Kim, ribelle per sempre

A quarant'anni dalla scomparsa un ricordo del veneziano Franco Kim Arcalli, partigiano combattente (la beffa del Goldoni), sceneggiatore e montatore “cruciale” del cinema italiano
ROBERTO ELLERO
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Ci vorrebbe uno scrittore, un romanziere, per dar conto della complessità di vita e di carattere del veneziano Franco Arcalli, il Kim della guerra partigiana e poi, per un decennio abbondante fra gli anni Sessanta e Settanta, figura originalissima del cinema italiano, scomparso prematuramente quarant’anni fa, il 24 febbraio 1978, a Roma, dov’era anche casualmente nato nel 1929, col cognome Orcalli, modificato per sbaglio all’anagrafe o forse per prendere subito le distanze da un omonimo monsignore. Ci vorrebbe uno di quegli scrittori che sanno abilmente romanzare verità e finzione, storia e leggenda. E non per il gusto di barare, scoprendo o innalzando altarini, ma per capire meglio il senso più autentico e profondo di certe parabole esistenziali.

Ci vorrebbe… Per ricordare Kim accontentiamoci una volta di più – e non è affatto poco – dei libri editi da Marsilio per conto del Comune di Venezia (e del suo allora nascente Circuito Cinema) nel 1980: “Kim e i suoi compagni, sulle esperienze resistenziali”, curato dal compagno d’armi e ideali Giuseppe Turcato, e “Kim Arcalli. Montare il cinema”, a cura di Marco Giusti e Enrico Ghezzi, giovani critici già agguerriti (questo secondo volume è stato ristampato dieci anni fa per iniziativa del Sindacato critici cinematografici). Libri datati ma ricchi di documentazione, tracce e testimonianze (trarremo da lì le successive citazioni), una manna per chi volesse ripartire, prima che la memoria svapori del tutto.

Vita romanzesca, quella di Kim, con un soprannome che chiama in causa Kipling e fa tanto letteratura, anche se in realtà starebbe, in origine, per l’acronimo di una scuola sovietica per giovani comunisti. A quattro anni perde il padre, in circostanze tragiche, forse ucciso dai fascisti. Uno zio veneziano, Giuseppe Stefani, il mitico Bepi Carta, lo porta a vivere con sé e con la moglie Arpalice a Venezia, non lontano da quella cartoleria di San Polo dove pare si stampi clandestinamente, forse anche l’Unità.

Franco era molto vivace, era sempre il primo nei giochi spericolati. Nel 1936 fui mandato al confino e ritornai a Venezia il 1° gennaio 1942. (…) Quando lo rividi era ormai più che un giovanetto, e non solo per la statura.

Kim cresce in fretta. Con altri ragazzi di San Polo dà una mano nella distribuzione della stampa comunista. Non fa nulla per farsi notare, anzi, ma ai compagni del Partito non sfugge questa sua apparente impassibilità, unita a doti di coraggio. Dopo l’8 settembre è già nei ranghi della Resistenza e partecipa nell’entroterra veneziano alle prime azioni armate. Nel giugno del 1944, da poco quindicenne, gli vengono affidate responsabilità di comando nella provincia di Padova. Nel dicembre di quello stesso anno, ritornato a Venezia, è promosso comandante di battaglione. È in tale veste che la sera del 12 marzo partecipa alla celebre “beffa del Goldoni”, con i partigiani in armi che s’impossessano del teatro veneziano.

Al Teatro Goldoni – ricordava Turcato – si dava la commedia Vestire gli ignudi di Pirandello. Quel titolo assunse per noi un significato profondo e d’auspicio. Si era all’inizio del secondo atto e il gruppo partigiano della “Biancotto” in pochi minuti si era già reso padrone della situazione. […] Gli spettatori si domandavano cosa stava succedendo. Una nuova invenzione o fantasia di questo nostro drammaturgo? Cesco (Chinello, ndr), al centro della ribalta, con voce ferma, disse parole di fede e di coraggio, per le sorti e l’avvenire del nostro popolo.

1 maggio 1945, Riva degli Schiavoni molti dei protagonisti della beffa del Goldoni. In piedi da sinistra: Giovanni Dinello “Borel”, Renato De Faveri “Oc”, Cesco Chinello, Franco Arcalli “Kim”, Giuseppe Turcato “Marco”. Inginocchiati: Delfino Pedrali “Gastone”, Otello Morosini “Totò”, Ottone Padoan “Michele”, Giovanni Guadagnin “Gin”, Giovanni Citton “Moro”, Mario Osetta “Leo”.

Uno smacco tremendo per i nazifascisti, uno sprone non da poco per tutti gli altri, forse un primo segnale di Liberazione, che verrà mesi dopo, il 28 aprile a Venezia, in un tripudio di “rosso” mai visto prima. Poi, il difficile ritorno alla normalità, magari avara coi resistenti e generosa con i fascisti. Kim fa cento mestieri, per lo più umili, lavora alla Breda, dove saranno sanguinosi gli scontri con la polizia nel 1950, mette su famiglia, ha un figlio, accompagna le prime delegazioni cinesi alla Mostra del Cinema.

