Era il 18 agosto 2014. Sull’aereo che lo riportava a Roma dal suo viaggio in Corea del Sud, papa Francesco riflettendo sui drammatici accadimenti che insanguinano il mondo, lancia questo profetico grido d’allarme
Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli.
Bergoglio denuncia l’efferatezza delle guerre non convenzionali e che sia stato raggiunto “un livello di crudeltà spaventosa” di cui spesso sono vittime civili inermi, donne e bambini.
La tortura è diventata un mezzo quasi ordinario. [Questi] sono i frutti della guerra, qui siamo in guerra, è una Terza guerra mondiale ma a pezzi.
E un pezzo tragicamente importante di questa terza guerra mondiale a “pezzetti” si sta oggi combattendo in Siria.
Una guerra internazionalizzata che va ben oltre il controllo di una cittadina ai più sconosciuta nel nord della Siria: Afrin.
Nel clamore delle armi, una guerra per procura si sta dunque trasformando nello scontro tra eserciti, e pertanto tra stati. Si ridefiniscono alleanze sul campo (di battaglia), i nemici di ieri sono gli alleati di oggi e viceversa. E i patti che sembravano di ferro, come quello tra la Russia di Putin e la Turchia di Erdoğan, vacillano. La quotidianità è cronaca di guerra e come tale si aggiorna di ora in ora. Ma tale rimane, cronaca di guerra, per l’appunto, dove la diplomazia si riduce a vuoti appelli alla moderazione e a improbabili tregue umanitarie.
Non c’è nulla di difensivo nelle azioni e nei propositi messi in atto dalle potenze, globali e regionali, che si muovono sul devastato teatro siriano.
La guerra al terrorismo, ieri l’Isis e oggi per Ankara i curdi siriani dell’Ypg, è solo un pretesto dietro al quale si celano disegni egemonici, volontà di modificare unilateralmente i propri confini nazionali, spezzare ogni velleità indipendentista (il Grande Kurdistan), rafforzare i propri sbocchi nell’eldorado mediterraneo (Russia), fare della Siria uno degli assi portanti della mezzaluna sciita iraniana…
In questo scenario, la permanenza o meno di Bashar al-Assad, il “criminale di Damasco” risulta un fatto secondario, transitorio.
L’intervento militare di Ankara sta sottoponendo a un insostenibile sforzo però i rapporti già sfibrati non solo con gli Stati Uniti ma anche con la Russia, alleato chiave di Damasco. La decisione di Damasco potrebbe deteriorare ulteriormente i rapporti Ankara-Mosca, Erdoğan aveva già avvertito il suo omologo russo Vladimir Putin che qualsiasi sostegno dal regime siriano all’Ypg, “avrà delle conseguenze”. E l’assedio annunciato rientra nella strategia preventiva di Ankara.
Al leader del Cremlino, Erdoğan ha ribadito un proposito non negoziabile: “La Turchia non si fermerà”.
Mosca, dal canto suo, sembra voler dare ragione al presidente siriano, che difficilmente si muove senza una via libera preventivo della Russia, e teme una presenza turca nel paese mediorientale. Il ministero degli esteri, Sergei Lavrov ha dichiarato
Abbiamo ripetutamente affermato che sosteniamo pienamente le legittime aspirazioni del popolo curdo. Riteniamo sbagliato – ha aggiunto riferendosi alla situazione ad Afrin – che qualcuno approfitti delle aspirazioni del popolo curdo per i suoi giochi geopolitici che non hanno nulla a che fare con gli interessi dei curdi e della sicurezza regionale.
L’operazione “Ramoscello d’ulivo” ha messo a dura prova anche i legami già difficili tra Ankara e Washington, che aveva sostenuto i combattenti di curdi di Ypg nella lotta contro i jihadisti dello Stato islamico in Siria.
Gli Stati Uniti hanno invitato la Turchia a mostrare moderazione, avvertendo che l’offensiva rischia di diluire la lotta contro i terroristi. Per risposta, Erdoğan ha minacciato di estendere l’offensiva alla città di Manbij, controllata dalle Ypg.
Nel tentativo di allentare la tensione con un alleato di Washington nella Nato, il segretario di stato americano Rex Tillerson aveva fatto una visita ad Ankara la settimana scorsa durante la quale aveva tenuto un lungo colloquio con Erdoğanterza e il ministro degli esteri Mevlüt Çavuşoğlu. Ne erano usciti con l’intenzione di lavorare “insieme” in Siria per superare la loro crisi, con “priorità” alla ricerca di una soluzione per la città strategica di Manbij.
Putin sembra aver scelto da che parte stare: con Assad, di cui è il burattinaio, e con l’Iran. Quanto all’America, il Pentagono arma i ribelli curdi che, però, hanno stabilito un patto d’azione anti-turco con Assad che Washington considera un ostacolo da rimuovere sul cammino della stabilizzazione.
