazione di autonomia o addirittura di indipendenza può destabilizzare il sud della Turchia, paese membro della Nato.
Parlando di “legittimi interessi” di Ankara, Berlino ha riconosciuto la complessità degli avvenimenti.
Sta qui la ragione per cui nei giorni scorsi la Germania ha cercato di disinnescare lo scontro interno sui Leopard e sull’export tedesco di armi. Una guerra che stava indebolendo tutti. E questo non conviene a nessuno.

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