Accoglienza e inclusione. Il ruolo delle diaspore

Esperti, studiosi e rappresentanti delle istituzioni a confronto sul ruolo centrale delle comunità nella gestione dei problemi legati all'immigrazione
FRANCESCO MARIA CANNATÀ
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Il ruolo delle diaspore Med-Africane in Italia per facilitare l’inclusione di nuovi arrivati, contrastare derive jihadiste o terroristiche e combattere la criminalità che può svilupparsi dentro i fenomeni migratori. Questo il tema di un convegno “Migrazione. Accoglienza, Inclusione, Co-Sviluppo”, organizzato il 7 febbraio a Roma dal Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo) insieme al Centro studi di politica internazionale (Cespi), in collaborazione con il Centro piemontese di studi africani, la rivista Confronti, il Centro studi e ricerche Idos e con il sostegno dell’Unità di analisi, programmazione e documentazione storico diplomatica del ministero degli affari esteri e della Cooperazione internazionale.

Si tratta del secondo convegno di questo tipo dopo quello del 2016. I lavori centrati sul passaggio “Dall’implementazione sul terreno alle ricadute nazionali” sono stati aperti dal direttore del Cipmo, Janiki Cingoli. L’analista ha sottolineato l’appoggio dei partecipanti alla strategia del governo italiano e del suo ministro degli interni: lotta al traffico illegale di essere umani nel Mediterraneo, senza dimenticare la situazione drammatica dei campi profughi in Libia.

Daniele Frigeri (Cespi); Janiki Cingoli (Cipmo); Armando Barucco (Maeci)

Alla base della discussione successiva l’idea che per “combattere l’emigrazione illegale occorra organizzare l’emigrazione legale”. Problema questo impossibile da “affrontare per un solo paese e senza l’indispensabile coinvolgimento delle strutture europee”. Andare oltre la prima accoglienza, sviluppare politiche stabili di inclusione alimentando una comunicazione costante con la società civile, le sue organizzazioni sociali, politiche e religiose e le istituzioni dello stato italiano.

In tutti questi momenti altrettanto fondamentali sono le diaspore. Veri ambasciatori economici verso i rispettivi paesi d’origine. Il contributo del direttore del Cespi, Daniele Frigeri, ha introdotto la prima fase dei lavori. Il responsabile del Centro studi di politica internazionale ha messo in primo piano la complessità del fenomeno migratorio, il suo effetto “disorientante” sull’opinione pubblica e le responsabilità dei media spinte a semplificarlo in maniera eccessiva. Per Frigeri occorre andare oltre l’ottica assistenziale con cui si affronta il fenomeno. Un compito che le diaspore, con la loro trasversalità istituzionale e territoriale, possono aiutare a svolgere.

Armando Barucco, capo unità di analisi programmazione e documentazione storico diplomatica del ministero degli esteri, ha illustrato le basi teoriche al convegno. Secondo il dirigente del Mae negli

ultimi quindici anni il nesso tra politica interna ed estera è si fatto sempre più netto.

Una svolta che per quanto riguarda l’Italia è dovuta non solo al “dibattito internazionalistico nell’era dei progressi della globalizzazione” ma dal fatto che molte delle crisi permanenti attuali avvengano in “aree prossime all’Italia e ai suoi interessi”.

Su questa tela di fondo è poi avvenuta la “democratizzazione della politica estera”. Una “deelitizzazione della diplomazia” che rende indispensabile una politica estera più aperta “basata su interconnessioni e reti di interessi transnazionali”. In un futuro sempre meno “modellato dagli stati e sempre più impregnato da “interconnettività, reti e flussi”, il ruolo delle diaspore secondo Barucco diventa essenziale. Di fronte alla maggiore importanza delle reti transnazionali, l’accresciuta mobilità di persone e cose, di monete e popoli,

gli Stati e le organizzazioni internazionali devono ripensare il proprio ruolo per la gestione delle società.

Su questi argomenti il dibattito in corso è influenzato in maniera determinante dal fenomeno migratorio. Anche per l’Italia, paese che ormai ospita, dopo Francia, Germania e Regno Unito “la quarta comunità musulmana in Europa” ciò comporta il calo del ruolo dello stato nazione basato su criteri etnici. Fenomeno ancora più marcato in un territorio come il nostro da sempre crocevia di popoli e culture.

