I robot e noi

L’automazione totale dei processi produttivi, quale esito della quarta rivoluzione industriale, e le conseguenze sociali di un uso endemico, sostitutivo, degli automi nel commercio e nei servizi, compresi quelli alla persona.
LUIGI PANDOLFI
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Nuove tecnologie e livelli occupazionali. Ricordate il dibattito sull’informatizzazione di qualche decennio fa? A ragione, si sosteneva che i computer avrebbero fatto risparmiare lavoro e rotto definitivamente il paradigma fordista che aveva guidato per alcuni decenni il capitalismo. “Strumenti economizzatori di manodopera”, d’altra parte, scriveva Keynes negli anni Trenta.

Da quando Pietro Ingrao, in una lettera a Rossana Rossanda, parlava di “avvento del video e dell’informatica”, a ogni modo, ne è passata di acqua sotto i ponti, e oggi il tema vero è l’automazione totale dei processi produttivi, quale esito della quarta rivoluzione industriale, e le conseguenze sociali di un uso endemico, sostitutivo, dei robot nel commercio e nei servizi, compresi quelli alla persona.

Le previsioni più ottimistiche, con riferimento alle principali economie del mondo, parlano della perdita di almeno cinque milioni di posti di lavoro nei prossimi cinque anni. Questa cifra costituirebbe il saldo tra il risparmio di lavoro in alcuni settori tradizionali e la creazione di nuova occupazione grazie alla stessa automazione dei processi produttivi. Più cupa la previsione del think tank europeo Bruegel, che, recentemente, ha parlato di un 45-60 per cento di lavoratori sostituiti dalla macchine nei prossimi venti-trent’anni.

Invero, gli apologeti dell’industria 5.0 continuano a parlare di “nuove opportunità di lavoro” e di “perfetta integrazione tra uomo e macchina” nel prossimo futuro (ricorda, beffardamente, il Marx dei Grundrisse che parlava di “lavoro sussunto sotto il processo complessivo delle macchine”), senza spiegare, tuttavia, in che modo la “collaborazione” tra persone e robot potrebbe tradursi in un ampliamento della base occupazionale.

Di certo, ad essere toccati non sarebbero soltanto alcune tipologie di lavori manuali, pesanti e ripetitivi. No: l’intelligenza artificiale rischia di travolgere anche alcune mansioni dei cosiddetti colletti bianchi, fino alla soglia dei lavori della conoscenza.

Fantascienza? Non si direbbe, visti i risultati di questi ultimi anni. Tra progetti in corso, prototipi e prodotti già immessi sul mercato, sono già tante le tipologie di robot, umanoidi e non, che potrebbero rivoluzionare non solo il modo di produrre e di offrire servizi, ma anche i nostri stili di vita e le nostre relazioni sociali. Si stima che già oggi, nel mondo, ci siano un milione e mezzo di robot “occupati”, di cui circa il quaranta per cento soltanto nell’industria dell’auto.

E poi ci sono i numeri, in rapida crescita, di alcune aziende che operano nel settore.

Una veduta dell’area di Syddanmark

In Europa, la patria dei robot è la Danimarca (area ad alta densità di robot in ambito industriale), dove, nella regione di Syddanmark, è sorta una vera e propria “Robotic Valley”. Si tratta di un cluster che ha messo insieme 120 aziende (2200 addetti), dieci istituti di ricerca, specifici programmi universitari e di incubazione di start-up, iniziativa pubblica e privata.

Ci sono, tra le altre, la Universal Robots, azienda leader nel mondo per quanto riguarda i “robot collaborativi”, detti anche cobot, e la start-up Kubo, che ha creato un “robot educativo” in grado di “insegnare la tecnologia ai bambini più piccoli”. La prima, nata nel 2005, ha visto crescere il suo fatturato del 223 per cento negli ultimi cinque anni. Per il futuro prevedono che il mercato dei “robot collaborativi” crescerà almeno del cinquanta per cento l’anno.

Qui, ancora, la nota società di hi-tech giapponese Fujitsu, ha impiantato il suo Center of Excellence for Robotic Process Automation.

KUBO è un educational robot per bambini dai tre anni in su

Se dovessimo basarci sui dati della disoccupazione in Danimarca (sei per cento), non dovremmo temere per l’espansione della robotica. Eppure, nel lungo periodo, è del tutto plausibile che gli effetti sull’occupazione si faranno sentire (ogni robot potrebbe sostituire sei lavoratori, secondo uno studio americano). Non è ipotizzabile, d’altro canto, che tutto il lavoro vivo nei prossimi anni diventi lavoro altamente specializzato, in funzione della “collaborazione” con le nuove macchine. Piuttosto, è più facile immaginare che si accentuerà il divario, anche di reddito, tra lavoratori super-formati e lavoratori dequalificati, con sacche di disoccupazione e di precariato sempre più estese.

Che fare, allora? Non può esservi una risposta univoca a questo interrogativo. Nondimeno, appare chiaro che un ruolo fondamentale, negli anni a venire, dovrà svolgerlo lo Stato. Datore di lavoro di ultima istanza? Perché no, potrebbe servire anche a cambiare il modello di società, investendo laddove la tecnica non arriva o può essere solo di supporto.

I robot e noi ultima modifica: 2018-02-07T19:27:01+01:00 da LUIGI PANDOLFI
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