Quanto accaduto a Macerata è solo una tappa di un cammino che è importante chiarire da dove parte, perché oggi a mio avviso ci indica un bivio, che può essere facilmente rappresentato così: Bergoglio o barbarie.
Papa Francesco infatti è l’unico leader globale che indica con chiarezza la via di una globalizzazione poliedrica, non quella uniformante come quella che oggi vediamo arrancare sotto i nostri sguardi, né quella del ritorno tribale che i populismi gli oppongono.
Questa visione Bergoglio la coltiva da quando era arcivescovo di Buenos Aires, infatti già nel 2000 seppe sottolineare che la città globale, con i suoi divertimenti ovunque uguali, i suoi centri commerciali ovunque uguali, i suoi prodotti ovunque uguali, entrava nello spazio della città locale, soffocandolo, determinando la chiusura di vecchie botteghe, di vecchi produzioni, cioè di culture. Le città locali divenivano solo ricettacolo di miseria, immondizie, mafie. La città globali di acquisti, svaghi, produzione. Quindi soggiunse:
Tanto l’identità personale quanto quella collettiva soffrono questa dissoluzione degli spazi: nell’attuale dinamica di frammentazione e segmentazione dei gruppi umani, il concetto di popolo si svuota progressivamente di contenuto.
Come è facile constatare la prospettiva indicata da papa Francesco nel 2016, quando incontrando il pastore protestante Traettino parlò di unità dei cristiana non uniformante, ma poliedrica, rispettosa dei diversi carismi, è la stessa.
L’importante, sottolineava già nel 2001, è che l’uomo sradicato in termini di spazio nella città locale non subisca anche lo sradicamento esistenziale e spirituale. Un uomo così profondamente sradicato, post-moderno, finirebbe inevitabilmente in un neo-nichilismo. E cosa faceva derivare da tutto ciò? La riabilitazione della razionalità, una riconciliazione con la modernità che è stata vittima della cultura del dominio.
Superando la teoria del suo maestro Romano Guardini, Bergoglio nella Evangelii Gaudium non riscontra questo “dominio” solo o esclusivamente nell’esperienza della modernità (nazismo, comunismo) ma anche in quella religiosa, con cedimenti al dominio, per esempio della natura, o in condotte occasionali.
Il suo appello alla riabilitazione della razionalità non può che mirare alla riconciliazione, basarsi su un pensiero aperto, e infatti già nel 2001, nel messaggio alle comunità educative, aggiungeva:
In primo luogo, non tutto è bianco e nero. Denunciare gli abusi della ragione (totalitarismi di ogni tipo, progetti storici e politici che hanno arrecato più sofferenza che felicità, svalutazione degli aspetti affettivi, personali e quotidiani, riduzione di tutto a calcolo, numero e concetto…) non significa gettare dalla finestra tutti i benefici che lo sviluppo razionale ha apportato. […]
Secondo: sebbene il discorso postmoderno che rivendica gli aspetti emozionali, relativi e finanche irrazionali della vita sembri liberarci dalla dittatura dell’uniforme, del burocratico e del disciplinare, d’altra parte si trasforma nella giustificazione di altre dittature: per citarne una non piccola, quella dell’economia, con i suoi fattori di potere e la sua tecnocrazia. Infatti se oggi a comandare sono il sentimento, l’immagine e l’immediato, ciò è vero soltanto per i consumatori di beni e servizi… e pubblicità mediatica. […]
In sintesi: se non recuperiamo la nozione di verità, e senza una razionalità condivisa, dialogica, una ricerca dei mezzi migliori per raggiungere i fini più desiderabili (per tutti e per ciascuno) resta soltanto la legge del più forte, la legge della giungla.
Questo allarme si unisce con la raccomandazione di non perdere la capacità di immaginare. Mettersi nei panni degli altri è certamente il modo più immediato e semplice per confrontarsi con la capacità di immaginare. È quello che raccomandava sempre da arcivescovo di Buenos Aires quando invocava un recupero di una razionalità condivisa. “Immaginare” a quel tempo Bergoglio lo diceva impiegando un altro vocabolo: “avvicinarsi”, vocabolo che usò, per esempio, per la sua magistrale predica del 7 agosto 2000:
Quando non ci avviciniamo, quando guardiamo da lontano, le cose non ci fanno soffrire e nemmeno ci inteneriscono. C’è un proverbio che dice “occhio non vede, cuore non duole”. Ma succede anche il contrario, soprattutto al giorno d’oggi che vediamo tutto, ma per televisione: cuore che non si avvicina, che non tocca il dolore, cuore che non sente…e, pertanto, occhi che guardano ma non vedono.
