Idalberto Fei ha pubblicato di recente, per i titoli de La Nuova Frontiera jr, “Gilgamesh. Il re della terra tra i fiumi”, versione del poema destinata ai giovanissimi e illustrata da Irene Rinaldi. Per la stessa collana ha scritto anche “Orlando Furioso” e “Innamorato” dai poemi di Ariosto e Boiardo e “Racconti d’inverno” (“Racconto d’inverno”, “Cimbelino”, “La tempesta”) da Shakespeare, di cui ci ha parlato in un precedente articolo. ytali gli ha proposto di offrirne un’anticipazione ai nostri lettori.
Il più antico viaggio iniziatico nella storia della letteratura, l’Epopea di Gilgamesc, nasce da un personaggio realmente esistito, Gilgamesc, re di Uruk – una città sull’Eufrate nell’antica Mesopotamia – vissuto intorno al 2650 a.C. e divenuto celebre per aver abbellito la sua capitale con opere magnifiche, soprattutto le grandi mura, costruite con milioni di mattoni d’argilla.
Notiamo per inciso che è proprio a Uruk che dobbiamo il nome attuale della regione: Iraq.
Una volta passato a miglior vita, il sovrano non fu dimenticato, anzi divenne figura immensa e leggendaria, protagonista nella fantasia dei poeti e dei cantori delle più diverse e spericolate avventure, così come avverrà, molti secoli dopo, per Alessandro Magno. Ma fin qui siamo nel campo, suggestivo e impalpabile, della trasmissione orale.
Soltanto intorno al 1.000 a.C. un poeta dal nome impossibile, Sin-leqe-unninni, definito esorcista, mettendoli per iscritto riunì i vari episodi a comporre un’unica epopea, dove interpolò anche, quasi una storia nella storia, l’episodio del Diluvio Universale, che apparteneva a un’altra saga. In un’epoca in cui la Bibbia non è stata ancora messa per iscritto, non esiste l’Iliade e tantomeno l’indiano Mahabarata, il misterioso poeta esorcista consegna all’umanità un capolavoro.
Quando tre secoli dopo Assurbanipal – uno dei pochi sovrani non analfabeti – crea a Ninive la sua grande biblioteca (che avrebbe dato ad Alessandro Magno l’idea per quella di Alessandria d’Egitto) L’epopea di Gilgamesc, scritta su molte fragili tavolette d’argilla in caratteri cuneiformi, di certo occupa un posto d’onore.
Poi guerre, devastazioni, invasioni che ancora ai nostri giorni offendono questa terra distruggono tutto, e dell’epopea non per secoli, ma per millenni, scompare perfino il ricordo. Bisogna aspettare la metà del XIX secolo perché fra queste rovine si affaccino degli archeologi europei.
La scrittura cuneiforme resta a lungo un mistero – all’inizio la scambiano per decorazioni geometriche – e le tavolette sono spesso in frantumi; quando si comincia a capirci qualcosa scoppiano liti furibonde fra studiosi, come il grottesco duello a ombrellate davanti al Louvre tra due rispettabili professori in redingote che si accusano reciprocamente di impostura.
Passano gli anni e gli studi comunque procedono finché una saggia commissione internazionale, per evitare insulti e ombrelli, affida copia di una stessa iscrizione a quattro professori sparpagliati in quattro parti del mondo; dopo parecchie settimane le quattro traduzioni grosso modo combaciano, ci si può fidare. Ed è così che fra contratti, inni religiosi, sentenze del tribunale, dalle tavolette d’argilla torna alla luce l’Epopea di Gilgamesc.
Bello, forte, ricco ma anche prepotente ed egocentrico, all’inizio della storia Gilgamesc si presenta come il re capriccioso di una favola: sue tutte le donne, tutti gli uomini ai suoi comandi. Finché i sudditi disperati invocano gli dei perché mandino qualcuno che gli possa tener testa. E gli dei li accontentano, gettano una pallina di argilla nella steppa e questa in pochi istanti diventa un uomo grande e forte come il cattivo sovrano. Enkidu si chiama, va in giro nudo, coperto da una peluria leonina, è animale fra gli animali, gioca con i lupi, mangia l’erba con le gazzelle, beve negli stagni con gli onagri. Allarmato un cacciatore che trova le trappole aperte e le reti strappate va in città e si fa dare la più bella delle dispensatrici di gioia, le prostitute sacre del tempio di Istar, la dea dell’amore. E quando Enkidu la vede bagnarsi nuda in uno stagno, perde la testa e per una settimana è solo sesso.
Quando esce dal vortice della voluttà, nota con dispiacere che gli animali fuggono da lui; la donna – una delle figure più belle del libro – lo conforta e spiega: ora, dopo averla incontrata, non è più una bestia, è diventato un essere umano; ora deve andare in città, a Uruk, e confrontarsi con Gilgamesc. E qui assistiamo alla prima mutazione del poema: Enkidu che da bestia si fa uomo grazie all’incontro con la donna.
