Rosso, nero, linea e motivi floreali di tessuti sovrapposti alla tela. Si potrebbero sintetizzare in queste poche parole le linee-guida espressive di Cesare Tacchi, pittore del gruppo di piazza del Popolo, attivo per lo più negli anni Sessanta e Settanta, ai tempi in cui Roma era la vera capitale culturale d’Italia e il cuore del cinema e della “dolce vita”. Ma si peccherebbe di ingenuità o di presunzione.
Nel gruppo, noto anche come “seconda Scuola romana” (per distinguerla da quella di Scipione, Mafai, Stradone e Antonietta Raphael, attiva prima della guerra), spiccavano i nomi di Tano Festa, Franco Angeli, Renato Mambor e, soprattutto, Mario Schifano. Oltre ad una donna, Giosetta Fioroni, compagna di vita di Goffredo Parise e autrice di preziose tele e oniriche opere grafiche.
Al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale in Roma, è dunque possibile oggi tentare di decodificare le chiavi segrete dell’opera di Tacchi (“Cesare Tacchi. Una retrospettiva”, mostra aperta fino al prossimo 6 maggio). Se da un lato le sue cornici vuote sono l’espressione simbolica del contenuto smarrito, irreperibile dell’arte, dall’altro si pongono come un subliminale invito a cercare, a trovare, altri contenuti nascosti per la creazione di nuove forme di un’arte ancora tutta da scoprire.
Le poltrone gialle o rosse, vuote e inutili, così come i ritratti in nero di Renato Mambor o dell’attrice Paola Pitagora, quasi estratti dal fondo della tela con una linea che li profila come un gessetto bianco, costituiscono il terreno di indagine per capire questo pittore, bello e schivo, morto appena quattro anni fa e che a soli 19 anni (nel 1959) partecipò ad una “collettiva” con Schifano e Mambor.

Elisabetta Catalano, Cesare Tacchi Autoritratto, 1972 | © Photo Elisabetta Catalano – Archivio Elisabetta Catalano
Elegante (famoso il suo ritratto scattato dalla fotografa Elisabetta Catalano), Tacchi frequentava come gli altri pittori del gruppo il noto Caffè Rosati in piazza del Popolo, proprio all’inizio di via Ripetta, dove spesso si poteva incontrare anche Jannis Kounellis.
Fu verso la metà degli anni Sessanta che Tacchi intraprese una nuova ricerca introducendo nelle sue opere vari tessuti come raso, seta o stoffe d’arredamento per impreziosire le sue opere nelle quali è possibile percepire un’eco lontana del Gotico fiorito, di Pisanello e, nella sua bellissima opera “Primavera allegra”, un palese richiamo a Botticelli.
Fu la stagione forse più creativa del pittore che, negli anni Ottanta, si dedicò a tele luminose di brillanti acrilici come il “Sécrétaire” o “Uccel di bosco” in cui, forse inconsapevolmente, lucentezza e campitura dei colori strizzano inopinatamente l’occhio al “doganiere” Rousseau.
Riservato e meno conosciuto dei suoi colleghi, Cesare Tacchi trova però una sua vera completezza nel gruppo. Il carattere tutt’altro che riservato di Franco Angeli , sanguigno protagonista di violente liti con le sue amanti (la più famosa forse fu Marina Lante della Rovere, poi Ripa di Meana) o il mondo magico delle “tele goccianti” di Mario Schifano, strappato alla realtà vera dall’uso smodato di quelle droghe che lo porteranno alla morte, così come l’amore per il teatro di Renato Mambor e della sua amica Paola Pitagora o il visionario Tano Festa che si definiva “pittore cattolico, apostolico, romano” e che amava De Kooning e Pollock e, tra gli italiani, l’emiliano Antonio Ligabue spesso paragonato, per lo stupore e l’ingenuità delle sue tele, a Henri Rousseau. Tutti i vizi e le virtù dei singoli si univano e si mescolavano nel gruppo di piazza del Popolo, ciascuno dava e riceveva in termini di intuizioni e di visioni.
Il gruppo era un terreno di coltura in cui fermentavano le idee che ogni singolo artista captava facendole proprie attraverso il filtro della propria personale arte.

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