Kim, Marco e Cesco, nel marzo 1945

La sua è una generazione che incrocia spesso il cinema, magari alle proiezioni del Circolo Pasinetti. Lui fa anche la comparsa (Senso, Mambo) e collabora alla regia di un corto amatoriale di ispirazione neorealista e di poetica pasinettiana (“Venezia ore 5” di Renato Dall’Ara, 1955). Due anni dopo dà vita con l’amico Gianni Scarabello al film di montaggio “Sul ponte sventola bandiera bianca” (1957), sulle storiche vicende del Quarantotto veneziano. Infine Tinto Brass, con i due corti “Il tempo libero / Il tempo lavorativo” commissionati da Umberto Eco per la Triennale di Milano, con il lavoro di montaggio “Ça ira – il fiume della rivolta” e soprattutto con il film rivelazione “Chi lavora è perduto”, tutti fra il ’63 e il ’64.

Per noi – ricordava ancora Turcato – non ci fu sorpresa quando vedemmo “Chi lavora è perduto” nel quale Kim era fra gli attori. Chi ha conosciuto Kim sa bene perché ha voluto la parte di un giovane che, dopo esperienze di guerra, di protesta e di rivendicazione operaia, turbato e sconvolto, finisce nel nosocomio di San Servolo. Agli amici che vanno a trovarlo egli dice: “So deventà mato”. Agli incoraggiamenti che gli vengono rivolti risponde: “No ghe credo più a nissun”. E mentre gli infermieri lo trascinano via grida: “Perché mi, a la gente, ghe go volesto ben”

Subito dopo, Arcalli si trasferisce a Roma e dà inizio alla sua avventura cinematografica. Lavora, tra gli altri, con Zurlini, Questi, Brusati, Scola, Fellini, Patroni Grifi, Samperi, Eriprando Visconti. E in seguito con Antonioni, Bellocchio, la Cavani, soprattutto con Bernardo Bertolucci. Si fa un nome come montatore ma da un certo momento in poi verrà accreditato anche come sceneggiatore, lui che non scriveva una riga. E questa cosa va spiegata, perché fa parte anch’essa del romanzesco.

Diciamo intanto che il montaggio non era il mestiere più ambito nel mondo del cinema. Almeno prima di Kim. Perché maledettamente vicino alle istanze della produzione, o se preferite del “capitale”. Ricordate le battaglie di Orson Welles per il last cut? Mantenere il controllo dell’opera filmica sino all’ultimo taglio di montaggio, quello definitivo. E dunque, per la produzione, meglio un montatore amico che nemico, meglio accondiscendente che ribelle. E la moviola come luogo simbolico del potere filmico, imperialista si diceva in quegli anni.

Per Kim è in un certo senso la “presa del potere”. Lavora anche su commissione ma prevalentemente con chi gli piace. E a modo suo, dominando il “girato” e rimontandolo secondo i suoi gusti e le sue predilezioni, che non sempre corrispondono ai desideri della produzione o degli stessi registi. Che tuttavia gli sono grati e riconoscenti quando – spesso – la sua creatività migliora i film, imprimendo un ritmo altrimenti inesistente. In altre parole, i suoi montaggi sono scrittura e spesso riscrittura, costituiscono in certo qual modo una seconda nuova regia, senza mai mancare di rispetto ad autori peraltro personali e molto esigenti, con cui vanta belle collaborazioni e spesso solide amicizie. E siccome si mostra quanto mai abile nel risolvere problemi e suggerire soluzioni, perché non approfittarne già in sede prefilmica di sceneggiatura?

Il Kim restituitoci dalle testimonianze non nutre particolari simpatie per il cinema della nouvelle vague, preferisce certi classici del cinema americano. È un autodidatta, conoscenza implicita, intuito e esperienza, non certo un teorico, ama le avanguardie sovietiche ma Dovženko piuttosto che Ejzenštejn o Vertov, non sopporta i piani-sequenza (allora di moda) e opta volentieri per stacchi rapidi, senza necessariamente sposare in toto le ragioni del pop (già quasi pubblicità) ma prediligendo storie che si sviluppano su differenti piani temporali. È amico di Nono e Maderna, ama tutta la musica, jazz e rock, ma la “musicalità” è per prima cosa nell’accostamento anche dialettico delle immagini. Non gli piace il Sessantotto e resta fedele alla linea del Partito: improbabile che il Partito gli sia rimasto fedele. Leggenda vuole che si barrichi in moviola (all’epoca non si parlava di digitale) e che lì, fra rotoli di pellicola che solo lui sa governare, procedendo di persona alle giunte di montaggio, rida in continuazione. Ride e beve, preferibilmente di notte, intere nottate passate a quel tavolo di montaggio. Per il resto, veste giacca e cravatta, borghesissimo, piace alle donne e le ama, è di compagnia, mangia (e per l’appunto beve) in abbondanza. Vagheggia un passaggio alla regia che non si compirà mai e intanto accumula malanni, l’ultimo – allo stomaco – fatale.

Si dice che il personaggio del Marlon Brando di “Ultimo tango a Parigi” fosse in realtà Kim, titolo provvisorio “La petite mort”, ovvero l’amore stesso secondo Bataille, autore molto frequentato e amato da Kim, in fondo ribelle a quindici anni e per sempre, con tutto ciò che di grandioso, utopico ma anche di autodistruttivo i ribelli per sempre portano inevitabilmente e inseparabilmente con sé.

Di Kim Arcalli si parlerà alla Casa del Cinema di Venezia (San Stae) mercoledì 28 febbraio alle 17, per iniziativa dell’Iveser – Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea e del Circuito Cinema comunale, con interventi di Marco Borghi, Giulio Bobbo, Roberto Ellero e Giuseppe Ghigi.

Kim, ribelle per sempre ultima modifica: 2018-02-22T11:14:26+01:00 da ROBERTO ELLERO
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