Lo scontro fra i due avviene davanti a una casa dove si sta celebrando un matrimonio, Gilgamesc sta entrando per portarsi via la sposa. È una lotta furibonda, a mani nude, lunghissima, alla fine Enkidu abbatte il rivale ma, inaspettatamente, lo solleva dal suolo e lo dichiara vincitore. D’ora in poi saranno inseparabili amici, riflettendosi l’uno nell’altro, in un rapporto le cui implicazioni omoerotiche appaiano evidenti a una parte, solo a una parte però, della critica. D’ora in poi divideranno tutto: feste, cacce, bagni nell’Eufrate. E soprattutto grandi, impossibili, gloriose avventure. Ed ecco la seconda metamorfosi: grazie all’amicizia con Enkidu, da ragazzino egoista e capriccioso il bizzoso re delle fiabe comincia a umanizzarsi.
Terra povera di alberi, flessuose palme a parte, per i mesopotamici grandi tronchi erano indispensabili per costruire navi o solidi edifici, non avendoli andavano a cercarli a nord, verso il Libano, dove le popolazioni del luogo si difendevano a spada tratta da questa spoliazioni. Qui il mito è trasparente, ché nell’epopea di Gilgamesc gli dei hanno messo a guardia della foresta dei cedri il gigante Humbaba, protetto da sette mantelli e ognuno è un terrore. Riusciranno vincitori i due inseparabili amici da questa prova, come dalla successiva, l’uccisione del Toro del Cielo, bestia immensa nata dalla materializzazione della costellazione omonima, tutta l’opera è fitta di simboli fascinosi per gli studiosi della psiche umana. Gli dei comunque si legano al dito queste offese alla loro maestà e decidono di vendicarsi su Enkidu.
Così il giorno che il giovane – ben prima di Ulisse – scende negli Inferi per recuperare in quel luogo polveroso e grigio i magici amuleti smarriti dall’amico, non lo fanno tornare mai più sulla terra. Enkidu muore e per Gilgamesc è l’inizio di una disperazione senza fondo: è come se avesse visto morire se stesso, questo lui non può accettarlo; figlio di un mortale e di una dea è già immortale per tre quarti, non sarà impossibile conquistare quest’ultimo quarto.
Deve incontrare a tutti i costi Atta-Hasis, l’unico uomo immortale sulla terra, l’unico sopravvissuto al Diluvio Universale, colui che vive agli estremi confini del mondo.
Così il re abbandona Uruk e vestito come un semplice viandante, coperto da un mantello rosso – era questo il colore del lutto – inizia il suo lungo ossessivo viaggio, il successivo e più importante scatto nella storia.
Solitudine, freddo, caldo, paura attendono Gilgamesc, e soprattutto un pensiero ossessivo, martellante:
Dovrò morire anch’io, come lui? Ridurmi una pallida ombra, come lui? Ho un’angoscia che mi morde lo stomaco, devo arrivare a tutti i costi da Atta-Hasis e farmi svelare il segreto dell’immortalità.
Un giorno, vede alfine in lontananza i Monti Gemelli, nel mezzo c’è l’ingresso per il sotterraneo lungo e oscuro che il Sole percorre la notte per non essere visto e tornare all’alba a splendere a Oriente; i mostruosi Uomini Scorpione a custodia delle porte lo lasciano passare. E il re percorre quel lungo sotterraneo, sbuca nel Giardino delle Gemme, dove i frutti sono scintillanti pietre preziose, arriva al mare verde. Sulla riva c’è una taverna, la taverna della bella Siduri, che invano cerca di dissuaderlo dal suo forsennato progetto, riportandolo all’hic et nunc. Alla fine ci rinuncia e gli spiega come raggiungere Atta-Hasis navigando in quelle Acque Mortali dove una sola goccia può uccidere. E finalmente Gilgamesc arriva a destinazione, ascolta dall’uomo immortale il racconto del Diluvio Universale ma fallisce quella prova dei Sette Pani che avrebbe garantito anche a lui l’eternità.
È il momento di tornare. L’immortalità non è per lui, e ringiovanire nemmeno, ché una pianta magica, dono della moglie di Atta–Hasis, che consente di andare indietro negli anni, gliela mangia un vecchio serpente. Sì, è il momento di tornare, è il momento di accettare il suo destino di uomo, il suo ruolo nel grande teatro del mondo.
Forse, come in quella poesia di Azim Hikmet, vedendo un uomo vecchissimo piantare un albero, Gilgamesc ha finalmente capito che quel vecchio non lo faceva per sé, né per i suoi figli o nipoti, ma perché, pur temendo la morte, non voleva crederci.
Racconterò al mondo le imprese di Gilgamesc,
l’uomo che ha visto tutto,
il re che girò il mondo.
Gilgamesc era saggio,
conobbe cose segrete e misteriose,
ci raccontò il Diluvio Universale.
Fece un lungo viaggio poi, sfinito,
sfibrato dalla fatica,
fece ritorno a casa
ed allora
incise su una pietra la sua storia.
Illustrazioni di Irene Rinaldi

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