Anche Trump ha scelto i propri alleati in Medio Oriente: Israele e Arabia Saudita. E sia Gerusalemme che Riyadh hanno un nemico comune contro cui fare fronte: l’Iran. E se oggi per contrastare l’espansionismo iraniano, e dei suoi alleati sciiti di Hezbollah, significa sostenere il “sultano di Ankara”, per Netanyahu e l’erede al trono saudita, il giovane e ambizioso principe Mohammad bin-Salman, “no problem”.
Israele, in particolare, ha scelto di sostenere sette gruppi ribelli non jihadisti che agiscono, in particolare, a ridosso delle strategiche Alture del Golan: meglio loro che i lealisti che si portano appresso i pasdaran iraniani e gli hezbollah libanesi.
Quanto ai sauditi, una sconfitta iraniana in Siria potrebbe avere un effetto domino su altri due fronti caldi nella regione: lo Yemen e il Libano. Per questo i petrodollari delle monarchie sunnite del Golfo torneranno, se mai sono cessati, a alimentare gli arsenali dei nemici (anche qaedisti) di Assad e dei suoi protettori.
Il fatto è che tutti gli attori, regionali e internazionali, della mattanza siriana concepiscono la “pace” come il portato dei rapporti di forza determinati sul campo di battaglia. La diplomazia delle armi imporrà, un giorno, i posti in prima fila nella “Jalta mediorientale”. E in questa “Jalta”, a differenza di quella che ridefinì gli assetti del mondo dopo la sconfitta del Reich nazista, non vi sarà un Churchill europeo al tavolo, neanche nella parodia macroniana.
L’Europa semplicemente non esiste nel grande Medio Oriente, né come soggetto politico né come attore militare.
Il prezzo più alto del conflitto continua comunque a essere pagato dalle popolazioni civili. Per il terzo giorno consecutivo, i raid aerei delle forze lealiste siriane hanno continuato a martellare Ghouta Est. Il bilancio è ormai a duecento morti e l’Onu avverte che la situazione è fuori controllo.
L’Unicef ha diffuso un comunicato in bianco a indicare che, per tanto orrore, non ci sono parole: “Nessuna parola renderà loro giustizia”. Il comunicato è stato diffuso dopo i feroci bombardamenti delle forze lealiste sull’enclave ribelle, alla periferia di Damasco.
Nessuna parola renderà giustizia ai bambini uccisi, le loro madri, i padri e i loro cari
ha detto Geert Cappelaere, direttore dell’agenzia Onu per l’area mediorientale. Parole seguite da una pagina in bianco. E nel postscriptum, un’aggiunta:
Non abbiamo più parole per descrivere la sofferenza dei bambini e la nostra indignazione. Coloro che stanno infliggendo queste sofferenze hanno ancora parole per giustificare i loro atti barbarici?
Circa duecento civili, tra cui circa sessanta bambini, sono stati uccisi da domenica da violenti bombardamenti
Posso dirvi che è stato un inferno, abbiamo visto bambini morire nelle nostre mani a causa di gravi ferite quando sono arrivati tardi all’ospedale
ha detto all’agenzia tedesca Dpa Mohammed, medico in uno degli ospedali della Ghouta orientale. Secondo il medico, almeno quattro ospedali della zona sono stati presi di mira lunedì sera.
Perché il mondo è ancora in silenzio? Questo non è un film, questa è la realtà
ha aggiunto Mohammed, auspicando l’intervento della comunità internazionale.
Nell’area è in corso anche una grave crisi umanitaria poiché gli aiuti arrivano con il contagocce e mancano medicinali e generi di prima necessità.
Il governo siriano, sostenuto dalla Russia, sta intenzionalmente colpendo i suoi cittadini della Gohuta orientale. Non solo questa popolazione soffre a causa di un assedio crudele che si protrae da sei anni, ma ora è anche intrappolata sotto intensi bombardamenti quotidiani che hanno lo scopo di uccidere e ferire civili e che per questo costituiscono evidenti crimini di guerra
dichiara Diana Semaan, ricercatrice di Amnesty International sulla Siria.
Da sei anni la comunità internazionale sta a guardare di fronte ai crimini di guerra e contro l’umanità commessi dal governo siriano nella completa impunità
ha aggiunto Semaan. E ha aggiunto
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite deve far applicare le sue stesse risoluzioni che chiedono la fine degli assedi delle zone abitate dai civili, la cessazione degli attacchi nei loro confronti e l’accesso senza ostacoli degli aiuti umanitari. Gli Stati membri permanenti, Russia inclusa, non dovrebbero impedire l’adozione di misure per porre fine a queste atrocità di massa.
Ma questa più che una speranza, è una illusione. Perché in Siria l’umanità è morta. E la terza guerra mondiale “a pezzetti” sempre più grandi è iniziata.

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