Per un attimo dimentichiamo Steven Spielberg, l’interpretazione straordinaria di Meryl Streep, nei panni di Kay Graham, editore di unWashington Post in piena evoluzione da giornale locale a nazionale, e di Tom Hanks, che interpreta il suo direttore, Ben Bradlee, custode di un’etica giornalistica sempre più rara.
Dimentichiamo anche il ritmo narrativo o il genere cinematografico che ha sempre accompagnato la carriera del regista.
E illuminiamo i veri protagonisti di The Post, tra le ultime opere di Spielberg, che spiccano sin dalle prime scene: la storia, nuda e cruda, la libertà di espressione e il diritto di pubblicare ciò che, secondo le autorità, potrebbe ledere le vite dei cittadini americani in nome di una sicurezza nazionale che, a tratti (lo abbiamo visto con il caso Snowden), può diventare la madre di tutte le forme di censura.
Spielberg lo fa con coraggio e, si capisce, mosso dall’urgenza, trattando uno degli episodi più gravi della storia degli Stati Uniti, una macchia indelebile sulla coscienza di quel sogno americano che predicava libertà e diritti, mentre consumava vite di giovani americani e di vietnamiti innocenti: la scoperta dei famosi Pentagon Papers, testi segreti che documentavano il ruolo del governo americano in Vietnam e nella regione dal 1945 al 1967.
Carte che facevano parte di uno studio dell’allora segretario alla difesa Robert McNamara e che testimoniavano un sistema di potere compatto nel difendere sistematicamente menzogne di stato.
Per far capire il messaggio Spielberg non si fa scrupoli a usare il concetto di continuità.
Perché non si parla solo di Nixon, ma anche dei suoi predecessori tra cui rientra anche il golden boy del pantheon politico dell’America dal volto buono, John Fitzgerald Kennedy.
La pubblicazione, grazie alla diffusione laboriosa da parte di Daniel Ellsberg (che si è confrontato qualche settimana fa proprio con Snowden sul Guardian), economista ed ex analista del Pentagono, sul New York Times nel 1971 e sul Washington Post segnano l’inizio di una crisi di fiducia tra i cittadini scesi in piazza a manifestare e lo stato, ma anche il distacco da una tradizionale familiarità tra sistema editoriale e potere che aveva portato esattamente nella direzione voluta dal governo: il silenzio e la censura preventiva.
Nixon cercò di usare tutti i mezzi giudiziari a propria disposizione per impedire la pubblicazione di ulteriori documenti, ma invano: la Corte suprema, con sei voti a favore, dichiarò, infatti, che
la stampa deve essere libera di pubblicare indipendentemente dalla fonte, senza censura, ingiunzioni o restrizioni preventive (prior restraint). L’obiettivo della stampa è quello di servire chi viene governato, non chi governa.
Una decisione che vide compatto il fronte dei media, con New York Times e Washington Post insieme in prima linea, al di là di ogni tipologia di concorrenza, per difendere il Primo emendamento.
Ed è qui che ritroviamo l’essenza del film.
Il protagonista per eccellenza dell’opera è il messaggio che Spielberg lancia all’opinione pubblica americana di oggi – We the People – che si sta battendo, ciascuno secondo le proprie possibilità e mezzi, per contrastare il presidente Donald Trump, responsabile di attacchi quotidiani ai media bollati di diffondere fake news, garantendo la copertura di eventi poco graditi al potere.
E lo fa rivolgendosi non solo a tutti i cittadini che credono ancora in un “sogno americano” basato sulla fiducia in un sistema democratico foriero di anticorpi per reagire ed “espellere” le minacce.
Ma anche al mondo della cultura, degli intellettuali, di una classe politica ancora incredula e, a tratti, incapace (lo dimostra la crisi del Partito democratico) di prevenire e gestire la rapida svolta degli eventi.
Alcuni l’hanno chiamata The New American Resistance che trionfa sui social media, nei Late Show, sulla stampa, all’estero e che sta cercando di portare avanti congiuntamente – e insistiamo sulla collegialità di questa azione – una campagna per risvegliare una parte di opinione pubblica ancora stordita, smarrita o distratta, in vista di una richiesta di impeachment che sembra non arrivare mai, malgrado il Russia Gate, gli scandali sessuali, la volontà di distruggere Obamacare o di bandire l’ingresso nel paese dei cittadini solo di alcuni paesi, distruggendo l’ideale dell’America della seconda opportunità e dell’accoglienza.
La scelta del regista di ricordare agli americani la polvere sotto il tappeto è decisiva ed estremamente delicata proprio in un momento storico in cui la capacità degli Stati Uniti di agire a livello nazionale e internazionale è sempre più debole.
Esporsi in una fase storica in cui la presidenza Putin, oltre alla presunta collusione e all’interferenza nelle ultime elezioni, ha un peso decisivo nell’amministrazione Trump è particolarmente significativo.
Al di là delle dichiarazioni – estremamente variabili – del Cremlino sulla stabilità o instabilità dei rapporti tra America e Russia, usate a fini elettorali o per influenzare l’opinione pubblica, non possiamo non notare il grado di scherno che caratterizza ormai l’approccio russo alla presidenza americana attuale.
Esattamente l’obiettivo che Putin stesso aveva stabilito un anno fa.
Fino a far rientrare in questa New American Resistance persino i dissidenti antiputiniani noti in tutto il mondo – tra cui il profilo politico satirico “Darth Putin” – cancellato da Twitter per alcuni giorni e poi ripristinato
Un profilo che proprio qualche giorno fa ha dichiarato che
l’arte suprema della guerra non è attaccare le istituzioni del tuo nemico, ma fare in modo che siano loro ad attaccarlo.
Questa è solo una delle tanti modalità che, contestando la gestione autoritaria di Putin, colgono l’occasione per sottolineare l’inadeguatezza e la “scellerata” gestione da parte di Trump. Il tutto accompagnato anche da intellettuali come Kasparov che denunciano ciò che sta avvenendo in America, proprio perché consapevoli dell’impossibilità di vivere in un paese costantemente sotto censura.
Non sappiamo il potere reale di questa Resistance estesa a livello globale, ma possiamo sperare che Stati Uniti riescano a ritrovare le proprie radici e tornare a infrastrutture democratiche forti e resistenti.
Malgrado l’esito scontato delle elezioni russe del prossimo mese di marzo, magari lo spirito antiputiniano di libertà e speranza potrà contribuire a liberare gli Stati Uniti.
E, con le dovute cautele e la giusta dose di ironia, magari sarà proprio Putin, involontariamente, a rafforzare gli Stati Uniti, favorendo l’arrivo di un nuovo presidente degno di questo nome.

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