Un discorso che ritroviamo sviluppato proprio in quegli anni, nel 2002 per la precisione, da Zygmunt Bauman, che al tempo probabilmente non aveva la minima idea di chi fosse Jorge Mario Bergoglio. In un articolo sul cambiamento determinato dall’essere entrati in un’epoca nella quale siamo tutti spettatori apparso in quell’anno su Rassegna di teologia, Bauman osserva che nell’era della globalizzazione siamo tutti virtualmente testimoni di quanto accade in luoghi remoti dai nostri tinelli, ma
mentre la conoscenza della condizione nostra e degli altri aumenta sempre di più, non si può dire lo stesso della nostra capacità di compiere atti eticamente ispirati. […] I risultati delle nostre azioni e inazioni vanno ben oltre i limiti della nostra immaginazione morale e della nostra prontezza ad assumerci la responsabilità per la buona o cattiva sorte delle persone la cui vita è stata direttamente o indirettamente colpita.
Importantissima è la citazione del concetto “vedere o conoscere” attribuito a Ryszard Kapuscinski, che è interessante qui rileggere perché lo potremmo definire, a posteriori, pienamente bergogliano:
a seconda di quello che viene mostrato l’assorbimento di immagini può impedire anziché facilitare l’assimilazione di conoscenza. Può anche sbarrare la comprensione di quanto viene notato e ricordato, per non parlare della possibilità di capirne le cause.
Qui diventa chiaro che tre essere umani con grande sensibilità e cultura e diversa formazione cultura come l’arcivescovo Bergoglio il sociologo Bauman e il giornalista Kapuscinski sanno pensare con categorie affini e indurci a collegare quanto detto sulla nostra incapacità ad avvicinarci pur vedendo tutto grazie alla televisione anche all’incapacità collettiva dei popoli di avvicinarsi ai popoli loro circostanti pur nella stessa epoca, globale e televisiva. Ovvio che questa visione sia opposta a quella fondamentalista, cioè di diversi e convergenti fondamentalismi.
In una società dove il welfare ha perso risorse e non siamo più capaci di avvicinarci e lo sviluppo che dovrebbe avvicinarci ci allontana, ci isola, l’altro viene percepito come una minaccia e la rabbia diviene nichilismo, etnico, religiosamente ispirato, emarginato. Così società un tempo opulente si ritrovano in crisi, rabbiose, impaurite. Mettiamo insieme i fattori: la globalizzazione ha tirato fuori miliardi di persone dalla povertà estrema riducendo però da noi le risorse per il welfare, siccome è diventata economia globale non è governata dalla politica, ma dal mercato, arbitro unico ma mai auto-regolatore. Questo genera nuove concentrazioni, delocalizzazione della produzione, rabbia.
La delocalizzazione riguarda aree non in conflitto, che sono ricche di materie prime e di valore geostrategico e che sprofondano sempre di più nella miseria, nella disperazione, nella globalità dei conflitti, generando fuga di massa di popolazioni affamate, perseguitate, scacciate. Questo viene usato per far pensare a un’invasione, e usare politicamente la rabbia in chiave populista. Il movimento di milioni di persone mette in cammino culture, fedi, e letture rabbiose delle guerre che da decenni sconvolgono intere “preziose” aree del pianeta. Chi cammina in questo popolo senza terra promesse finisce facilmente nella marginalità urbana, in sacche di sfruttamento malavitoso, e in un’altra rabbia.
Ecco il cocktail amniotico nel quale prosperano le nuove criminalità e le nuove rabbie nichiliste. Immersi nei rischi dei nuovi nichilismi, i cittadini di questo millennio hanno un approccio unilaterale al fondamentalismo, nel senso che riconoscono come tale solo quello altrui.
Il pensiero incompleto è un antidoto, nel senso che ci aiuta a riconoscerli tutti i fondamentalismi, a cominciare dal nostro. Alla base del fondamentalismo c’è infatti il pensiero completo, non certo il credere nei principi fondamentali della propria fede, che credo sarebbe assurdo chiedere che vengano messi in discussione.
Quello fondamentalista è dunque un pensiero autoreferente, che al di là vede solo il diluvio, il peccato, l’errore. E siccome il fondamentalismo non è solo religioso, ma anche “laico”, credo utile ricordare che c’è stato un tempo in cui si discuteva se fosse possibile definirsi “marxisti leninisti” senza trattino, o marxisti-lenisti con il trattino, che dà serenità per quel senso dell’organicità, della completezza vorrei dire. Se si ricorre alla “completezza” nel titolo, figurarsi nello svolgimento. Per questo il fondamentalista ricorre al letteralismo, cioè alla lettura letterale dei testi, perché ha bisogno di ritenere la verità scolpita nella pietra, immodificabile, eterna, appunto, assoluta e sempre completa! Non c’è spazio per l’altro in qualsiasi fondamentalismo: l’altro è un nemico, nel migliore dei casi un problema.
Quanto è accaduto a Macerata pone di tutt’evidenza la stringente attualità dell’unità poliedrica invocata da Papa Francesco, la sua richiesta di non cadere nelle reti fondamentaliste, pena il rischio di scegliere, tramite il nichilismo che ci risulterà più congeniale, la barbarie.

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