Da queste premesse ne discende che l’Italia dovrà evitare di assumere

sia il modello francese della netta assimilazione e scelta di campo, sia quello inglese della separazione e la creazione di enclave monoculturali.

Dettata soprattutto dal tradizionale pragmatismo della nostra cultura politica, l’Italia ha fatto la scelta di “favorire l’integrazione attraverso la doppia o tripla appartenenza”. Come è successo per gran parte della diaspora italiana che pur “segnata dalle proprie vicende migratorie non ha mai smesso di coltivare i legami col proprio paese”. Basandosi su questa storia Roma deve ora mostrarsi in grado di

accettare nuovi tipi di cittadini italiani che mantengono forti rapporti con le tradizioni da cui provengono.

Può essere questa la strada capace di minimizzare i rischi dell’immigrazione massimizzandone le potenzialità? Macerata fa capire che non bisogna cullarsi nell’autocompiacimento.

Dopo i saluti istituzionali il convegno si è sviluppato in tavole rotonde. Operando un’inversione concettuale rispetto a incontri dello stesso tipo, il Cipmo ha scelto di dare priorità ai rappresentanti delle diaspore e agli esempi concreti delle attività sul territorio di queste comunità, in un panel introdotto da Tana Anglana.

Per l’esperta di migrazioni e sviluppo la legge 125 del 2014 sulla cooperazione allo sviluppo ha riconosciuto alle diaspore un ruolo attivo nei processi operativi e politici della cooperazione allo sviluppo. Grazie a questa normativa è stato possibile organizzare il summit nazionale delle diaspore presenti in Italia. Ora, dopo il riconoscimento del loro ruolo politico, occorre far si che queste organizzazioni prendano sempre più parte agli sforzi della cooperazione allo sviluppo partecipando ai progetti nei rispettivi paesi d’origine. Così le diaspore possono diventare interlocutori stabili della politica italiana. La costituzione di un forum nazionale delle diaspore è un primo passo in questa direzione.

Tana Anglana (esperta migrazioni e sviluppo)

Dopo il contributo della la ricercatrice, la parola è andata ad Adramet Barry, presidente dell’Alto consiglio dei guineani all’estero. Il giovane, che vive a Torino, ha spiegato come nel 2012 sia riuscito a far invitare il proprio paese al Salone del libro della città sabauda. Un passo che oltre a rendere la Guinea il primo paese africano presente alla kermesse culturale piemontese, nel 2013 l’ha trasformato nell’ospite d’onore, insieme al Cile, dell’evento letterario italiano. Esperienza cui è seguita nel 2015 la nomina della Guinea capitale mondiale del libro fatta dall’Unesco. Esperienze sfociate nell’evento culturale mensile che dall’anno scorso i guineani torinesi offrono alla città sabauda.

Adramet Barry (Alto consiglio dei guineani all’estero)

Meno convincente è stato sempre Adramet Barry quando, basandosi sulla “provenienza da un paese dove non esiste l’altro ma solo un nome un cognome e la regione dove si vive”, ha illustrato un concetto di cittadinanza che, privo della componente “legale”, avrebbe come unica condizione la “presenza sul territorio”.

L’altro partecipante alla prima tavola rotonda del pomeriggio è stato il consigliere comunale e rappresentante della Comunità marocchina di Bra, Abderrahmane Amajou. Per l’amministratore della cittadina in provincia di Cuneo, informazione e conoscenza corrette sono “importanti alleate della coesione sociale e dell’integrazione dei nuovi arrivati”. Per questo su un argomento “come l’accoglienza all’immigrazione che come pochi altri accende gli animi” e su una partita che “si gioca sul territorio” Amajou sottolinea la “grande responsabilità dei mezzi di comunicazione e del modo in cui questi riportano le news”.

Abderrahmane Amajou (Consigliere comunale di Bra)

Si chiede il consigliere comunale:

Perché indicare l’etnia di una persona quando questa non è in nessuna relazione con la notizia?

Fatta questa constatazione Amajou invita gli uffici stampa dei comuni e delle polizie municipali italiane ad assumere come base della propria scrittura delle notizie quanto impone la Carta di Roma. L’impegno di seguire i dettami di un codice deontologico fatto dai giornalisti per i giornalisti è già stato assunto dall’ufficio stampa del comune di Bra, primo in Italia a farlo.

Infine la parola è andata a Simohamed Kaabour. Il presidente del Conngi – Coordinamento nazionale nuove generazioni Italia – ha riportato le esperienze fatte dai cittadini italiani con background migratorio “espressione di una trasformazione che si fatica ad accettare”.

Nella seconda tavola rotonda le istituzioni hanno esposto quanto fatto.

Per Laura Frigenti, direttrice dell’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo, vi è la necessità di fornire un’informazione diversa rispetto al livello di brutalità che attualmente caratterizza la comunicazione dei media. Gianni Bardini, coordinatore al Mae per le politiche inerenti gli stranieri e i minori stranieri, ritiene che grazie al lavoro realizzato si può considerare “conclusa la fase emergenziale prevalente tra il 2014 e il 2016”. Ora siamo di fronte, non solo a livello interno ma anche a quello internazionale, al momento “dell’approccio strategico”.

Un cambio di passo provato dal Global compact per la gestione dei flussi migratori voluto nel 2016 dall’Onu. Un programma che ha l’obiettivo di definire entro l’anno in corso, col vertice di Marrakech, un approccio omnicomprensivo alla mobilità umana fatto di rispetto dei diritti umani, sostegno verso i paesi di accoglimento, integrazione dei migranti, lotta al razzismo e rafforzamento del governo globale dell’emigrazione.

Anche in questo caso l’Italia è protagonista. Grazie al Migration Compact, presentato dal nostro paese nel 2016, è partita la fase della partnership omnicomprensiva. Sarà cosi possibile raggiungere accordi con una serie di paesi: Niger, Nigeria, Senegal, Mali, Etiopia, e il rafforzamento di quelli con Tunisia e Libia.

Camilla Orlandi responsabile del dipartimento per l’integrazione e l’accoglienza dell’Anci, ha evidenziato la diffusività della presenza degli immigrati sul territorio nazionale. Brescia, Milano e Prato sono le prime tre città italiane per presenza di immigrati. La disposizione geografica ed economica del tessuto italiano è dovuta alla presenza di tante città grandi, piccole e medie e della struttura industriale nazionale per tanti versi simile.

Camilla Orlandi (Anci)

Il coinvolgimento nella rete di accoglienza di oltre mille comuni rappresenta un elemento di forza per costruire comunità di base allo scopo di integrare gli immigrati nell’ottica di un “welfare generativo”.

Manuela Brienza, advisor per le politiche per l’immigrazione dell’assessore alle politiche sociali del Comune di Milano ripercorre quanto fatto dalla capitale lombarda che in quattro anni, a partire dal 2013 ha accolto 128.000 immigrati di cui ventottomila minori. E se la Lombardia è regione col maggior numero di immigrati, Milano, unica città udita Ginevra nell’ottobre 2017 per la questione del Global Compact on Immigration and Refugees, è il centro con le carte in regola a candidarsi per la sede dell’Immigration center.

Infine Paolo Naso, coordinatore del progetto Mediterranean Hope-Corridoi umanitari, realizzato dalla collaborazione tra la Federazione chiese evangeliche in Italia, le chiese valdesi e la comunità di Sant’Egidio, ha ripercorso la strada che ha portato ai corridoi umanitari. Nati su iniziativa italiana grazie a una ipotesi interpretativa dell’articolo 25 del regolamento di Schengen sui visti, norma finora mai applicata, l’iniziativa ha finora permesso il rilascio di mille visti umanitari a persone in “condizioni di vulnerabilità” provenienti da Libano, Marocco ed Etiopia. Il docente di Scienza politica alla Sapienza di Roma ha rivendicato l’interesse internazionale ai corridoi umanitari.

Paolo Naso (Mediterranean Hope – FCEI)

L’esperienza italiana è infatti stata ripetuta in Francia e Belgio, è in preparazione in Svizzera e si spera che l’esperimento si possa ripetere anche in Germania. Il successo dell’iniziativa non deve limitarsi alla procedure di accesso. Secondo Naso questa è solo la prima parte di una filiera più complessa che deve includere l’accoglienza. Sarebbe infatti insostenibile immaginare politiche d’ingresso senza contemporaneamente immaginare percorsi di integrazione. In questo senso va l’idea dell’accoglienza “diffusa e partecipata”. Forme in cui la società civile sarà chiamata a fare la propria parte accompagnando i nuovi arrivati nel complesso percorso verso la cittadinanza.

Accoglienza e inclusione. Il ruolo delle diaspore ultima modifica: 2018-02-14T18:56:53+01:00 da FRANCESCO MARIA CANNATÀ
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